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mercoledì 31 luglio 2019

La Rivoluzione Informatica (parte prima): Le premesse – di Andrea Tundo


            Qui e così Maison Ragosta avvia una sua nuova rubrica, che, in sedici puntate (due al mese), narrerà della Rivoluzione Informatica, la quale si presenta a tutt’oggi in una fase ascendente e di accelerazione e che forse caratterizzerà i nostri tempi per almeno i prossimi cinquanta anni. Una Rivoluzione che, avviatasi negli anni ’50 del secolo scorso ha modificato profondamente non solo la nostra cultura nelle sue varie declinazioni, ma sta conducendo a nuove forme di esistenza sul nostro pianeta.
            Proprio per tutto ciò, nei nostri appuntamenti, si analizzerà il fenomeno nei suoi risvolti sociali, politici ed economici, non mancando tuttavia approfondimenti più tecnici, i quali saranno posti in chiave, ovviamente, prettamente divulgativa e comprensibile per un’utenza molto vasta. In tale prospettiva, prenderemo ad analisi tutti i passaggi fondamentali, scandendo tutte le trasformazioni socio-economiche e politiche conseguenti per decennio, partendo dagli anni successivi al dopoguerra dove la progressione delle conoscenze informatiche divenne sempre più rapida. Naturalmente, si avrà cura di fare un cenno importante all’opera di Alan Turing, che fra il 1936 e il 1940 metterà importanti fondamenta in ambito informatico, e che innescheranno il processo rivoluzionario. Non a caso il primo computer commerciale fu costruito nel 1941. E così si tralasceranno tutti i progressi e i risultati della matematica, che per la Nostra Rivoluzione hanno posto le basi nel corso del secolo precedente a partire, dalle intuizioni di Ada Lovelace.
            La rubrica, dunque, se da un lato procederà ad un’analisi storica del fenomeno in questione, non mancherà dall’altra di metterne alcuni aspetti salienti connessi ai nostri giorni in maniera più ampia e approfondita. Ma non finisce qui. Nelle parti conclusive la rubrica procederà anche a delle proiezioni future, ovvero illustrerà quali potrebbero essere gli sviluppi di questa rivoluzione, che oramai è entrata prepotentemente in tutti gli ambiti della nostra esistenza, condizionandola e plasmandola, non solo sotto il profilo delle abitudini, ma anche nella prospettiva psicologica. Ed ecco che, verranno prese in esame le principali teorie sul futuro dell’informatica, ma del pari, si proporranno anche ipotesi di nostra costruzione.
            Quanto sin qui esposto si fonderà sul concetto aristotelico di Technè, che tradotto con semplicità si può intendere l’azione finalizzata ad uno scopo, e che si pone al contrario della Praxis, che è l’azione fine a se stessa. Techné che investe ed interessa tutti i saperi dell’uomo finalizzati a condizionare l’ambiente, nel quale spazio rientrano anche l’arte e la musica. Un sapere che non riduce i rischi dell’esistenza e non pone l’esistenza fuori dall’ambito problematico, ma sposta solo la linea confine dei problemi dell’esistenza stessa, sostanziandosi ciò nel processo evolutivo dell’Uomo, che altro non è che il passaggio da un piano problematico ad un altro più complesso. Va da sé che, l’esistenza dell’uomo non avrebbe senso là dove non esistesse un contesto che richiede delle soluzioni sempre nuove e rinnovate.

Andrea Tundo

venerdì 26 luglio 2019

Il mondo del libro nel leccese tra accessibilità e “Star System” - di Mauro Ragosta


           E’ oramai sempre più evidente che il mondo del libro nel leccese va contrassegnandosi per due tendenze apparentemente contradittorie e che invece, ad un’attenta analisi, convergono verso un incedere unitario e dotato di sue precise logiche di fondo.
Da un lato, infatti, troviamo la pubblicistica non accademica che presenta, con un rafforzamento progressivo, i caratteri dell’accessibilità e dell’inclusione. Qui una schiera sempre più folta di scrittori propone i temi più disperati tra narrativa e saggistica. E ciò senza che si intraveda un orientamento ben preciso. Un’offerta culturale sempre più corposa in termini quantitativi, favorita in ciò dall’abbassamento dei costi di produzione di un testo, in parte dovuto alla comparsa di un cospicuo gruppo di editori, che, in buona sostanza, gioca al ribasso nell’arena competitiva leccese, in parte dovuto ancora ai progressi della tecnica e della tecnologia. Va da sé che, sotto il profilo della qualità letteraria, tale mole di produzione trova collocazione solo rendendo più fruibili i testi, ponendo così le condizioni per un allargamento della fascia dei lettori. In altre parole, il mondo del libro in provincia di Lecce sta assumendo tutti i caratteri di un fenomeno di mercato, diretto ovviamente dalle ferree leggi della domanda e dell’offerta. Qui, come è noto, vi è una inversa proporzionalità tra prezzo e fruibilità del prodotto e ampiezza dei lettori. Ne segue che il prodotto letterario deve la sua fortuna se il rapporto tra l’accessibilità dell’elaborato e il suo prezzo consente masse sempre più significative di lettori.
            In molti intravedono in tali dinamiche il crollo qualitativo degli elaborati proposti sul mercato, un crollo della “cultura”, ma così non è. Al fianco di una pubblicistica più commerciale, di per sé più semplice ed elementare, vi sono nella produzione locale anche prodotti più di nicchia, destinati ad un lettore più evoluto ed esigente, le cui tirature non possono che essere decisamente contenute. In tale direzione, non è pensabile per un prodotto letterario dai registri linguistici e contenutistici di buona caratura una fortuna commerciale pari a quella che rispecchia la produzione destinata all’uomo medio e, dunque, accessibile al lettore con capacità letterarie medio-basse.
            Se su tutto ciò viene facile arguire tutta una serie di speculazioni ed intercettare una serie di riscontri pratici, meno evidente, e forse anche sottaciuto, appare il fenomeno dello “Star System”, anche perché siamo solo alle prime battute in termini di sviluppo. Se fino a qualche anno fa il mondo del libro nel leccese viveva, in un certo senso, un suo beato isolamento, a partire dal 2016, ha destato l’attenzione di alcuni potentati economici locali, prima, e poi politici, fino ad interessare anche alcune frange massoniche. Componenti sociali queste che hanno fornito mezzi economici e reti di relazioni di vasta portata, consentendo così operazioni “culturali” importanti. Vari i casi di attori di questo mondo che in breve tempo hanno realizzato e stanno realizzando performances particolarmente significative e mai viste prima del 2016 nel distretto culturale leccese. In tale direzione, interessanti appaiono anche i tentativi di costruzione a tavolino del "personaggio pubblico".
            In buona sostanza, il mondo del libro nel leccese va assumendo tratti sistemici di tutto rilievo, non mancando di evidenziare una struttura di un certo rilievo. Va annotato, a tal proposito, che oramai ampia e stabile si presenta la rete di contenitori culturali, tra rassegne, spazi ad hoc destinati ad eventi, iniziative seriali. Va a tal riguardo precisato, inoltre, che gli attori dell’emergente “Star System” hanno un raggio d’azione che comincia ad essere particolarmente ampio, interessando in non pochi casi carature nazionali.
            Ma in quale prospettiva valutare questo complesso di tendenze e sviluppi del mondo del libro nel leccese? Certamente la cultura a Lecce da strumento politico, fino alla Prima Repubblica, si è trasformato progressivamente ad ammortizzatore sociale e prodotto di massa, durante la Seconda Repubblica. Oggi, con la Terza Repubblica, comincia ad entrare nella sua fase “moderna” come strumento commerciale e consumistico, spinto in ciò dalla circostanza che il libro è inteso anche come strumento di mondanità e visibilità.

Mauro Ragosta

giovedì 25 luglio 2019

Dalla Seconda alla Terza Repubblica (parte decima): La dismissione dell’IRI e l’avvio dello smantellamento dello Stato della Prima Repubblica - di Massimiliano Lorenzo


Va subito sottolineato che qui si analizzerà, sia pur succintamente, una delle più grosse operazioni, assieme istituzionali ed economiche, attraverso le quali lo Stato, che nel suo assetto determinatosi in Italia, dopo la crisi del 1929, avvia un cambiamento del suo ruolo e delle sue funzioni, trasformando di rimando anche l’essenza stessa delle Repubblica, sorta nel 1948. Non a caso si parla di Seconda Repubblica. Ma quali i punti essenziali?
In sintesi, a partire dal 1992, tecnicamente si avvia il grande cambiamento con la dismissione dell’IRI, ovvero dell’industria di Stato, cui seguiranno la concentrazione del potere bancario, la privatizzazione delle istituzioni per l’emissione della moneta, lo smantellamento, avvenuto progressivamente dopo il 2000, dello Statuto dei Lavoratori, il Porcellum e la progressiva privatizzazione della sanità, avviata intorno al 2005, ed ancora in corso, che nella sostanza restituisce al capitalismo italiano e, dunque, alle grandi famiglie italiane il controllo dell’economia nazionale in quasi tutti i suoi aspetti e forse in maniera amplificata, con un ritorno alle origini, rispetto ai poteri sul controllo della moneta. Oggi, il ruolo dello Stato Italiano, in termini di capacità di intervento nel sistema produttivo e monetario, è oramai estremamente limitato. Ma del nuovo assetto e ruolo dello Stato italiano emerso dalle purghe della Seconda Repubblica, e caratterizzante la Terza Repubblica, ne parleremo più in là, a partire da novembre.
Nato in epoca fascista, da un tacito accordo tra le grandi famiglie italiane, il Re e Mussolini, l’IRI era una struttura pubblica che ebbe la funzione di sostenere l’industria italiana in un periodo, che, forse, fu uno dei più difficili della recente storia, ovvero quella che seguì alla crisi del 1929. In sostanza, così facendo e come si vedrà, le grandi famiglie italiane scaricarono le perdite delle loro industrie sullo Stato e dunque sui contribuenti. Nel dopoguerra l’IRI, all’interno di uno stato tendenzialmente socialista, divenne lo strumento principale per l’intervento pubblico in economia, prima che si riaffermassero le teorie liberali negli anni ’80, con la decisione di restituire alle grandi famiglie italiane il potere economico nazionale, ed in vista della fine della Guerra Fredda.
            Nella “pancia” dell’IRI e, di conseguenza, in quella dello Stato vi era circa il 40% delle aziende italiane e le più importanti banche della nazione.  Ovvero, l’Istituto era proprietario e gestore di grossi pezzi di diversi settori dell’economia nazionale, da quello siderurgico a quello alimentare, sino a quello automobilistico e bancario, avendo in portafoglio la proprietà, tra le altre, del Credito Italiano, La Banca Commerciale, il Banco di Roma e via dicendo. Insomma, era quell’istituto che dava, da una parte, stabilità e competitività ai settori nei quali agiva, dall’altra parte, invece, fungeva da salvacondotto quando imprenditori o bancari necessitavano di coperture finanziarie. Una funzione, quest’ultima, criticata proprio dagli organismi europei, che, dopo la firma del Trattato di Maastricht, non hanno più accettato tali pratiche, identificate come “aiuti di Stato”.
Le dismissioni del più grande istituto statale, l’IRI appunto, avviate nel 1992, ebbero molteplici motivazioni, attori e prospettive, non solo nazionali. Infatti, l’affermazione delle teorie economiche liberali in Italia ed in Europa, definite negli obiettivi dalle grandi famiglie, prevedevano una presenza dello Stato in economia sempre più contenuta, sino alla sua completa estromissione: tutto doveva ritornare nelle mani dei più potenti gruppi familiari italiani. E così fu, quando nel 2002, la questione fu portata a termine ed archiviata.
Ma chi furono i protagonisti di questa mega-operazione? Il protagonista principale fu Romano Prodi, ex Presidente IRI ed Ex Presidente del Consiglio dei ministri, che guidò, sotto il Governo di Giuliano Amato, l’inizio delle vendite. Tra gli altri, un ruolo importante lo ebbe anche Pierluigi Bersani, con le vendite dell’Enel e dell’Eni.
In tutto questo il ruolo della politica, di destra e di sinistra, fu quello di ammortizzare le eventuali tensioni tra il popolo italiano e le grandi famiglie, nonché quello di occultare la reale portata dell’intera operazione, ché avrebbe creato non poche frizioni sociali. In via accessoria, invece, il ruolo dei politici, tutti, fu quella di rendere conveniente la dismissione dell’Istituto. Infatti, non poche aziende vennero cedute a valori molto al di sotto di quelli reali.

Massimiliano Lorenzo

domenica 21 luglio 2019

E continua la ricerca di un collaboratore per Maison Ragosta…


         Con la presente comunicazione si reitera e meglio si specifica e formalizza l’annuncio del 21 luglio u.s. volto a valutare candidature per la selezione di un collaboratore da inserire nell’attuale gruppo di lavoro che gestisce Maison Ragosta, rivista on line di cultura e intrattenimento, al momento con caratura territoriale di tipo provinciale (Lecce).
            Si ribadisce, ancora una volta, che per la figura richiesta sono indispensabili una buona conoscenza della lingua italiana, una soddisfacente cultura interdisciplinare e una significativa propensione alla ricerca, nell’ambito delle scienze molli. Per la selezione non presentano valore significativo, pertanto, né i titoli di studio né i titoli accademici e neppure eventuali riconoscimenti, come neanche il curriculum, attinente agli studi e ai pregressi professionali, di lavoro e letterari di vario genere. Particolarmente graditi, invece, saranno i candidati di età compresa tra 50 e massimo 65 anni, residenti in provincia di Lecce o in provincia di Brindisi.
        I candidati, inoltre, dovranno essere disponibili a frequentare un corso specializzato e personalizzato, che insisterà su temi di stile e politica della comunicazione, attraverso alcune full immersion (minimo 2, massimo 4), che verranno sviluppate nell’arco di 50 giorni.
            A tal proposito, gli interessati possono utilizzare il canale comunicativo che meglio ritengono opportuno per le procedure di primo contatto, tenendo in considerazione anche dell’opportunità di poter ricorrere ad un approccio telefonico, preferibilmente dalle ore 10:00 alle ore 12:00 e dal lunedì al venerdì, utilizzando il seguente numero: 340-5230725.

Mauro Ragosta
           

venerdì 19 luglio 2019

Recensione n°6 – L’ultimo lavoro di Lea Barletti, tra l’incanto e l’inusitato – di Mauro Ragosta


            Non è un prodotto leccese o salentino l’ultimo esercizio letterario di Lea Barletti. E Carmelo Bene direbbe che non è azzardato, perché eccede l’azzardo stesso, affermare che quest’ultimo lavoro della Barletti non è neanche un prodotto per i leccesi o per i salentini, con le dovute eccezioni, ovviamente. Tuttavia, è un prodotto che ha radici,  quelle più importanti, forse, qui, da noi, nel leccese.
           Lei, la Barletti, è di Roma, ma vive a Berlino, mentre suo padre è originario e vive a San Cesario di Lecce. Sicché, la nostra Lea si divide tra le due capitali europee ed il Salento, dove qui si sono trovate tutte le condizioni per pubblicare, l’anno scorso in primavera, il suo ultimo diletto narrativo, Il libro dei dispersi e dei ritornati. Si tratta di un prezioso e agile volumetto di oltre 140 pagine, fruibile grazie all’impegno di Luciano Pagano, al quale sono ascrivibili le edizioni Musicaos di Neviano.
           Molti leccesi, in senso lato, credo che in tema di narrativa amino ancora e troppo -fatta esclusione per la poesia, che è discorso altro- gli elaborati costruiti su schemi di una razionalità stringente e con una forte coerenza interna, accessoriati, dunque, di finale, ovviamente consolatorio, che magari faccia versare anche qualche lacrima. In tale prospettiva, il lavoro della Barletti, per usare un eufemismo, è un prodotto di nicchia, ché devia seccamente da queste coordinate, così canoniche e prevedibili. E’ un elaborato, quello della Barletti, per chi ama andare oltre un impianto narrativo dotato di una trama e di un epilogo. Consente, infatti, di soddisfare le esigenze dei “turisti letterari più esigenti”, che gradiscono nel tempo della lettura immergersi in dimensioni e scenari inediti, imprevedibili e che riescono a colpire simultaneamente tutti i sensi. Per questi lettori il lavoro della Barletti è paragonabile ad un’oasi narrativa rispetto allo scenario generale, perché si presenta imprevedibile, riserva stupore e meraviglia ad ogni pagina. Ma che dico?! Ad ogni pensiero.
   
            Ma come nasce Il libro dei dispersi e dei ritrovati? Un grappolo di elementi psicologici, esistenziali, ambientali e circostanziali si combinano e convergono in un gesto di Lea, che pare privo di un significato preciso ed individuabile, anche se non automatico. Siamo a Berlino, corre il 2013 e lei, Lea, si trova, in compagnia di un suo amico, da un rigattiere. Qui, la colpisce un baule zeppo di album fotografici, che comincia a sfogliare, e, rapita da quelle foto abbandonate, prevalentemente foto di famiglia, perde il senso del tempo, non accorgendosi che, a un tratto, è arrivato l’orario di chiusura. Sollecitata a lasciare quel posto, va via, non senza aver prima acquistato tre foto, scelte velocemente tra le migliaia e senza pensarci su: le mette in borsa. Dimentica quel momento e le tre foto, che, ignorate, rimangono nella sua borsa, quando, come per incanto, un anno dopo, la sua attenzione ritorna su queste. E’ un attimo, nel quale guardando le tre immagini,  le scatta una corposa, inusitata e attraente riflessione, che mettere su carta: è qualcosa che l’entusiasma, ed è entusiasmante. Ritorna dal rigattiere, compra altre foto e la magia delle sue elucubrazioni riflesse in queste si ripete. E nuovamente Lea le mette su carta. E’ così, da qui, nascono gli undici racconti di cui si compone Il libro dei dispersi e dei ritrovati.
            Ma cos’è successo realmente a Lea? Quelle foto, per lei, sono diventate, come per incanto e senza una precisa volontà, simbolo, e simbolo potente, dove per simbolo si intende qualcosa che rimanda a qualcosa altro. Nel suo caso, quelle foto la rimandano nella zona più profonda di sé stessa. E Lea raccontando si racconta, non potendo, ovviamente, non ricorrere all’utilizzo di metafore ed allegorie, che sono poi i racconti. Naturalmente, Il libro dei dispersi e dei ritrovati, trattando e specchiando la parte più profonda e magmatica dell’anima di Lea, non si sviluppa su un piano in cui la ragione può com-prendere pienamente. Ci vuole qualcosa d’altro. Tutto dipende dallo stato di coscienza con cui si leggono i racconti di Lea. E non finisce qui! Il libro dei dispersi e dei ritrovati permette al lettore, attraverso un gioco di specchi, di ritrovarsi, come ad uno speleologo, nel profondo di se stesso, nelle parti più nascoste, arcane e misteriose, dove magicamente Lea ti lega a sé, dove ti incontri, su di un piano inedito e sconosciuto, con lei.
            Insomma, Il libro dei dispersi e dei ritrovati è un’esperienza letteraria singolare, avvincente, da centellinare, ed anche forte. E’ un libro che non fa sognare, pur non mancando di respiri eleganti ed atmosfere raffinate, ma permette al lettore attento ed evoluto di percepire, ed anche bene, ciò che non può essere concettualizzabile, ciò che non può essere oggetto del linguaggio. E proprio il non detto e il non dicibile, alla fine, sono lo specifico del lavoro della Barletti.

Mauro Ragosta

martedì 16 luglio 2019

Recensione n°5 – Manuela Del Coco: una debuttante che irrompe nei cuori dei leccesi – di Mauro Ragosta


E’ con uno spaccato in cui si narrano e si illustrano una certa Lecce e certi leccesi, sicuramente quelli più in vista negli anni ’80, che esordisce come scrittrice Manuela Del Coco, col suo romanzo Poi quando torno mi metto a lavorare, per le Edizioni Esperidi di Claudio Martino. Un corposo volume di oltre duecento pagine, pubblicato lo scorso maggio, di una leccese per i leccesi. Eh sì, perché Manuela è leccese. Ma un libro valido, molto, anche per chi “straniero” voglia conoscere i costumi e la cultura del passato recente del capoluogo salentino. Di un passato che con forza si pone a fondamento dell’attuale società leccese, quale suo naturale sviluppo, sua ovvia conseguenza.
        Magistralmente Manuela descrive, con maggior vigore e puntualità soprattutto nelle pagine iniziali, la vita di uno dei giovani leccesi dei primi anni ’80, di quelli che frequentavano il bar Katia, il bar Poker, il bar Triangolo, Piazza Mazzini, la cui fontana a forma di mandala, era stata inaugurata qualche anno prima, nel 1975, assurgendo a metafora, icona di una nuova Lecce, nel suo volto e nel suo ruolo. E qui, in questo e con questo scenario, Manuela descrive la storia di Davide, il protagonista del racconto, mentre, nella narrazione, fanno da spalla due suoi amici e una ragazza a lui legata da un rapporto fatto di tenerezze, condivisioni e complicità. Un Davide, che figlio di professionisti leccesi, è un giovane bellissimo ed esuberante, sicuro di sé, troppo…..


            In Poi quando torno mi metto a lavorare non c’è, da parte della nostra autrice, una grande ricerca letteraria. E questo perché vi è in lei un’urgenza nel raccontare -in maniera fitta- la parabola di vita del protagonista della sua storia. Un’impellenza che si traduce in un lavoro letterario dai ritmi veloci, incalzanti, pressanti, e che magicamente coinvolgono e travolgono anche il lettore, portandolo a leggere tutto d’un fiato una storia a tratti mancante di perché, misteriosa e inspiegabile, dunque. Eppure una storia che sta lì, forse, sempre lì, ancora lì in una Lecce che, tutt’oggi, assiste impotente a vicende vicine a quelle del protagonista della nostra Manuela, Davide appunto, e che dunque per questo Davide stesso diventa simbolo, emblema, rappresentazione di quella Lecce, che, in definitiva, appartiene a tutti noi, anche se, a volte, segretamente.
            E qui si impone una considerazione importante e necessaria, obbligatoria, che si sovrappone e si interseca con quanto detto, e cioè che negli anni ’70 a Lecce, progressivamente e lentamente si dissolsero gran parte degli schemi culturali, che da sempre l’avevano connotata. Già nei primi anni ’80, tempo nel quale si sviluppa il racconto della Del Coco, la sua società si trovò profondamente trasformata e, allo stesso tempo, drammaticamente impreparata, incerta nell’incedere. E tutto avvenne rapidamente, troppo rapidamente. Quella degli anni ’80, già agli inizi è oramai la Lecce dell’opulenza, con tutti i suoi risvolti e i suoi corollari esistenziali e relazionali, che forse oggi si replicano ancora e, magari si vivono in maniera amplificata, ma che non colgono più di sorpresa il leccese, come fu per molti allora, come fu per il Davide della Del Coco.
            Ed ecco, quindi, che per il lettore leccese, magari quello un po’ avanti nell’età, ma ancora giovane o giovanile, il lavoro di Manuela scatena emozioni a ripetizione, ed in tutte le direzioni. E ciò in parte per la trama, in parte, e forse soprattutto, per i richiami ai ricordi personali, a quelle atmosfere, a quei colori, a quei luoghi….i volti, che non paiono remoti, ma dai quali lo e ci separano quasi quarant’anni. Per questi lettori il racconto di Manuela rimanda alla propria giovinezza, a quell’universo di circostanze, sensazioni, respiri che hanno costellato quegli anni, quel tempo in cui Lecce, ancora chiusa, autoreferenziale in maniera spiccata e bellissima, costituiva un mondo completo in sé, e per sé. 
            Un libro importante anche per i più giovani, dove possono trovare chiare le loro radici, le radici della Lecce contemporanea, che se per alcuni tratti presenta un’identità forte, per altri barcolla ancora in misteri come quelli che circondano il protagonista e i suoi amici nel nostro Poi quando torno mi metto a lavorare.
            E per concludere, anche questa volta Claudio Martino con le sue Edizioni Esperidi ha realizzato, con il lavoro della Del Coco, un prodotto editoriale di ottimo profilo, riuscendo a trovare il giusto equilibrio tra le esigenze letterarie e le esigenze di mercato, dove queste ultime vengono ad essere proficuamente soddisfatte nelle richieste, nelle necessità, nella sensibilità, senza alcuna forzatura, in maniera fresca, senza alcuna lezioncina professorale e autoreferenziale, che molti lettori leccesi devono sovente sobbarcarsi e tollerare, se non proprio quando, a volte, rischiano di soccombere, invece, sotto il peso delle banalità. Il tutto in una sorta di equilibrismo, che di frequente si presenta di alto livello e che, invece, non è richiesto al lettore per il romanzo della nostra Del Coco, in quanto va da sé, scorre agilmente, chiaro ed in maniera segnante.

Mauro Ragosta

domenica 14 luglio 2019

Saper Comunicare (parte quarta) – Alcune conseguenze della nostra società, così rumorosa….. - di Andrea Tundo


         Può accadere che, per lunghi periodi, la nostra comunicazione non si allinei sui principi dell’efficienza e dell’efficacia, e cioè che per dire qualcosa ci profondiamo in panegirici inconcludenti o in discorsi che non riescono ad approdare ad una conclusione, dove completamente sgangherate si presentano le nostre abilità di analisi e di sintesi, o per altro verso ancora, ci esprimiamo in maniera lapidaria o, al più, laconica. Insomma, non riusciamo ad essere pregnanti nel nostro dire. Da qui, è facile che riceviamo risposte del tutto insoddisfacenti, inducendoci a pensare che siamo degli incompresi.
         Le cause di una nostra comunicazione inefficiente ed inefficace sono molte. Tra queste, quella che assume una rilevanza di non poco conto può ascriversi alla nostra esposizione eccessiva all’informazione. In altre parole, se si considera che ogni informazione che acquisiamo deve essere selezionata, elaborata e metabolizzata, ovvero integrata nel nostro sistema pensante e che tutto ciò richiede un tempo, si capirà facilmente che se siamo esposti fortemente all’informazione il nostro cervello può andare in surmenage, o come si dice correntemente, in tilt. Ed ecco che, le capacità espressive sono compromesse. Ma c’è di più.
         Al riguardo va detto inoltre che, tra il momento di acquisizione dell’informazione e la sua integrazione nel nostro marchingegno intellettivo, trascorre un periodo di relativa confusione. Come afferma Hofmannsthall, un noto letterato e poeta austriaco vissuto a tra Otto e Novecento, ogni conoscenza determina scomposizione e reintegrazione. Va da sé che è facile comprendere, come constatare, che ogni acquisizione di informazioni determina uno squilibrio temporaneo del nostro pensiero, come sistema. Insomma, uno stato di confusione, disorientamento.
         Dunque, una mente sottoposta ad una quantità eccessiva di informazioni viene messa sotto stress, e ciò a tal punto che può farla giungere a ridurre le sue capacità espressive e comunicative.
         Tale considerazioni, poi, devono essere integrate di alcune considerazione attinenti ai recenti sviluppi della nostra società e al suo assetto attuale. Non pare superfluo ricordare che nel breve volgere di settant’anni siamo passati da una società contadina, che da sempre aveva caratterizzato l’umanità, ad una industriale, ad una terziaria, ad una quaternaria dove, quest’ultima, si può definire ad altissimo livello relazionale e dunque di scambio di informazioni. In settanta anni siamo passati da una società prevalentemente silente e relativamente con poche relazioni ad una rumorosissima, dove l’interscambio relazionale si ha da quando ci svegliamo a quando andiamo a dormire. Ma ciò che è più importante è che ci siamo passati in tempi rapidissimi, dove, come conseguenza, evidenti e sono i nostri disagi di adattamento, in parte perché lo scenario è completamente nuovo, e non abbiamo ricevuto un’educazione ad hoc, in parte perché tale scenario si presenta critico dal punto di vista strutturale della nostra psiche.
         Naturalmente, tale stato di cosa dipende da soggetto a soggetto. Ogni individuo ha, infatti, un proprio ritmo di acquisizioni di dati, un proprio ritmo di elaborazione ed integrazione dei dati, un proprio sistema selettivo delle informazioni, in base al ventaglio delle sue sensibilità e dei suoi interessi. Ciò però non ci deve portare ad ignorare la problematica in questione, anche perché, se per noi il problema non potrebbe sussistere, potrebbe invece interessare il vostro interlocutore, che voi dovete considerare anche sotto questo aspetto, se aspirate a che la vostra comunicazione faccia “centro”. Il bravo comunicatore, infatti, sa valutare il proprio interlocutore nelle sue capacità di acquisizione ed elaborazione di dati e da qui comunicare con uno, due, tre, quattro o quarantaquattro pensieri e concetti.
         Ecco quindi che, dosare e dosarsi nei processi comunicativi diventa necessario se non proprio indispensabile e, in assenza di una grammatica comune e condivisa, si trasforma in vera e propria arte.

Andrea Tundo

mercoledì 10 luglio 2019

Dalla Seconda alla Terza Repubblica (parte nona): cause e conseguenze dell'astensionismo - di Massimiliano Lorenzo

       
Dopo aver offerto alcune delucidazioni sul processo di concentrazione del potere politico e bancario in Italia, è qui d’uopo soffermarsi su un altro aspetto importante della Seconda e della Terza Repubblica: il non-voto o l’astensionismo. Da ormai 40 anni, tale fenomeno è una costante in Italia, e non solo in Italia, e si sostanzia nella circostanza che una larga fetta di popolazione, nel momento cardine della democrazia, ovvero quando deve esprimere il proprio voto nelle urne, non si presenti e dunque non esprima la sua preferenza e il suo orientamento politico. E ciò con motivazioni non sempre ascrivibili ad una razionalità.
In Italia, la pratica del non voto e dell’astensione, dunque, fino a tutti gli anni ‘80 del Novecento non destò interesse e, di conseguenza, venne tralasciata nelle analisi politiche post-voto.  Ciò perché la percentuale di astensionismo si presentava veramente irrilevante sui processi elettorali. Tuttavia quando l’allora segretario del PCI Enrico Berlinguer, nel 1981, portò all’attenzione di tutti la cosiddetta “questione morale”, sulla corruzione della politica e dei politici, gli astensionisti cominciarono a far sentire la loro presenza o assenza alle urne. Ad ogni modo, fu nelle prime votazioni politiche degli anni 90, infatti, che il partito degli astensionisti iniziò ad allargare i suoi consensi. Ma cosa creò questa impennata? La questione pare direttamente ricondursi a quel noto fenomeno che venne definito “Tangentopoli” o “Mani Pulite”, avviato dalle indagini del giudice Di Pietro e che mise in luce gran parte del sistema di corruttele che costellavano il mondo della politica e della vita dello Stato Italiano.
In tale direzione va sottolineato che, la corruzione è sempre stata connessa alla vita dello Stato, sin dai suoi albori, sin dalle sue origini, senza conoscere differenze di territorio e di popolo. Ma, a partire dagli anni ’90 del Novecento qual è lo specifico della novità in merito, in Italia? Ecco, con Di Pietro la corruzione nella vita dello Stato e dei partiti assume carattere spettacolare e di spettacolo nonché strumento di propaganda politica. Non è da escludere che l’attenzione sulla corruzione servì e forse serve ancora, a nascondere i reali processi di cambiamento del nostro Paese, ben più dolorosi per la popolazione rispetto ai fatti connessi alla corruzione stessa. Nello specifico, la propaganda sulla corruzione servì, e forse serve ancora, per spiazzare l’opinione pubblica e l’attenzione della gente comune rispetto ai grandi cambiamenti in merito al ruolo dello Stato e al ruolo del popolo italiano nel nostro Paese.
Il risvolto di tale politica, perseguita dai vertici della classe dirigente italiana, fu l’astensionismo, anche se su tale fenomeno gravano anche altre variabili. Tra queste un ruolo importante lo ebbe la fine della contrapposizione tipica della Prima Repubblica tra Comunismo e Liberismo, due mondi alternativi, che colpì fortemente le idee alla base dei partiti, che si trovarono in una sorta di “liberi tutti” e che videro affievolire sempre di più le loro ideologie, quindi l’orizzonte e le prospettive da trasmettere agli elettori, i quali rimasero prevalentemente senza un’identità politica.
Anche i partiti e la politica senza più un’identità chiara contribuirono, dunque, ad ingrossare le fila dell’astensionismo. Quella mancanza di ideologie e di fedeltà a questo o quel partito, di destra o di sinistra che fosse, unite ai perduranti immobilismo e corruzione, hanno contribuito a far montare la sfiducia e l’avversione nei confronti delle istituzioni e di chi le occupa. Da qui la conquista di punti percentuali del “partito” dell’astensionismo: da circa il 13% delle politiche del 1992 a circa il 28% delle ultime elezioni – secondo partito, dopo i pentastellati di Di Maio.
Sicché, la lotta alla corruzione, come strumento di propaganda, e la lotta politica, da un lato e dall’altro i tratti decisamente sbiaditi del messaggio politico dei vari partiti hanno condotto ad una disaffezione al voto, che potrebbe essere tradotto anche come una disaffezione alla democrazia, o al concetto di democrazia, essendo questa oramai molto rarefatta, come il comune lettore potrà valutare esso stesso osservando la realtà dei fatti, dipendendo la vita dello Stato come quella del cittadino comune da decisioni che vengono prese da gruppi ristretti di soggetti, e non sempre in Italia, e comunque al di fuori dello stesso Stato.
Massimiliano Lorenzo

lunedì 1 luglio 2019

Post-evento n°3 – Copertino: un altro centro dalle "scuderie" di Ivan Raganato – di Mauro Ragosta



Ieri sera, domenica 30 giugno, presso Scena Muta a Copertino, la prima di Suo Malgrado C’era, una piece teatrale tratta dal riadattamento di Feu la Mére de Madame (1908) di Georges Feydeau. Una sala traboccante di pubblico, a tratti anche molto qualificato, per quattro attori delle “scuderie” di Ivan Raganato, ovvero Maria Antonietta Vacca, Luca Trevisi, Francesco Buccarella e Carmen Leo, che magistralmente, nella formula 2+2 -due protagonisti e due spalle- hanno saputo tenere in pugno, con una cadenza stretta ed incalzante, l’attenzione degli astanti.
 
Il tutto è ruotato attorno ai dialoghi in un interno parigino tra Ivonne (Maria Antonietta Vacca) e suo marito Luciano (Francesco Buccarella), assistiti da due domestici, ovvero Annette (Carmen Leo) e Giuseppe (Luca Trevisi). Qui, fraintendimenti, manie ed isterie di coppia si sono susseguite e sovrapposte, tra raffinate ironie e colpi di scena a ripetizione, tutti esilaranti in una sinfonia di sapienti e rapidi passaggi. E così, alla fine, applausi sentiti e scroscianti, applausi partecipati, applausi appassionati di un pubblico soddisfatto per una serata teatrale entusiasmante e piena.

Una serata, quella da Scena Muta a Copertino, fatta in economia, ma dalla resa artistica di gran livello. E questa pare essere una delle peculiarità della compagnia di Ivan Raganato, per la quale non è azzardato affermare che essa si collochi certamente tra le più interessanti realtà teatrali del nostro territorio e che contribuisce in maniera significativa a porre Copertino come laboratorio artistico di spicco e primaria rilevanza nel Salento.
In ogni caso, con riferimento a ieri, sicuramente bravi e professionali sono stati Francesco Buccarella e Luca Trevisi, che hanno messo in luce una consumata esperienza teatrale e attitudini non comuni. L’attorialità di Maria Antonietta Vacca, poi, sempre fatta di rare capacità di immedesimazione e straniazione, impegno e passione, è stata superba. E tuttavia, ieri, lei non si è distinta per questo, ma per la sua abilità di imprimere e infondere il ritmo, sempre alto, di tutta la recitazione. In tale direzione viene da pensare a lei come ad un Freddie Mercury del teatro salentino. Ed infine, serata miliare per Carmen Leo, che tutto ha lasciato intravedere, tranne il fatto che fosse una debuttante. E proprio a lei va il Nostro migliore augurio ed incoraggiamento per un lungo e luminoso percorso teatrale.

Mauro Ragosta