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martedì 19 aprile 2022

Saper Fotografare (parte settima): storia di un fotografo…verso la fine!!!– di Mauro Ragosta

 

I grandi amori, le simpatie magistrali, le relazioni fondanti e fondamentali della propria esistenza presentano vicende sempre diverse nel tempo e a seconda delle fasi della vita, la cui grammatica sovente è sconosciuta, e conoscibile solo ex post, ovvero dopo averle vissute. La linearità e la coerenza non sono contemplate in tali ambiti, essendo queste esclusiva prerogativa della TV, dei processi industriali ed informatici. Nella Realtà e nella mente e ovviamente nelle relazioni, tutto si muove secondo logiche superiori che vanno ben al di là del razionale e dello stesso linguaggio, che non riesce ad esprimerle in nessun caso compiutamente. E così un rapporto importante è fatto, a tratti, di scambio intenso, a tratti, di silenzi e assenze, a tratti di convergenze, a tratti di divergenze, a tratti… a tratti…a tratti…

Così fu per me con l’Arte Fotografica. Dopo un’intesa relazione d’amore e di scambio, tutto si arrestò nel luglio del 1988. Il rapporto non morì, tuttavia, ma entrò in una fase di sospensione. Per lunghi anni la dimenticai, ma la mia fu solo una rimozione, come dicono gli psicologi. Lei, la fotografia aveva lasciato dentro di me molti segni, moltissimi quesiti, troppi ricordi, non pochi vettori di piacere.

Avevo deciso, prima di chiudere i battenti dello studio, di inocularmi una dose importante di cultura: questo era il mio primo obiettivo, mentre la fotografia divenne solo una logica conseguenza di questo, meglio dire in un rapporto circolare e di interdipendenza. Vero è che, nella maggior parte delle ipotesi, non è distinguibile l’amore per il Sapere e la Cultura da quello per la fotografia, quale loro rappresentazione, essendo, sempre e in ogni caso, “i primi la miccia e la seconda l’esplosivo”. Eh sì, perché i Saperi, la Conoscenza possono essere trasferiti o produrre i loro effetti solo tramite strutture comunicative, quali i linguaggi, la scrittura e dunque anche al Fotografia. Viceversa siamo di fronte a esistenze autistiche, che si risolvono in sé e lo scambio con l’esterno è ridotto prevalentemente all’indispensabile per restare in vita.

Sotto altra prospettiva, la Fotografia, per più di un decennio, visse in me sottotraccia, nei recessi più profondi dell’animo, senza mai emergere alla coscienza. Crebbe così nelle oscurità del mio essere.

Tutta la mia attrezzatura fu abbandonata e occultata nel garage. Fu questa l’azione principale a cui ricorsi per purgarmi e depurare quel pezzo di vita dal 1983 al 1988, che riemerse in vesti diverse, ma altrettanto seducenti e suadenti, sul finire del 1999, quando, sulla scia della convinzione che l’Arte Fotografica poco avesse a che vedere con la tecnologia, comprai una compatta della Olimpus. Ripartii dunque dall’assunto che la Conoscenza e la Cultura fossero i motori della mia “amata passione”, i quali non dovevano essere contaminati dalla tecnologia, se non negli aspetti minimali, essenziali, indispensabili. Insomma, mi occorrevano solo un obiettivo, un pulsante di scatto, un otturatore e una pellicola. Ripartii da qui infatti.

Da principio cominciai a lavorare sui significati, considerando molto i simboli, le allegorie, le metafore, spesso utilizzando climax, metonimie e ossimori. La situazione, intanto, era profondamente cambiata: se dal 1983 al 1988 avevo osservato la Realtà tramite l’obiettivo, realizzando mediamente 30.000 scatti all’anno, ora osservavo la Realtà con i miei occhi e con la mia mente 30.000 volte per poi realizzare 15 scatti all’anno. Nel 2007, in ogni caso, pubblicai, ovviamente in tiratura limitata, il mio primo libro fotografico, titolandolo “tracce”, perché nei primi anni di nuova vita da fotografo quelle che raccolsi tra il 2000 e il 2007 furono solo tracce da seguire, poche tessere di un grande mosaico.

I motori culturali nel frattempo andavano a pieni giri, per cui la mia fotografia si arricchiva, giorno dopo giorno, di motivi, spunti, idee, spesso inedite. Di certo, il mio processo culturale mi fece approdare a dei totem ideologici fuori dal Sistema Capitalistico e Consumistico, proprio quando questo Sistema, nelle sue declinazioni a favore e contro, stava raggiungendo l’apoteosi in tutto il Mondo.

Tutta la fotografia è legata ai processi politici. Il punto fu che anche la mia era politicizzata, ma di una politica tutta personale e antisistema, o comunque diversa da quella di Sistema, sia nella versione pro che contro, e che dunque non trovò acquirenti, né finanziatori di sorta. Sicché, mi ritrovai che non ero un professionista, ma neanche un dilettante: un vero dramma? Forse…

Insomma, io e lei, in questa nuova fase del nostro amore cominciammo a trovare soluzioni di-verse, uniche e Originali. E sebbene non avessimo parametri di riferimento sulle sponde ordinarie, ci trovammo sempre meglio assieme, intercettando delle soluzioni perfettamente attagliate alle nostre esigenze più profonde…nascoste…

 

Mauro Ragosta


domenica 10 aprile 2022

Saper Fotografare (parte sesta): Storia di un fotografo… ancora – di Mauro Ragosta

 

            La morfologia delle relazioni magistrali, quelle che prescindono dalle stesse volontà delle parti, assume sempre tratti diversi nel tempo. E ciò vale soprattutto proprio per quelle che permangono per lunghi e lunghissimi periodi di tempo, come per me è stata la relazione con la Fotografia.

E così è facile che si passi da una relazione intima, stretta, piene di passione, ad una più diluita nel tempo, a tratti arcana e misteriosa, sino ad arrivare a posizioni di assenza, dove il rapporto rimane ugualmente sempre vivo e attuale, magari in forma di elaborazione personale, per poi dare vita ad una nuova fase più “di contatto”. Quale prima, quale dopo poco importa, non è rilevante, quello che interessa, invece, è che le relazioni magistrali nel tempo mutano forma e contenuto, come per me è accaduto con l’Arte Fotografica.

            Ed in effetti, dopo aver aperto lo Studio a Lequile, nel 1985, l’anno dopo mi traferì a Lecce in una struttura situata nel centro storico, avendo bisogno di più spazio. E così, nei pressi di Porta San Biagio, trovai un locale di circa 400 mq, che mi consentii, dopo un’attenta politica di investimenti, di allestire tre set: uno per la moda, l’altro per lo still life e l’altro ancora per le produzioni tessili della provincia, ed in parte, per le produzioni di mobili. In ogni caso, i clienti non erano solo pugliesi, ma anche campani, ed un paio di Milano.

            Fu una progressione impressionante a tal punto che i miei concorrenti si ridussero di molto: solo i più grossi studi pugliesi, di cui due situati a Bari e uno a Maglie. Insomma, giocavo al top, a livello di apicale, dove tutto si complica enormemente. La fotografia industriale e commerciale, poi, era una sorta di partita a scacchi con l’utenza finale, dove il valore del fotografo dipendeva dall’efficacia economica delle sue immagini. E qui, la tecnica e la tecnologia avevano un ruolo, ma non di primissimo piano: erano importanti, ma non decisive. Nella fotografia professionale a monte di tutto v’è l’idea, poi il progetto, ed infine tutte le attività legate allo scatto e alla scenografia.

            Sicché la fotografia si risolse in una sorta di dialogo tra me e i consumatori, dove il livello dei loro consumi in gran parte dipendeva dall’immagine che rappresentava i prodotti da acquistare.

          Una progressione questa, che in parte fu casuale, in parte dovuta alla spinta di alcuni industriali, che in me avevano trovato la chiave per proporre e smistare le loro produzioni. Spesso, infatti, in ambito industriale il fotografo ha un ruolo centrale, fondante e di particolare riguardo. È lui che crea l’idea del prodotto e di tutti i concetti di contorno e accessori. Per avere un’idea, basti considerare che il prezzo di una mia foto nel 1986/87 variava da un minimo di 150.000 Lire sino al milione di Lire. E al tempo, non si esborsavano simili cifre se il prodotto non dava un rientro 30 volte superiore.

          Ad ogni modo, tutto si mosse in un crescendo sino alla fine del 1987, quando il mio sistema entrò in crisi non solo per fattori interni, ma anche per dinamiche di mercato. Da un lato compresi che la mia progressione dipendeva in gran parte dalla mia crescita culturale. E capii subito che se non avessi fatto grossi investimenti in cultura tutta la maestosa impalcatura posta in essere sarebbe crollata in maniera impietosa. Infatti, prima di tutto, la mia impresa era impresa culturale, poi tutto il resto. Dall’altra, i due studi fotografici di Bari, che erano strutture agganciate a sistemi produttivi e finanziari più complessi e solidi, mossero “guerra”, intravedendo in me un pericolo non trascurabile, soprattutto per il mio ritmo di crescita. E tutto ciò avvenne tramite un vistoso abbassamento dei loro prezzi, lo spionaggio industriale e la pressione sul sistema bancario.

            Così, se da un lato non avevo una struttura finanziaria tale da reggere una “guerra”, dove neanche i miei clienti più potenti e affezionati riuscirono a far pressione sulle banche, mentre in tutto questo la famiglia fu latitante, dall’altro l’assoluto bisogno di iniezioni culturali importati, per supportare la produzione e reggere il mercato, portarono alla decisione di uscire dall’intero business.

Sicché in giugno del 1988 chiusi lo studio e in luglio fui di nuovo a Napoli, per dare l’ultimo esame all’università e realizzare la tesi, che discussi un anno dopo, il tutto in una prospettiva di crescita culturale. E ciò anche per mantenere in vita il mio amore per la fotografia, uno dei più importanti nella mia vita.

È vero il business, la carriera, il danaro sono questioni importanti, ma senza amore sono argomenti morti. Ed io non amavo loro, ma la fotografia… con la quale il legame rimase inalterato nei decenni a venire, cambiando solo la morfologia...

 

 

Mauro Ragosta (1)