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giovedì 31 ottobre 2019

Stile e buongusto (parte quarta):…a tavola, al bar – di Mauro Ragosta


         Non è azzardato affermare che, la persona volgare, il più delle volte, è il risultato di un mix tra confusione e arroganza, le quali sovente si pongono in una relazione di circolarità. Al riguardo, è utile marcare che, per gli over 50 tale questione si presenta particolarmente delicata, perché, almeno nel caso italiano, in assenza di una propria elaborazione del vivere, se non con stile, quantomeno coerente e civile, sovente si è in presenza di soggetti che hanno subito più tipi di inculturazione molto diversi tra loro e pertanto, il loro incedere non è raro che sia disarticolato e confusionario, pieno di vistose ed imbarazzanti contraddizioni ed antinomie.
         Ciò premesso, si potrà meglio comprendere come comportarsi a tavola o seduti al tavolino di un bar in compagnia, per un caffè. E’ chiaro che qui si offriranno solo alcuni dettagli su come regolare il proprio contegno, richiedendo l’argomento spazi letterari molto più vasti. In ciò, non mancherà da parte nostra di dedicare all’argomento ulteriori riflessioni.
         Ad ogni modo, come messo in luce nel pezzo precedente di questa rubrica, in primo luogo, quanto si dirà sarà inquadrato, tra le altre, secondo il principio del “maggiore” e del “minore”. Ed ecco che, a tavola, al di là del come si usano le posate ed i bicchieri, una regola fondamentale è quella che è il “maggiore” a dare il via alla consumazione della portata. Ma ciò che è più importante, affinché un pranzo (o una cena) si svolga in maniera armoniosa e fluida, senza confusione di sorta, è che si deve capire che è il “maggiore a stabilire la fine della consumazione di una portata. Va da sé, che il “minore” inizierà a degustare la portata solo dopo che avrà cominciato il “maggiore” e finirà quando “il maggiore” ripone le posate nel piatto (sull’uso delle posate ci soffermeremo più in là). Solo così, una portata dopo l’altra, il pranzo si svolgerà nell’ordine, avrà un ritmo, ed in definitiva, avrà una sua armonia, che è presupposto di ogni bellezza.
         Stessa regola vale per una consumazione al bar, seduti al tavolino. Qui, la sequenza vede, però, il “maggiore”, chi ha buon gusto, dare la precedenza al “minore” nell’ordinare la consumazione. E qui, ecco che lui, “il maggiore”, ordinerà al cameriere, in ultima battuta, qualcosa che potrà consumare in un tempo ragionevole, e tale da dare al “minore” l’opportunità di finire assieme a lui la sua consumazione. In ogni caso, è sempre lui che avvia e conclude il momento conviviale. Va da sé, che per un uomo di buon gusto e galante, in tali circostanze, cede la posizione di “maggiore” all’elemento femminile. Sicché, in presenza di una donna, sarà sempre questa a dare l’avvio e a chiudere il momento conviviale.
         In buona sostanza, è imbarazzante, se non proprio disgustoso, trovarsi nella circostanza di rimanere a guardare il proprio compagno o compagna di consumazione, o un commensale, mentre “mangia o beve”. E’, quindi, buona regola che la consumazione di una portata o di una colazione al bar si facciano assieme e nello stesso tempo.
         Circa il pagamento del conto, sia al ristorante sia al bar, è sempre a carico di chi invita al momento conviviale, avendo riguardo di non far pagare mai ad una signora, sempre che non sia una colazione o un pranzo d’affari. Qui, la distinzione tra i sessi non conta. E’ assolutamente esclusa ed in maniera ferma, poi, l’ipotesi dei noti pagamenti “alla romana”. In questi casi, è evidente che il momento conviviale non ha alcuna valenza per i convenuti, almeno sul piano dell’interesse personale: è un inutile perder tempo. E qui, la persona di stile e buon gusto si esime dal farsi coinvolgere in tali circostanze, dove il nulla è l’oggetto al centro dell’incontro. In ogni caso, il pagamento detto “alla romana” evidenzia l’assenza di una relazione forte o interessata, o ancora funzionale.
       Qualche considerazione, per concludere, va fatta sulla conversazione, che è uno degli elementi del momento trattato, e rispetto al quale ho redatto due manuali di ausilio a quest’arte, che val la pena consultare. Circa la conversazione, dunque, decisiva per la sua riuscita e la riuscita del momento conviviale è l’abilità di non toccare, nel proprio argomentare, ragionamenti di principio: è la delicatezza principale! Quando, infatti si ragiona intorno ai propri o gli altrui principi è facile che scatti il momento d’attrito. E poi, non è mai piacevole e soprattutto chic argomentare intorno a qualcosa che è fondante della persona. Da qui, sarà cura del “maggiore” smussare il dire dei commensali quando questo prende tale deriva. In realtà, gestire una conversazione, in maniera che “scansi” gli eventuali momenti d’attrito tra i convenuti, è arte sopraffina…

Mauro Ragosta

sabato 26 ottobre 2019

Dalla Seconda alla Terza Repubblica (parte sedicesima): La corruzione: fenomeno individuale o sistema organizzato? - di Massimiliano Lorenzo

Diversi sono gli aspetti critici dell’attuale scenario politico, che vanno dalla sinistra alla destra. Un elemento è però comune, trasversale e assieme profondamente radicato, culturalizzato, per certi aspetti scontato nel sistema politico italiano, a tutti i livelli,  e al punto che non si dovrebbe inquadralo come fenomeno di tipo individuale, ma come un sistema organizzato e studiato premeditatamente, risultando di fatto uno strumento ordinario della Classe Dirigente per sottrarre in maniera scientifica risorse sociali, e, per certi aspetti, “purificare” il sottostante sistema economico, al fine di conferirgli quella tensione, che permette la governabilità. E quest’elemento è la corruzione, proposta al cittadino italiano dai media, in pillole, a pioggia e in maniera costante, rispetto alla quale con ovvia difficoltà il cittadino stesso non riesce a costruire un quadro di sintesi, se non con motivazioni banali e non del tutto convincenti. Insomma, il cittadino italiano non si spiega la corruzione se non nell’ambito del vizio o della sete di danaro, quando invece le motivazioni potrebbero essere più strategiche, economiche, di ordine sociale, di gestibilità del cittadino. Ma andiamo alla questio nel dettaglio.
Quando all’estero parlano del Bel Paese e guardano al nostro sistema, spesso balza alla mente proprio la corruzione e il clientelismo che legano politica, industria banche e mafie. Non passa giorno che dalle cronache dei media nostrani non venga fuori un nuovo caso di corruzione in questo o quel settore, o non venga pronunciata una sentenza su procedimenti a carico di politici, rappresentanti della pubblica amministrazione coinvolti direttamente (o indirettamente) in casi di clientelismo.
Sin dalla prima Repubblica è stata un’attività che ha coinvolto i partiti italiani, intenti a “rubare” soldi pubblici, attraverso, per esempio, favoritismi in gare d’appalto per amici o gente di potere, incarichi milionari e quantaltro. Come lo stesso Bettino Craxi spiegò, nel suo ultimo discorso alla Camera dei Deputati del 23 aprile 1993, tutti i partiti si servivano di tangenti per l’autofinanziamento, perché alle organizzazioni partitiche non erano sufficienti i trasferimenti statali. Le varie sacche di clientelismo, le varie migliaia di voti comprati e la corruzione nella pubblica amministrazione, servivano, insomma, solo per una più larga e capillare attività di partito. Di fatto Craxi mise in evidenza che la corruzione era un sistema che garantiva alla politica una certa autonomia e forza rispetto ad altre agenzie di potere. Ed oggi invece il sistema e lo strumento della corruzione a cosa serve, dal momento che le Repubbliche scorrono e lei rimane là ferma, inespugnabile, nonostante le lusinghe dei pentastellati, che cavalcano un “cavallo sicuro” che garantisce voti, dal momento che la corruzione non verrà mai estirpata in Italia, e ciò almeno per i prossimi cento anni. Ma poi, la corruzione è nata con lo Stato e con lo Stato probabilmente si dissolverà. Insomma è l’altra faccia della medaglia dello Stato.
Nel parlare di corruzione, tangenti e clientelismo in Italia, non si può certamente tralasciare la prima grande inchiesta con la quale la magistratura scoperchiò il vaso di Pandora circa gli illeciti perpetuati sino al 1992. Fu uno dei procedimenti che annientò tutta, o quasi, l’intera classe politica della prima Repubblica, e che diede i natali alla seconda fase della Repubblica italiana. Quei legami di corruttela e clientelismo tra politici e imprenditoria divennero una questione tutta politica, e venne utilizzata sin da subito da coloro che scamparono alla scure dei magistrati o presero il posto dei politici annientati, per la costruzione di un nuovo consenso elettorale. Insomma, già agli albori della Seconda Repubblica i nuovi politi facevano né più né meno di quello che facevano i corrotti o i corruttori della Prima Repubblica. Uno su tutti fece tesoro di quell’inchiesta, da lui stesso condotta, per entrare in politica e in Parlamento: l’ex magistrato di Mani Pulite Antonio Di Pietro. Di Pietro sfruttò la sua immagine di ex magistrato “purificatore” della politica italiana, come oggi i seguaci dei Casaleggio, per convincere i cittadini italiani a votare lui e il suo partito Italia dei Valori. Dall’altra ancora, per esempio, si pensi alla svendita dell’IRI che portò a trasferire dallo Stato al capitalismo italiano la fetta più importante del sistema produttivo nazionale, richiedendo a questo un sacrificio quasi inesistente, formale insomma.
Ed anche nella Terza Repubblica i partiti hanno continuato e continuano a farsi corrompere o a corrompere, un’attività che sposta miliardi di euro dalle casse pubbliche alle tasche di potentati economico-finanziari. E però, da questo tipo di corruzione ne sono, in un certo qual senso, apparentemente esclusi i Pentastellati, perché di fatto costituiscono il partito personale dei Casaleggio, i quali, anche attraverso l’opera attoriale di un comico, incidono direttamente e personalmente sul sistema legislativo italiano secondo le loro necessità. Ad ogni modo, di fatto la corruzione sottrae risorse importantissime, miliardarie, al sistema economico nazionale e soprattutto alle classi subalterne, che rimangono di fatto costantemente, economicamente e perfettamente “sottoscacco”. Sarà forse questo il motivo ultimo della corruzione? E’ totalmente insensato, d’altro canto pensare che la corruzione si perpetui per questioni di lucro o arricchimento per la classe dirigente, di fatto essendo questa in possesso di tutta la ricchezza e tutto il potere nazionale. Appare più logico pensare invece, in ciò assistiti da una certa manualistica economica e politica, che il travaso di capitali dal pubblico al privato abbia più ragioni legate al governo del territorio, e solo in minima parte, quasi irrilevante e poco strategica, legate a logiche di arricchimento. D’altro canto, in Italia si combatte sempre più l’evasione fiscale, sulla quale si è costruito un regime poliziesco, ma poco o quasi nulla s’è fatto sul fronte della corruzione, che brucia miliardi, rispetto ai quali le cifre dell’evasione si presentano e si ammantano di ridicolo.
Per concludere, se nella Prima Repubblica la corruzione era uno strumento della politica, per assicurarle forza ed autonomia rispetto soprattutto al capitalismo ed ai capitalisti, oggi questa appare uno strumento dei capitalisti per perseguire certi principi economici, ben conosciuti da certa classe dirigente, necessari al governo del popolo e alla gestione del territorio.
Massimiliano Lorenzo


martedì 22 ottobre 2019

Stile e buongusto (parte terza): il saluto ed i convenevoli – di Mauro Ragosta


            Dopo aver esposto i rudimenti sull’uso del cellulare, fondati su due principi molto semplici, ovvero quello di evitare di far vedere la propria dipendenza dall'attrezzo informatico, e quello di utilizzarlo, in presenza d’altri, in base al livello d’attenzione che richiede o richiedono i vostri interlocutori -tutto ciò perché esso non è più uno status symbol, ma l’esatto contrario- passiamo a valutare le principali regole del buongusto quando si saluta una persona. Argomento vasto, sul quale tuttavia si offriranno una serie di spunti utili per ampliare e perfezionare il quadro qui proposto nonché per perfezionare il vostro incedere.
            L’argomento del saluto richiede una chiarificazione preliminare, e cioè quella che attiene “al maggiore e al minore” all’interno di una relazione o all’interno di un contesto più ampio. E’ una questione ovviamente che non è legata alle variabili del maschile e del femminile né tantomeno a questioni concernenti la titolistica, ma ai rapporti di forza tra le parti nella prospettiva reale. Se proprio si vuole la questione può essere risolta chiamando in causa il concetto di potere reale, laddove per potere reale si intende la capacità di far valere la propria volontà su quella dell’altro o degli altri. Esclusa dalla trattazione è la prospettiva paritaria, perché nella realtà è caso rarissimo, forse inesistente. Del pari, va da sé che la persona di stile è colei che sa rendersi conto subito dei rapporti di forza con i propri interlocutori. Insomma, è difficile che scambi “un leone per un topo” e viceversa, cosa invece, che è molto frequente, come facilmente ci si potrà rendere conto.
            Ora, il saluto, cha apre e chiude un incontro, prevede, con un qualsiasi interlocutore, la stretta di mano, che ovviamente non è obbligatoria, ma è esclusiva concessione del “maggiore”, il quale, quando lo reputa utile, proietta la propria mano al “minore”. E’ un gesto di apertura e cordialità. Il “minore”, dal canto suo, dovrà rimanere immobile fino al cenno del suo interlocutore, che ovviamente può non avvenire. Al riguardo, si pensi che la Regina Elisabetta, negli ultimi dieci anni, nei consessi formali, pare che abbia steso al proprio interlocutore la sua mano non più di otto volte. Ma al di là di ciò, l’attesa del “minore” che gli si porga la mano indica rispetto, riconoscimento, ed ovviamente una buona educazione. Certamente, se questo avanza per primo con la mano, il più delle volte non produrrà alcun effetto immediato, ma è gesto che verrà sicuramente annotato.
            Va precisato che nei consessi convivali e mondani la possibilità di concedere la mano va attribuita al genere femminile, dove ai più alti livelli l’uomo risponde con il baciamano, che ovviamente deve essere solo simbolico, e quindi deve essere appena accennato, come appena accennato deve essere l’inchino.
            Ed ancora, quando si riceve nella propria casa, è colui che accoglie a stendere la mano, tranne nel caso in cui ricevono persone “potenti”, che ovviamente sono diverse dalle persone ricche, anche molto ricche. Sulla differenza ci intratterremo in altre parti ed articoli di Maison Ragosta.
            E per concludere, del tutto cafonesco è un “minore” che in maniera autonoma saluta il proprio interlocutore con un abbraccio, soprattutto se in pubblico. A tal riguardo, l’abbraccio, fuori dal mondo adolescenziale, è pratica eminentemente privata e molto intima.
            Circa la qualità della stretta di mano, in linea generale ne possiamo individuare sostanzialmente due. La prima è quella tipo del venditore, senza nulla togliere al venditore, ovviamente. E’ una stretta vigorosa, calorosa, che indica compiacimento e grande apertura nei confronti dell’altro. La seconda è quella tipica del prete, appena accennata, dove la mano è sovente inerte e fredda, morta, che indica molto distacco. E’ la tipica stretta di mano degli uomini di potere, ma ovviamente non dei potenti né delle persone di stile, che invece adottano una soluzione intermedia, equilibrata, bilanciata, e se vogliamo, ragionata.
            Dopo la stretta di mano è di rito la domanda d’apertura dell’incontro, che spetta sempre al “maggiore”. Come risposta il minore ha due possibilità: o dare una risposta che esclude tutta la sua vita, o dare una risposta che offre delle aperture su questa. E quindi risponderà: o bene, grazie e lei? O discretamente, grazie e lei? La seconda formula può essere modificata a piacimento e, ovviamente, può essere molto più ricca e corredata dal punto di vista letterario. In ogni caso, la prima pone l’attenzione in maniera esclusiva sull’oggetto dell’incontro, la seconda apre ad una possibilità di socializzazione preliminare.
            Va segnalato che nei rapporti d’affari e/o professionali, la prima formula è quella consigliabile, anche perché in questo caso le parti hanno già preso informazioni sulla vita privata dell’interlocutore, ovviamente nella misura in cui queste sono decisive per le trattative. E’ chiaro che il momento socializzante non serve, essendo questo teso fondamentalmente a recuperare informazioni accessorie nelle questioni d’affari.
            Circa la seconda formula va usata, invece, solo nelle circostanze in cui si vuol approfondire una conoscenza sul piano anche esistenziale, o dare l’opportunità di accostarsi molto alla propria persona.
            Per concludere questa breve dissertazione, va marcato con forza che si deve lasciare sempre al “maggiore” la possibilità di chiudere l’incontro, anche nelle occasioni conviviali. In genere, la regola che il “maggiore” apre e chiude gli incontri o le circostanze, vale in molti ambiti, situazioni, come vedremo in seguito. E’ grave, in ogni caso, che un “minore” chiuda un incontro, di qualsiasi genere, se non dietro espressa richiesta al “maggiore”, cui spetta sempre l’ultima parola.
            In ogni caso, l’osservanza di tali principi indica rispetto e buona educazione, in caso contrario, può marcare, da un lato, l’assenza di un formazione al buon vivere o, dall’altro, un vero e proprio affronto al proprio interlocutore.

Mauro Ragosta

venerdì 18 ottobre 2019

Avvio all’esoterismo (parte nona): …sui livelli dell’esoterismo – di Italo Zanchi


         Nel precedente articolo di questa rubrica abbiamo approfondito un concetto particolare di esoterismo: quello connesso alla disposizione mentale che consente la “pratica” dell’esoterismo. Abbiamo anche accennato –ma niente di più di un accenno- a quelle che possono essere le svariate vie che portano al superamento della soglia di accesso allo stato esoterico: dalla cultura in genere agli studi particolari –quali matematica o Qabbalah, o I-Ching (in più recenti sperimentazioni psicoanalitiche)-, dalla presa di coscienza delle proprie energie fisiche, all’attenzione nel loro uso, dall’analisi sempre più approfondita del proprio intimo alla scoperta di personalità conviventi, dalla vita proba a quelle votate, fino alla monastica, e fino alle pratiche orientali.
            Questo aspetto del tema può essere intuitivo e sperimentabile avendo passione per la ricerca della Conoscenza –taluni direbbero, Gnosi-. Ma un altro aspetto interessante del tema consiste nella constatazione di vari livelli di sviluppo della “mente esoterica”. Si tratta di un percorso di lunghezza indefinita: ogni tappa appare come traguardo, salvo poi, con la pratica di quegli stessi conseguimenti, scoprire che occorre procedere oltre verso un successivo traguardo, e così via.
            Difficile classificare i livelli esoterici. Ciascuno può avere i propri; ciascuno ha una propria struttura e storia: qualcuno consegue facilmente e subito livelli più elevati, mentre altri necessitano di più tappe e si progredisce chi più, chi meno. Tuttavia, pur se l’uomo è infinitamente e meravigliosamente vario, è anche vero, d’altro canto, che i suoi stati sono via via identificabili e raffrontabili, così che possono trarsene parametri, anche se approssimativi, con sfumature diverse, e mai esaustivi. Da qui è facile capire che, la serie e la storia delle correnti esoteriche possono inquadrarsi anche in una classificazione di livelli: dalla superstizione e all’irrazionalità, alla ricerca analogica (ad es., tra fenomeni naturali e vicende umane con l’astrologia); dalla ricerca del sostrato di verità nei dogmi religiosi (vita monastica, esoterismo delle religioni) ai conseguimenti tramite pratiche di vita estreme dirette al superamento di limiti umani (come fachiri o yoghi, monaci buddisti), fino alle vette più elevate della meditazione o del sufismo. Tutto ciò, soltanto a titolo di limitatissimo esempio.
            Ma, prima di addentrarci in questa disamina, occorre dar conto di un primo atteggiamento mentale-culturale quasi al confine tra l’essoterico e l’esoterico, di un essoterismo esoterico: si tratta della scoperta della storia “dietro le quinte”. Certo, non stiamo parlando di narrazioni alla Dan Brown o complottiste o di altre fantasticherie, bensì dell’intravedere come i percorsi storici non sono sempre o soltanto frutto dei movimenti palesi delle civiltà o di grandi personaggi o di “masse”, ma il risultato organizzato su parametri diversi da quelli palesi e conosciuti (ad es., ideologie, nazionalismi), o per scontri apparenti (tra religioni o interessi economici, ecc.) anche questi apparenti. Questi diversi parametri, che permettono di superare la visione ordinaria, corrente dipendono da visioni del mondo largamente sconosciute, ma che pure determinano indirizzi e scelte. Lo studio della “cultura delle classi dirigenti” è illuminante per comprendere quanto diversi siano i fini, gli interessi e i metodi che agiscono nella storia, rispetto a quelli narrati dai libri di storia correnti (M. Zambrano, “Persona e democrazia”, B.Mondadori, 2000; G.E. Valori, “Spiritualità e illuminismo”, Futura ed., 2018).
            Ciò detto, torniamo all’esoterismo “personale”, quello possibile in ciascuno; ricordando, però, che anche l”essoterismo esoterico” di cui poc’anzi abbiamo detto, origina negli esoterismi delle persone “dirigenti”. Così, chiunque, nell’esercizio del pensiero e nel perseguimento di studi come storia, filosofia, matematica, musica, medicina, chiunque può ottenere un’illuminazione improvvisa, come una “folgorazione sulla via di Damasco”. Intuire, così, che oltre la cosiddetta “mente discorsiva” o analitica, esiste la mente come organo di senso, la quale sperimenta direttamente gli oggetti di conoscenza, siano essi natura o storia. Non la conoscenza tramite l’analisi, ovvero l’individuazione e lo studio delle varie componenti della realtà osservata, che può essere incompleta o errata per alcuni elementi, bensì la visione dell’insieme, dell’organismo come tale e delle sue ragioni.
            D’altra parte, alpinisti, navigatori solitari, esploratori di nature vergini, quanti riescono a sostare in silenzio dinanzi ad uno spettacolo di natura, d’improvviso percepiscono la vita del tutto, l’energia che sottende; e vita ed energia soggiacenti dimostrano l’esistenza di un senso, che è comune alla natura riflettuta e al meditante: conoscendo l’oggetto si conosce se stessi. Questa percezione ha valore incommensurabile in quanto, al di là della via culturale occidentale, offre una soluzione diretta, benché a-razionale, all’angoscia che attanaglia l’umanità, specie quella europea. La crisi di questa civiltà consiste nell’avere constatato che la filosofia raziocinante post-illuministica perviene ad un punto morto riguardo gli interrogativi sui grandi temi esistenziali umani (“l’uomo di fronte al suo essere gettato nel mondo”: Heidegger); siamo annegati nel nichilismo e nel relativismo, forse questioni destinate al popolo tout court. L’intuizione della vita della natura, e dell’uomo con essa e in essa, di ciascun singolo uomo, in quel momento meditante, il cogliere il passaggio dell’Essere (G.E. Valori, cit.), d’un colpo svela la falsità delle costruzioni nichiliste, e restituisce dunque senso e valore alle esistenze di ciascuno.
            Tutto ciò è esoterico nel senso che non è teorizzabile o sperimentabile secondo le tecniche scientifiche moderne. Ma è verificabile da ciascuno in se stesso; e ciascuno ha un senso della percezione, un sapore -donde, Sapienza- incomunicabili. A tal riguardo gli psichiatri parlano di “qualia” (G.M. Edelman, “Sulla materia della mente”, Adelphi, 1995). E infine, il risultato consiste nella valorizzazione dell’esistenza, nel constatare che non è vano vivere e operare. Ed ecco che l’angoscia si dissolve e spunta un’intima e profonda gioia del vivere.
            Il primo passo è compiuto, è stato superato il dogma della superiorità del metodo raziocinante e si è svelata la mente percettiva. Certo, come già accennato nel precedente articolo (parte ottava), non si tratta di argomenti che possano formare oggetto di teorizzazioni. Il loro valore può essere ancora superiore: la civiltà europea è stanca (C. Bonvecchio: “l’occidente esausto e secolarizzato”, in Introduzione a “Il paradosso del monoteismo” di H. Corbin, Mimesis, 2011), resa esausta dalle conclusioni nichiliste e senza speranza dei suoi filosofi. La diffusione tra gli uomini di un sostrato di nuovo collegamento integrale con la natura e la storia restituisce senso alle esistenze e slancio operativo, nuova luce alla nostra civiltà.
Italo Zanchi
             

mercoledì 16 ottobre 2019

Dalla Seconda alla Terza Repubblica (parte quindicesima): Alcuni aspetti del processo di smantellamento della rappresentanza – di Massimiliano Lorenzo


Dopo anni di tentativi, progetti e proposte, il Parlamento italiano ha raggiunto la quadra e un accordo per il taglio del numero di rappresentanti che siedono a Palazzo Madama e Montecitorio. E così dopo il Porcellum e varianti, ora poco conta di quanto siano stati ridotti i nostri rappresentanti nelle due camere, più significativo a questo punto è il passo compiuto per i più ampi ed importanti concetti di rappresentanza e democrazia, che vengono amputati ancora una volta, ed ancora con un colpo secco.
Il Novecento e le prime due fasi della Repubblica italiana hanno conosciuto un rapporto tra cittadino e rappresentante più stretto rispetto a quello che viviamo noi oggi. Le ragioni possono essere varie. Tra queste la presenza di partiti radicati sul territorio, una più spiccata vocazione alla partecipazione sociale e politica dei cittadini, e, finanche, una maggiore proporzione tra numero di rappresentanti e popolazione. Oggi, invece, tutto questo è mutato e non in meglio, anzi.
Sulla presenza e l’utilità di partiti radicati sul territorio se n’è già parlato e la loro importanza è palese, non fosse altro perché i territori avevano maggiore agibilità, possibilità nell’espressione dei propri rappresentanti e di incidere sulle decisioni della propria organizzazione. Oggi, invece, è assodato che il tesseramento è in calo per tutti i partiti, le loro sezioni e le loro sedi vengono chiuse, e che si è sviluppata una nuova modalità di pronunciamento degli iscritti, ma al momento solo per un movimento, ovvero i 5 Stelle guidati da Grillo e sotto l’alta direzione del Gruppo Casaleggio. Va detto al proposito, che passi significativi in tal senso li stanno facendo anche quelli del PD, che presto approderanno alla soluzione dei 5 Stelle. Ma ritornando ai “seguaci” del comico italiano, al potente esercito del gruppo Casaleggio, i membri della Piattaforma Rousseau, così si chiama il sito su cui i pentastellati di tutta Italia possono “votare”, sono soprattutto invitati ad esprimersi su quesiti proposti dai dirigenti, spesso anche scritti in maniera specifica e soprattutto orientata. Ed ecco che, la sinistra italiana è passata dallo sviluppo della coscienza di classe attraverso l’istruzione e lo studio della storia e quant’altro (fino agli anni ’80), all’abbattimento concettuale, poi, (negli anni ’90 e 2000) delle classi sociali e all’annullamento delle differenze politiche (Vedi per tutti Bobbio e il “grande” Gaber), e, alla fine (dal 2010 in poi) alla riduzione dell’istruzione, censurando quasi lo studio della storia, per giungere in conclusione al voto digitale con schede a risposta multipla, che vorrebbe fosse adottato per l’intero sistema elettorale. Una logica che progressivamente ha compromesso nettamente il senso di rappresentanza e rappresentatività.
Certamente, se ogni movimento o partito è libero di organizzarsi al suo interno come vuole, può darsi le regole che vuole e darsi lo statuto che vuole, quando, però, la logica prima esposta viene portata all’interno delle istituzioni, allora ad essere toccati sono tutti i cittadini. Se poi si agisce nel senso del voto elettronico e della riduzione del costo della politica, riducendo il numero dei parlamentari, allora la situazione si aggrava. Come si inizia ad innescare questa logica? Con il taglio dei parlamentari. Pensare che con il risparmio derivato da 600 rappresentanti anziché 945 (un risparmio che non equivale nemmeno ad un caffè a testa, quando poi con l’ultima manovra di bilancio, di ieri, ci sottraggono un bel po’ di risorse economiche) si possa, da una parte, creare un tesoretto utile al miglioramento di un qualche servizio, e, dall’altra, velocizzare l’iter legislativo e decisionale dell’organo supremo italiano, è pura propaganda. Anzi, viene da pensare che si voglia rendere il deputato o il senatore ancora più “schiavo” del partito o movimento con cui è stato eletto. Quasi che la democrazia e la politica non abbiano dei costi naturali ed insiti, per il loro buon funzionamento e la loro salvaguardia da qualsivoglia tentativo di trasformazione in altra forma organizzativa dello Stato, cosa che i potenti d’Italia ed Europa auspicano fortemente e si muovono con forza in tale direzione. Non è un caso forse che Luigi Di Maio, lo stuart (chissà chi è il reale comandante dell’aereo?), capo politico del Movimento 5 Stelle, abbia lanciato l’idea di legiferare sul vincolo di mandato per i parlamentari e pensato di inserire nel contratto (sic!) firmato dai candidati pentastellati, una multa nel caso questi dovessero cambiare gruppo parlamentare e/o partito. Oltre ad aver invitato a farlo anche gli altri partiti. E nel Partito Democratico qualcuno ha pure immaginato di raccogliere l’idea.
Si parlava del pericolo di distruggere il concetto di rappresentanza e rappresentatività. Non può che è essere così, se si porta avanti l’idea che meno teste possano elaborare leggi migliori e in modo più veloce. Non può che essere così se non si agisce per lo sviluppo della cultura in generale, ed in particolare storica, politica, sociale ed economica dei cittadini. Non può che essere così se ci si avvicina a forme oligarchiche, compiendo passi del genere. Non può essere altrimenti se un solo rappresentante deve raccogliere le istanze di un maggior numero di rappresentati, quando la loro distanza è già ampia.
Non si può pensare di sostituire il rapporto fisico, culturale, intellettuale, interpersonale tra elettori ed eletti con le dirette sulle piattaforme web. Soprattutto, non si può pensare di diminuire la loro distanza e incentivarne il legame, perché queste modalità attengono al mondo dello spettacolo, non a quello della politica. La politica, che è l’attività con la quale dovremmo scegliere come organizzarci e convivere, non deve essere show, non deve essere fiction, non deve essere rappresentata da star, anche se………
Massimiliano Lorenzo

domenica 13 ottobre 2019

La critica letteraria e della poetica oggi nel distretto culturale leccese – di Mauro Ragosta


           Le attuali questioni legate alla critica letteraria e della poetica con riferimento allo scenario leccese, inteso in termini ampi, richiedono preliminarmente delle premesse per meglio inquadrare le asserzioni che qui verranno formulate. In tale direzione va in primo luogo messo in evidenza che la cultura, nelle varianti della letteratura, della poesia e anche dell’arte in senso lato, fino alla Prima Repubblica era strumento eminentemente politico. In linea generale, e rimanendo fermi alle dinamiche novecentesce, l’impulso all’utilizzo della cultura in tale accezione va fatta risalire ad Antonio Gramsci, prima, e a Cesare Luporini, a partire dagli anni ’50. Con la Seconda Repubblica tuttavia la cultura, anche nella prospettiva qui analizzata, ha perso sempre più quella valenza politica ed oggi, nella Terza Repubblica, questa è stata quasi interamente sostituita dal mondo del web. Oggi, infatti, la più grossa novità in Italia in ambito politico si fonda appunto sul web, che sta vieppiù caratterizzando la sinistra tutta del nostro Bel Paese. E così, la cultura, che nella prospettiva politica, è stata inizialmente utilizzata dalla sinistra, proprio dalla sinistra parte la sua messa in disarmo.
            La cultura però, nelle declinazioni letterarie, poetiche e anche artistiche, con la Seconda Repubblica ha assistito ad una sua profonda metamorfosi. Sicché, progressivamente da strumento politico si è convertita in strumento sempre più commerciale, da un lato, e, dall’altro, sempre più mondano o esistenziale, per lenire le pene dell’esistenza, insomma. Di pari passo il dictat dell’operatore culturale è passato prevalentemente dallo sviluppo di valori e contenuti allo sviluppo delle capacità di emozionare. Va da sé che da qui, la produzione culturale, di tipo letterario, poetico e artistico, è diventata un’attività aperta a tutti, alla massa, e tutto è diventato arte, narrativa e poesia, purché insomma emozioni.
            Ora, la critica si è mossa coerentemente con queste dinamiche, senza opporre alcuna resistenza. Certamente, non mancano a ciò eccezioni, ma lo scenario nei tratti dominanti è questo. Ma c’è di più. Gran parte dei professionisti, che rappresentavano dei perni decisivi della critica nazionale, nei processi culturali della Prima Repubblica, progressivamente hanno abbandonato il campo.
            Per altro verso v’è da considerare che le produzioni letterarie, della poetica e dell’arte, essendo prerogativa delle masse, sono cresciute a ritmo esponenziale. Negli ultimi tempi in Italia, ad esempio, si pubblicano circa 70.000 titoli all’anno. Da qui, è chiaro che è quasi impossibile una produzione critica quantomeno accettabile. Un ambito nel quale hanno fatto ingresso moltissimi avventurieri, non producendo ovviamente qualcosa di significativo. E anche sotto il profilo della promozione culturale, il settore del libro pare ancora sguarnito di veri professionisti in grado di compiere operazioni significative.
            Di tutto ciò il distretto leccese non ha potuto non risentirne, soprattutto a partire dal 2010 in cui vi è stata una vera e propria esplosione nelle produzioni editoriali e sono comparsi sullo scenario salentino diecine di scrittori, poeti e artisti in genere. Tuttavia, tale fenomeno se sotto il profilo mondano ed esistenziale ha registrato notevoli risultati, negli aspetti commerciali il carico economico rimane sugli autori, sui poeti, e dunque sotto questo profilo è assolutamente deficitario. Certamente non mancano case editrici leccesi che stanno cercando di sviluppare la prospettiva commerciale del mondo culturale salentino, ma sono prive di mentalità imprenditoriale e di risorse manageriali. Insomma si va per tentativi, o come si dice “a vento”. D’altro canto, sono gli stessi autori o attori culturali a fare impresa, ed ovviamente non va bene, non possedendo questi una quadratura e una mentalità economica.
            In tale prospettiva, però, la critica più attiva a Lecce e dintorni pare che mostri tendenze di un qualche rilievo. E al fianco di un esercito di critici e presentatori improvvisati, à la coque, cominciano a distinguersi delle figure nuove ed innovative, anche rispetto ad una prospettiva nazionale. Infatti, se la critica letteraria e poetica è sempre stata una prerogativa dei letterati puri, a Lecce pare che questa stia sviluppando un processo, in un certo qual modo al passo con i tempi, se non proprio anticipatorio. Nel senso che la critica, oltre alla prospettiva letteraria pura, viene sviluppata, da alcuni attori, anche nelle proiezioni più squisitamente psicologiche, altri, invece, procedono con un taglio eminentemente filosofico, altri ancora si inarcano negli aspetti tipicamente storico-sociologici. Ed ecco che, a Lecce, la critica letteraria pura si è arricchita di componenti nuove come quelle appunto psicologica, filosofica, storico-sociologica, ponendo così le basi per una promozione del libro che, se in una prospettiva di ulteriormente approfondimento, se coltivata insomma, potrebbe sortire pratiche culturali, sul fronte ovviamente della critica, di non poco conto, con più soddisfacenti risultati sia sul piano della promozione commerciale sia su quello più squisitamente mondano ed esistenziale.

Mauro Ragosta

giovedì 10 ottobre 2019

Saper comunicare (parte settima): L’organizzazione del pensiero e le sue tipologie- di Andrea Tundo



Nel precedente articolo ci siamo intrattenuti, sia pur analizzando gli snodi principali, sul valore del lessico e di come utilizzarlo, ovvero della portata della parola e in quali situazioni sfoderare un determinato vocabolario, piuttosto che un altro, ma, tra le altre, anche in che misura prestare attenzione ad altri fattori che incidono sull’efficacia comunicativa come la comprensione del livello culturale del nostro interlocutore ed il ventaglio delle sue competenze tecniche e lessicali.

Nell’arte della comunicazione, tuttavia, si devono possedere anche altre facoltà, rispetto a quelle già segnalate, e che prescindono, infatti, dal nostro bagaglio culturale e soprattutto lessicale, benché, in particolare quest’ultimo, sia molto importante per destreggiarsi nella giungla comunicativa del mondo contemporaneo. Tra queste facoltà, quella che occupa un posto rilevante è senza dubbio la nostra capacità di organizzare e catalogare il pensiero, soprattutto nella fase ricettiva, e dunque di acquisizione delle informazioni, e nella fase elaborativa, che implica sempre un complesso processo di integrazione dell’informazione ricevuta con il sistema di pensiero preesistente. Va da sé che ogni individuo ha una sua specifica organizzazione del pensiero, che può essere più o meno efficiente ed incide sulle sue capacità di risposta alle sollecitazioni dell’ambiente, in termini di esattezza e di rapidità. E’ scontato che un’organizzazione inefficiente è anche inefficace è tipica dei soggetti confusionari, incapaci dunque di operazioni complesse. D’altro canto chi è capace di costruire e gestire azioni articolate e vaste non può non avere un’organizzazione del pensiero molto efficiente e capacità elaborative delle informazioni non comuni. E non appare superfluo sottolineare che, se è vero che l’organizzazione del pensiero dipende molto da fattori educativi, le sue potenzialità tuttavia sono collegate direttamente a fattori genetici. Per altro verso, una buona cultura non implica un’organizzazione e un’elaborazione del pensiero ottimale. Non a caso è frequente il caso di persone fortemente acculturate, ma incapaci di comunicare in maniera efficace ed efficiente, le quali sovente giustificano tale insufficienza adducendo che i loro discorsi sono difficili da comprendere.

Va da sé che la nostra capacità di costruire modelli di pensiero è direttamente proporzionale alle nostre capacità organizzative e soprattutto logiche. In tale prospettiva, un individuo che ha modeste capacità logico-organizzative, in merito al pensiero dunque, avrà difficoltà a seguire non solo quanto gli viene comunicato, ritenendo solo dei frammenti, ma avrà anche una visione dell’andamento e dell’evoluzione dei meccanismi sociali nei quali è inglobato decisamente modesta e sempre poco aderente alla realtà dei fatti, trovandosi per lo più sempre in un forte stato confusionale o di incoscienza, esattamente come elabora in maniera confusionaria i suoi discorsi privi di argomentazioni significative e pregnanti. 

Messo ciò in evidenza soffermiamoci brevemente sulle due principali tipologie di pensiero, le quali, comunicate, sono ancora una volta strettamente legate alle capacità di comprensione del destinatario. La prima seguente uno schema causale semplice (cioè A+B+C+…) laddove ogni proposizione è collegata conseguentemente alla successiva, ovvero tra la prima e la seconda non vi sono aperture di pensiero secondarie, accessorie o comunque non rilevanti rispetto all’obiettivo comunicativo principale. E’ questo uno schema da utilizzare con persone che hanno strutture del pensiero essenziali, minime, incapaci di contenere molte informazioni, anche se ve ne sono altre ancora più elementari, come i cosiddetti “discorsi a flash” che vengono utilizzati con ascoltatori di bassa cultura e modestissime capacità ricettive.

La seconda è una strutturazione del pensiero (e successivamente del discorso) più complessa e articolata, compresa ed adoperata da personaggi fortemente intellettualizzati oltre che colti, i quali rivolgendosi a soggetti dello stesso tipo, non seguono schemi discorsivi popolari basati su slogan, frasi ad effetto e concatenazioni di concetti semplici. Nella fattispecie, tra una proposizione e l’altra del discorso o dell’esposizione del pensiero si inseriscono con questo modello comunicativo aperture concettuali di vario tipo, le quali seppur di minor rilievo, in quanto proposizioni secondarie, terziarie ed accessorie, sono comunque collegate al concetto e alla concatenazione originale e dunque allo schema principale. In questo caso si può parlare di arte oratoria, intesa ovviamente non solo come diletto, la quale è chiaro che richiede una buona struttura logica e soprattutto un’ottima organizzazione del pensiero, anche se queste, come facilmente è comprensibile, non sono le uniche componenti per una comunicazione compiuta, efficace e piacevole, come si vedrà e si avrà modo di riflettere nel proseguo della nostra rubrica.

Andrea Tundo

martedì 8 ottobre 2019

Stile e buongusto (parte seconda): l’uso del cellulare – di Mauro Ragosta


        E cominciamo ad entrare nel merito della nostra rubrica, che offrirà spunti di riflessione due volta al mese, come ricordato nella parte prima. Al riguardo, va appuntato ancora una volta che essa non ha natura precettizia, ma tenta di mettere in luce i principi del buon gusto e dello stile, la cui attuazione ovviamente dipende dal grado di intelligenza e cultura. Al contrario della manualistica tradizionale, che si rifà, molto spesso, alle prassi dell’aristocrazia, considerata all’interno di in una società statica, qui invece, pur non escludendosi per alcuni argomenti tale impostazione, l’angolazione è quella che trae spunto da una società fortemente dinamica, dove il cambiamento è la regola, e quindi è quella di un contesto sociale rispetto al quale si possono solo individuare delle linee generali di condotta, che vanno poi modellate nella pratica, caso per caso.
            Il primo argomento che Maison Ragosta porrà all’attenzione del suo affezionato lettore riguarda l’uso del cellulare, riservandosi di ritornare sull’argomento, in quanto questo non può essere sviscerato in un solo pezzo giornalistico.
Al riguardo va subito detto che, comparso nell’uso corrente nella metà degli anni ’90, il cellulare fu subito uno status symbol. Progressivamente, tuttavia, non solo ha perso tale qualità, ma un suo cattivo uso, come vedremo, è diventato indicatore di pessimo gusto e di volgarità. E con riferimento agli status symbol, va aperta una piccola parentesi e va detto che oggi, in una società opulenta e ricca, questi non sono più collegati al lusso o a particolari ruoli sociali e politici. In tale direzione va evidenziato, infatti,  che il lusso riguarda una fetta della popolazione sempre più ampia. A tal proposito, basti considerare che il mercato del lusso si è sviluppato negli ultimi anni ad un ritmo di crescita pari al 10% e con riferimento ai ruoli sociali, sovente molti di questi evidenziano più uno stato di debolezza che di forza e distinzione. Ad esempio, oggi in Italia, i titoli legati ai parlamentari, che trent’anni fa erano corrispondenti ad un certo potere, oggi, sono per lo più dei titoli vuoti, che indicano solo un penoso stato di dipendenza. E questo anche per i titoli accademici. Sino a cinquanta anni fa questi, infatti, implicavano una linea diretta con un’estrazione sociale d’alto livello, cosa che oggi nella maggioranza dei casi non è più, e per varie ragioni, come si avrà modo di mettere in luce in altre parti della nostra rubrica, dove si tornerà con più pregnanza sulla questione legata agli status symbol.
            Ma torniamo al nostro cellulare, il cui utilizzatore, nel 90% dei casi, pare esserne dipendente. Ma d’altro canto, è pressoché sotto gli occhi di tutti che quasi tutti gli utilizzatori del cellulare presentano rispetto all’attrezzo informatico una forte dipendenza psicologica, e moltissimi sono i casi in cui questo costituisce un vero e proprio feticcio. Va da sé, che, ciò evidenziato, esso non può essere considerato uno status symbol, ma nella quasi totalità dei casi, proprio l’esatto contrario. E da qui, va subito messo in luce che, l’uso del cellulare nella maggior parte dei casi essendo collegato più al vizio e alla dipendenza e alla manifestazione della propria sostanziale debolezza esistenziale e psicologica, al pari della droga, va nascosto o utilizzato il meno possibile in pubblico. E non perché si vuol limitarne o bandirne l’uso, ma perché la vista di una persona dipendente, sostanzialmente viziata, è disgustosa, imbarazzante. Motivo per il quale chi dovesse accorgersi della propria sgradevole insufficienza, se vuol agire secondo il buongusto, deve renderla il meno possibile evidente agli altri. E come una delle scuse principali per cui uno ostenta un Mercedes, affermando che l’ha acquistato perché è comodo e sicuro, simulando una falsa modestia, perché il motivo sostanziale è invece un altro, ovvero mettere in bella mostra la propria ricchezza e potenza, così per il cellulare ed il vizio ad esso connesso si trovano diecine di scuse, tutte plausibili ovviamente, ma che non giustificano il cattivo gusto. Negli ultimi dieci anni tutti i genitori pare che debbano sapere in tempo reale dove si trovino figli e nonni e devono essere sempre pronti per fantomatiche operazioni di salvataggio. Inutile commentare, come è inutile commentare i genitori che lasciano che il cellulare si “mangi” il cervello dei propri figli. Qui, peraltro, non siamo nel cattivo gusto, ma nella vera e propria tragedia…….
            Ecco, quindi, che liberato il campo dalle considerazioni connesse agli eccessi legati all’uso del cellulare, vediamo come è possibile utilizzarlo in maniera corretta. Ovviamente, ciò è collegato alla gestione delle relazioni. Qui, nelle relazioni appunto, il cellulare va usato nella misura in cui non sottrae l’attenzione richiesta dal partner o dagli amici. In ogni caso, a cena, a pranzo, al caffè, o durante un tè, il cellulare va silenziato, nascosto, occultato, perché in questi casi l’attenzione deve essere totalmente destinata alle persone con le quali si condividono questi momenti. Se reputate che queste persone non siano degne di voi, o non intrattenetevi con loro, o usando sconsideratamente il cellulare, in maniera subliminale, le si insulta, cosa che, senza ombra di dubbio, è un atteggiamento volgare. Altre volte, volutamente si usa il cellulare in maniera intensiva per dimostrare la propria centralità sociale, evidenziando anche in questo caso un atteggiamento squilibrato e non garbato nei confronti di chi vi sta vicino. Naturalmente, anche qui una costellazione di scuse, tutte plausibili e tutte di cattivo gusto. E come sino a quindici anni fa l’umanità poteva fare a meno del cellulare, non si vede il motivo perché oggi questo sia oggetto irrinunziabile. Di certo, la persona di stile e di buongusto non sta a servizio degli altri, rispondendo prontamente al cellulare, né in vostra presenza vi farà capire con chi sta parlando al cellulare, utilizzando un linguaggio criptico, da veri maleducati, perché davanti a voi non utilizzerà quasi mai quest’attrezzo informatico……………né starà in una sala d’attesa giocherellando con questo marchingegno dello “striscio”. La persona di stile e buongusto è centrata su se stessa e non si nasconde in pubblico, e ovviamente non ha bisogno di dimostrare alcunché, dove il suo garbato agire, solitamente, ha motivi concreti e funzionali. In altre parole ed in sintesi, egli non vive a vanvera……e usa il cellulare con molta discrezione.

Mauro Ragosta

venerdì 4 ottobre 2019

Dalla Seconda alla Terza Repubblica (parte quattordicesima): il mutamento della cultura di sinistra – di Massimiliano Lorenzo



In tutte le democrazie occidentali, la politica è rappresentata sostanzialmente da due punti di vista contrapposti, ovvero la destra e la sinistra, anche se oggi non più. Il Novecento ha conosciuto anni di contrapposizione tra queste due visioni della società, anche legate ad un contesto internazionale che metteva a confronto il liberalismo statunitense ed il comunismo sovietico. Il Novecento italiano, da qui, comprese tra le sue fila il più grande partito comunista d’Europa, che storicamente è l’antenato dell’attuale sinistra italiana.
Da quando la contrapposizione occidente-oriente ha visto la fine della sua storia e il contesto internazionale ha conosciuto un sistema  apparentemente più anarchico e meno schematico, in Italia la sinistra ha iniziato un processo che l’ha condotta all’attuale condizione di quasi irrilevanza o, meglio, di appiattimento al sistema, se non assurgendo ad elemento funzionale al sistema capitalistico stesso, quando invece dovrebbe riformare e proporre una visione alternativa, sulla linea di quei suoi principi storici fondamentali.
Nella Prima Repubblica italiana, il Partito Comunista Italiano e la sinistra in generale perseguivano un grande ed ampio obbiettivo, come quello della lotta al capitalismo, a quel sistema che genera disuguaglianze per via dell’accumulazione del capitale, della competizione sfrenata tra soggetti ineguali e dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, sia in una prospettiva riformista sia in quella rivoluzionaria. Una prima repubblica italiana che ha conosciuto conquiste sociali proprio per la competizione politica e sistemica tra due visioni opposte su come andasse organizzata la società, su chi dovesse determinare le sorti dell’economia tra i lavoratori e i padroni, su quali dovessero essere i mezzi per la risoluzione degli scontri internazionali tra la guerra e la diplomazia. A guardare oggi la sinistra, viene da chiedersi dove siano finito “il sol dell’avvenire” e gli obbiettivi di uguaglianza, libertà e autodeterminazione.
Già nella Seconda Repubblica dello Stato italiano le avvisaglie per quella che sarebbe stata la cultura della sinistra italiana. Alla caduta del Muro e del PCI, sin da subito sparì, già dal nome, l’obbiettivo ultimo del socialismo reale e, con questo, via via, gli obbiettivi di uguaglianza sostanziale, parità di condizioni e trattamento, per lasciare posto a derive tutt’altro che rivoluzionarie, anzi, particolaristiche e fuorvianti, perché divisive e individualistiche. Ma c’è di più. La sinistra è stata usata per abbattere la stessa sinistra storica. Sono stati utilizzati, infatti, gli uomini di sinistra per abbattere le conquiste della sinistra della Prima Repubblica ed incanalare le masse verso logiche di destra. Le masse di sinistra infatti, senza accorgersene, si comportano sostanzialmente come masse di destra. Ed hanno anche perso la memoria del socialismo. Basti fare accenno a quelle per i diritti degli animali e le battaglie per l’ambiente, pure importanti, s’intenda, ma inutili se non inserite in una logica di società e quindi funzionali al sistema capitalistico. I partiti della sinistra cosiddetta “di governo”, ovvero i vari discendenti diretti del partito che fu di Gramsci e Togliatti, come il Partito Democratico infatti, si sono in buona sostanza adattati al sistema ed hanno fatte proprie le parole d’ordine del “nemico”.
Una cultura sinistroide, ma che di sinistra ha conservato solo il nome, si è sviluppata sino all’avvento di quel soggetto politico ed organizzazione giustizialista, composta per gran parte da soggetti orgogliosi di non aver mai fatto politica prima d’ora, quasi fosse un disvalore, nella quale l’arrivismo di tanti è stato nascosto sotto l’enfatizzazione del civismo a tutti i costi e una presunzione di moralità, degna dei peggiori “talebani”. Per essere chiari, il riferimento è al Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo, un comico divenuto capo partito e capo popolo (o forse perfetto interprete di un copione scritto da altri?), legato alla potente famiglia dei Casaleggio ed alla sua società. Un’organizzazione grazie alla quale è divenuto più importante l”apprendista stregone” rispetto al medico, lo studio tra i blog di “chicchessia” rispetto ai trattati scientifici, la democrazia del “like” rispetto a quella delle tribune politiche. Insomma, un populismo dell’ignorante e dell’ignavo, dove prima c’erano i dibattiti tra esperti acclamati e riconosciuti, che hanno lasciato il passo a un camaleontico “uno vale l’altro”.
Quindi, una cultura politica di sinistra che ha abbandonato del tutto ogni e qualsiasi tipo di velleità rivoluzionaria, che nelle componenti dirigenziali si è votato al padrone, ai grandi capitali e all’accentramento di potere, sdegnano finanche l’appellativo stesso di “sinistra”.  Una sinistra che si è “venduto” nel silenzio il popolo di sinistra, trasformandolo in una morfologia adeguata al sistema capitalistico. Nel tempo delle post ideologia, tutte le compagini politiche, e soprattutto la sinistra, sostengono che sia anacronistico dividersi in schermanti, ma nascondono invece l’assenza di capacità in una visione generale e completa della società. O la rifuggono questa visione completa di libertà, uguaglianza e giustizia, osteggiandola anche? Una sinistra che ha abbattuto il concetto di classi sociali, distruggendo la coscienza di classe appunto,per far diventare tutto liquido ed informe……..facilmente utilizzabile.

Massimiliano Lorenzo

martedì 1 ottobre 2019

Pensatori contemporanei (parte seconda): Karl Popper - di Giuliano Greco





…..ed eccoci qui, al secondo appuntamento della rubrica sui pensatori contemporanei. Dopo le premesse e le avvertenze esplicitate nel pezzo precedente, pubblicato il 12 settembre scorso, oggi si dà concretamente il via a questo viaggio nel pensiero degli studiosi del nostro tempo, esordendo con…..Karl Popper, il pensatore che forse più di tutti ha influenzato il modo di pensare popolare dei tempi attuali.
Karl Raimund Popper nasce a Vienna il 28 luglio del 1902 da una famiglia borghese e di origini ebraiche. Dopo aver studiato presso l’università di Vienna, intorno al 1928 si avvia alla carriera universitaria come filosofo, acquisendo il titolo di professore nel 1949 ed insegnando Logica e Metodo Scientifico presso la London School of Economics. Nel 1965, la Regina Elisabetta lo proclama baronetto, e, tra le altre, nel 1982 viene nominato membro dell’Accademia dei Lincei. Termina la sua esperienza terrena, dopo aver pubblicato numerosi saggi, nel 1994.
Ma procediamo per gradi e guardando al panorama italiano. Fino alla Prima Repubblica, la società italiana era permeata da un complesso di dictat sociali e religiosi, che offrivano all’individuo un perimetro esistenziale per lo più definito, nonostante a partire dal 1968 venga progressivamente compromesso. Ma dal 1991-92, con la Seconda Repubblica tale struttura valoriale nazionale viene completamente e rapidamente distrutta, smantellata da un corposo gruppo di intellettuali, di cui si tratterà in seguito, i quali fanno leva soprattutto sul pensiero di Popper, e aprendo così la strada allo sviluppo di quella che Bauman definì, intorno al 2003, società liquida, ovvero una società pressappoco priva di identità, senza sostanziali strutture di valori e sistemi esistenziali. Una società soggetta solo alle leggi di mercato e dei consumi, nonché alle regole dello Stato. Una società, quella italiana, che anche sotto il profilo politico si connota oramai per la progressiva assenza di sistemi identitari forti. Da qui, va da sé che l’individuo, l’italiano del popolo, è stato sì lasciato libero (soprattutto di parlare), ma al tempo stesso, sotto il profilo esistenziale, è stato lasciato senza una guida morale, e dunque, abbandonato al più completo sbando, risultando funzionale tutto questo, solo ai poteri forti che di lui, dunque, possono farne quello che vogliono. Tra le altre, ecco, a partire dagli anni ’90, anche il proliferare in Italia degli assistenti dell’anima più o meno titolati, che fungono tuttavia solo da palliativi. Per onestà intellettuale va ovviamente sottolineato che qualsiasi società presenta dei costi e degli svantaggi. E se la nostra società, quella attuale, reputa oscurantista quella della Prima Repubblica, deve ammettere, tuttavia, che i nostri tempi presentano anche loro tutta una serie di svantaggi che si sintetizzano in una società che non è azzardato definire babelica.
Ma ripartiamo da Popper e dal suo pensiero, che ha contribuito in maniera importante a determinare quanto esposto. Il primo corpo di pensieri popperiani ha natura socialista, con una forte propensione al marxismo. E tutto ciò fino al 1919, quando Popper incontra Albert Einstein, dal quale assume la convinzione che la scienza ha solo verità provvisorie. E su tale concetto Popper costruisce gran parte del suo pensiero negli anni a venire, il quale sul fronte politico lo conduce ad essere un convinto sostenitore della democrazia, perché non avendo la Ragione la possibilità di dare delle certezze, la costruzione sociale deve avvenire all’interno di un dialogo cui tutti devono partecipare ed hanno diritto. Bandisce dunque, qualsiasi forma di totalitarismo e, ovviamente, abbandona il marxismo che si pone come realtà ideologica non confutabile, dunque assoluta. I risvolti sul piano più popolare del pensiero di Popper si sostanziano nel fatto che non esistono verità assolute e dunque ognuno ha il diritto di strutturare la propria esistenza come meglio crede e di “sbagliare come meglio crede”. Un pensiero questo che, in assenza di supporti all’esistenza dell’individuo, anziché renderlo libero e forte, ne ha decretato tutta la sua fragilità ed impotenza su più piani e a più livelli, portando peraltro ad un individualismo spinto oltre ogni misura.


Giuliano Greco