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domenica 26 dicembre 2021

Stile & Buongusto (parte tredicesima): L’uso della mascherina – di Mauro Ragosta

 

         Non sono passati ancora due anni da quando si è sollevato, soprattutto in Italia, un gigantesco polverone informativo, senza precedenti e tutto centrato sull’emergenza sanitaria.

            Si è detto di tutto e di più, in stile mantra. E non basta! Si è detto tutto e il contrario di tutto. E così, paradossalmente, alla fine non s’è detto niente: due forze uguali e opposte, come tutti sanno, si annullano. Rimangono, però, i fatti, ovvero le raccomandazioni vaccinali accoppiate con l’uso della famigerata mascherina, dove in alcuni casi sono obbligatorie e comunque si pongono come condizione sine qua non.

            Circa le sollecitazioni vaccinali nulla v’è da dire sul piano dello stile e del buon gusto. L’assunzione del vaccino o meno rientra, in linea di principio e di fatto, nella sfera dell’esercizio della propria libertà di scelta, che richiede in ogni caso un’assunzione di responsabilità e il farsi carico degli effetti indesiderati legati alla scelta appunto, in un senso o nell’altro. E questo sia sotto il profilo sanitario, ma anche sociale e politico. In questo ambito v’è solo da rilevare che il prodigarsi del popolo nell’esortazione reciproca alla scelta dell’una o dell’altra opzione, ha solo condotto, in molti casi, ad un becero tentativo di sopraffazione vicendevole, decisamente di pessimo gusto e deprecabile.

            D’altro canto, forse, ci si è adoperati in maniera eccessiva nelle esortazioni al rispetto dei consigli e delle regole del Governo, anzi “quest’eccesso di zelo” -così poco caratteristico del cittadino italiano, almeno riferendosi agli ultimi cinquanta anni- ha fatto perdere di vista a non poche persone il gusto e lo stile nel gestire l’uso della mascherina. E si allude solo al ricorso dell’intelligenza in ciò, che spesso ha condotto a rasentare il comico, ma anche a questioni che di rimandano attengono direttamente al rispetto del prossimo.

            Sicuramente, è inquietante vedere una persona sola in aperta campagna intenta a praticare del footing, utilizzando la mascherina in pieno luglio e a mezzogiorno. Come altrettanto inquietante è vedere una persona sola alla guida della propria auto che indossa una mascherina: tale pratica non solo è farsesca, ma anche pericolosa per sé e per gli altri. E vale la pena sorvolare su quei casi in cui alcuni flautisti hanno tagliato la mascherina ad hoc per poter suonare il proprio strumento.

            Vedere poi gente anziana in bicicletta così bardata fa tenerezza e pena. In questi casi, spesso non è questione di ignoranza, ma di poca robustezza mentale per capire che in età avanzata è mortale andare in bicicletta indossando una mascherina.

            È vero, si potrà affermare che la legge non ammettendo ignoranza, induce a simili eccessi, ma dall’altra proprio essendo astratta, va sottolineato con forza che la legge non vale per il caso concreto, e quindi deve giustamente essere interpretata, altrimenti siamo nella follia.

            L’uso della mascherina, infatti, per rientrare nella pratica del rispetto degli altri e dunque del buon gusto, senza ledere il rispetto della legge, richiede dunque intelligenza, capacità critica e di discernimento. D’altro canto, lo stile e il buongusto sono prevalentemente questione di acume, legato alla capacità di valutazione di tutti i casi che la vita ci sottopone. Sovente, regole precise per avere stile, non ve ne sono, pur essendoci dei principi ispiratori, quali appunto il rispetto per il proprio prossimo, il culto della propria e altrui autonomia, la voglia di interfacciarsi in maniera leale, sportiva, per quello che è possibile, ovviamente, e per quello che ci è dato.

            In tale quadro, quando ci si presenta tra estranei è rispettoso e doveroso mostrare il proprio volto e pretendere di vedere il volto dell’interlocutore. Sicché, in tali occasioni ci si deve per qualche istante, ovviamente mantenendo le distanze, abbassare la mascherina e farsi riconoscere. È assolutamente inquietante e disorientante parlare con una persona di cui non si conosce il volto.

            Ciò vale anche per quando si entra in un negozio, soprattutto di lusso, magari una gioielleria, soprattutto per tranquillizzare l’operatore commerciale, il quale è sempre in tensione vedendo entrare nel proprio esercizio gente senza un volto, e temendo quasi sempre e giustamente che tra questa possa nascondersi qualche malintenzionato. Sicché un tal gesto si presenta di vera gentilezza e fair play.

         Anche negli uffici pubblici sarebbe auspicabile mantenere quest’impostazione come forma di cortesia e di garbo, sapendo che per “l’altro” un volto incognito è fattore stressante sotto vari punti di vista, e di certo della propria sicurezza in senso ampio, si fisica sia psicologica.

            Circa l’uso degli igienizzanti per le mani è cosa buona e giusta, anche quando finirà la pandemia.

            Come al solito, Maison Ragosta cerca di offrire degli spunti di riflessione, anche per idonei approfondimenti, che per quanto e quello che si è esposto, siano sintetici e allo stesso tempo sono fortemente raccomandati. Certamente, in una società così rumorosa come la nostra, pare essere questa proposta che “lascia il tempo che trova”, ma non una volta “la bottiglia” lasciata alle onde del mare ha trovato un suo destinatario, regalandogli così la “mappa del tesoro”.

 

Mauro Ragosta

           

           

Nota: chi fosse interessato alla produzione di saggi di Mauro Ragosta, può cliccare qui di seguito per le principali delucidazioni:
https://youtu.be/lhdKGKUfH6Q 

giovedì 16 dicembre 2021

Stile & Buongusto (parte dodicesima): …col partner – di Mauro Ragosta


            Avere uno stile sobrio, elegante, raffinato nella relazione col proprio partner è questione eminentemente legata alla propria cultura, intesa non di certo come somma delle nozioni ed informazioni che si posseggono, ma di quel complesso di conoscenze ed esperienze che si traducono nel proprio modo di pensare e agire. Si può essere, ad esempio un professore, ma non per questo essere un uomo o donna di cultura, al contrario si potrebbe avere come lavoro il mettere in sesto i giardini e contrariamente ai luoghi comuni più diffusi, essere un uomo di grande cultura.

            Spesso si confondono, infatti, l’erudizione, e tante volte per i più ingenui, anche la ricchezza, quali componenti distintivi dell’essere di una persona di buona cultura. Questa si intravede e si vede dalle soluzioni che si danno alla propria esistenza, al proprio agire e al proprio pensare, dove alcune caratteristiche sembrano il minimo comune denominatore. E così in prima battuta un uomo o una donna, di cultura hanno una vita e un pensiero articolati, non complicati, ma complessi; in genere, sono centrati su sé stessi in un equilibrio apprezzabile tra vita solitaria e riservata, e vita sociale, tra interno ed esterno negli aspetti espressivi, insomma sanno parlare, ma sanno anche tacere. In tutto questo, l’uomo o la donna di cultura danno soluzioni al proprio ambiente, al proprio lavoro e alle proprie relazioni secondo sensi e significati assolutamente personali e molto precisi e mai attinenti a questioni di quantità. La quantità di informazioni che si posseggono dipende, poi, dalla vita che si è scelta.

Circostanza rilevante, quest'ultima, ma non decisiva per essere qualificato quale soggetto di alta cultura. Nell’immaginario collettivo il possedere molte informazioni viene interpretato come segno sicuro di buona cultura, quando invece è solo una questione di potere, che c’entra ben poco con la buona cultura e ancor meno con lo stile ed il buongusto.

Premessa, questa, necessaria per intercettare gli elementi cardine del rapporto col proprio partner in un quadro di buona educazione, intelligenza e soprattutto di uno stile distintivo. Tra questi, di sicuro la gelosia è quel sentimento che attenta ad ogni relazione e ne compromette la bellezza. Ogni azione vistosamente dettata dalla gelosia è una dichiarazione di inferiorità e di incapacità, la quale si presenta con enfasi maggiore, quanto maggiore è il desiderio di esclusività richiesta al proprio partner. Va da sé che una persona di buona cultura e dunque di stile ha una vita alquanto articolata, dove la relazione con la persona amata ne costituisce una parte. Sicché, il corto circuito si ha quando uno dei due ha la necessità di un controllo sempre maggiore della vita dell’altro, sopraattutto se all’interno di contesti molto strutturati.

In ogni caso, una manifestazione di gelosia è una dichiarazione di sconfitta ed incapacità del tutto inopportuna: è come sedersi al tavolo da poker e rifiutare di aver perso una mano o una partita: siamo sul ridicolo!

            Un’altra questione attinente al buon gusto col proprio partner è connessa alla richiesta esplicita dell’essere sinceri o di riferire la verità su una circostanza. L’uomo di stile e buona cultura ovviamente comprende che l’esistenza umana è fatta di contraddizioni e ambivalenze, talché richiedere la “verità” è richiesta di sicuro banale, a volte squallida, dove si evidenzia, nel caso, tutta la propria incapacità di comprendere le principali dinamiche dell’esistenza. E se proprio si hanno bisogno di alcune “verità” sul proprio partner è bene ricercarle senza il suo aiuto e senza andare a spiare nei suoi cassetti, nel suo telefono mobile o questioni assolutamente riservate, senza pedinamenti e quant’altro. Ognuno ha diritto alla propria riservatezza che mai deve essere infranta se si volesse rimanere sul piano dell’eleganza.

            In tale direzione, un’altra “regoletta” molto importante per fare assumere bellezza e raffinatezza al rapporto col partner risiede nella circostanza per la quale non gli si deve chiedere mai più di quello che lui voglia dirvi e condividere. Attenzione, dunque, alle questioni che ponente e alla formulazione delle vostre domande, facilmente si scivola nel pessimo gusto. E stessa regola vale anche nei frangenti più intimi e riservati, dove tutti gli sforzi devono essere tesi ad abbandonare le istanze più spiccatamente individualistiche, per dare spazio al dialogo, alla “conversazione”: qui intelligenza e creatività rappresentano la discriminante.

            Insomma, bisogna aver sempre presente che il proprio partner è un’entità distinta e autonoma, e in quanto tale deve essere trattata, escludendo qualsiasi desiderio di conquista, in senso di sopraffazione e privazione della libertà, soprattutto interiore. Oggi, infatti, le violenze psicologiche, con l’innalzamento del livello culturale, sono una grande tentazione a cui bisogna in maniera netta rinunziarvi, siate voi maschi o femmine, non avendo queste connotazione di genere.

            E per concludere, qualche altra indicazione facendo ricorso al bon ton classico, soprattutto per gli uomini. È buona norma, quando il proprio partner entra nella vostra auto, avere l’accortezza di aprirgli lo sportello, e quando si va in un locale pubblico, all’entrata l’uomo deve precedere la donna, mentre all’uscita si procede al contrario. In casa, poi, va stabilito il leader convenzionale, che in genere è il maschio, sicché quando si ricevono gli amici, deve essere sempre la moglie o la donna a procedere nelle questioni attinenti all’accoglienza, mentre spetta al marito sempre gestire le conversazioni senza mai far intravedere chiaramente il proprio ruolo o far pesare la propria posizione di forza: la persona forte, d’altro canto, non ha mai bisogno di dimostrare alcunché.

            E come al solito, si ricorda che sull’argomento trattato non si ha la pretesa di essere esaustivi, ma dare alcuni spunti di riflessione, utili per approfondimenti e riflessioni di sorta, al fine di arricchirsi nella maniera desiderata.

 

Mauro Ragosta

 

Nota: chi fosse interessato alla produzione di saggi di Mauro Ragosta, può cliccare qui di seguito per le principali delucidazioni:
https://youtu.be/lhdKGKUfH6Q 

 

 

giovedì 2 dicembre 2021

Saperi & Sapori (parte decima): Il Cioccolato – di Antonella Ventura



         E non poteva mancare nella nostra Rubrica, Saperi & Sapori, una nota esotica e che richiamasse a strutture di gusto che vanno a colpire le alchimie affettive e di intimo conforto, in tutte le declinazioni. Eh sì, non poteva mancare il cioccolato, “una pillola” per ogni occasione che sia un bisogno di coccole, un placebo per la nostra malinconia o un messaggio che racconti emozioni.

            Da sempre il cioccolato non è stato mai associato a ciò che è realmente: cibo, alimento. È per noi qualcosa di diverso, sicuramente edule, che appartiene quasi esclusivamente al mondo complesso dei sensi, presi nel loro complesso. Non lo consideriamo un alimento o un cibo stricto sensu, ma qualcosa che è capace di tangere l’anima, di farci sorridere, di procurare gioie intime e sottili. Il cioccolato, insomma, è qualcosa di diverso, sia essa in barrette sia essa in forma liquida.

Tutti i dizionari della lingua italiana lo definiscono una miscela di zucchero e cacao, dall’elevato valore energetico tanto da essere recriminato come alimento ingrassante, anche se le ultime ricerche scientifiche proverebbero esattamente il contrario. Un trucco che pochi sanno, con riferimento alla cioccolata liquida da bere in tazza, è che per addensarla basta aggiungere una piccola quantità di fecola o maizena e per i palati che amano osare una piccola percentuale in purea di polpa di caco o di zucca cotta.

Il cioccolato, suprema alchimia, pura trasformazione di pochi e semplici ingredienti in un vero e proprio elisir dell’anima, che ne integra gli opposti, eccita il fisico e appaga quelle parti più immateriali di un essere umano. È il “Cibo degli innamorati”, il regalo per eccellenza che sussurra “Ti voglio bene, tengo a te”.

 Una piccola dose di questo alimento stimola la serotonina aumentandone l’influenza sessuale e l’eccitamento, adducendo euforia e benefici al sistema cardio-vascolare. Esso contiene prevalentemente cacao che è l’unico alimento in natura a contenere l’anandamide, individuata come “la molecola della beatitudine”.

Su queste sue caratteristiche si è sviluppata la credenza che fosse un afrodisiaco naturale. Sicché in tale direzione molti registi hanno giocato per trarne film capolavori assoluti di sensualità. Al riguardo, non può non ricordarsi “Chocolat” con Jonny Depp e Juliette Binoche, film in cui il cioccolato diventa trasgressivo quasi scandaloso perché risveglia i desideri repressi di chiunque lo assaggi; “La fabbrica del cioccolato” tratto dall’omonimo romanzo di Roald Dahl, grande e invitante sceneggiatura che descrive con effetto e umorismo difetti e virtù umane; e ancora “Lezioni di cioccolato” interpretato da Luca Argentero, film romantico per piacevoli serate.

Amore al primo morso quindi, che sia fondente o speciale, cioccolato speziato o con frutta secca, agrumato, al peperoncino o squisiti cioccolatini ripieni al liquore, caffè o crema o che si tratti di un’ottima tazza di cioccolata, con panna montata e confettini pralinati. Insomma, basta un morso o un sorso per ritrovare, anche nella vita frenetica di oggi, gusti antichissimi e ricercati di un tempo, sacre memorie, tanto antiche da risalire a migliaia di anni fa, ma anche tanta serenità e gusto per la vita.

La leggenda narra che la nascita del cacao risalga ad una principessa azteca che lasciata sola a guardia del tesoro della sua città, si sia fatta uccidere pur di non confessare il nascondiglio, ma che dal suo sangue caduto sulla nuda terra nacque la pianta di cacao, i cui semi appunto risultano amari come la sofferenza, ma anche forti ed eccitanti come le virtù dimostrate dalla fanciulla coraggiosa.

In effetti il cacao venne coltivato per la prima volta dai Maya nella penisola dello Yucatan e furono poi gli Aztechi nomadi, percorrendo le pianure del Messico settentrionale e le steppe sud occidentali, a sentire il bisogno di fare di questo prodotto una bevanda, probabilmente consumata durante le cerimonie in onore della dea della fertilità Xochiquetzal e a volte miscelata con sangue degli stessi sacerdoti o dei sacrificati in suo nome.

 Il cacao prende così il nome di “Cibo degli dei” e tra gli Indios utilizzato addirittura come moneta di scambio. Fu nel 1502, dopo il quarto viaggio di Cristoforo Colombo, che il cacao entrò per la prima volta in Europa per essere mostrato alla regina Isabella di Spagna, ma solo con Cortez, vent’anni dopo, fu preso in considerazione per il suo attuale valore.

Alla fine del diciottesimo secolo nasce il primo cioccolatino da salotto, ma è Caffarel di Torino, che nel 1826 riuscì a garantire per la prima volta la distribuzione in larga scala. Nel 1852, sempre a Torino, Michele Prochet crea la pasta gianduia grazie all’aggiunta di farina di nocciole tostate, dando vita al gianduiotto precursore della amata Nutella. Il cioccolato? Un prodotto tutto italiano. Inizialmente ostracizzato dalla Chiesa Cattolica, per poi essere cosi tanto apprezzato da essere consentito dal Papa anche durante i giorni di digiuno.

E per concludere, una curiosità che non tutti sapranno: a Modica in Sicilia è l’unico posto al mondo dove si può gustare il cioccolato in tavolette fatto secondo l’antichissima ricetta dei popoli Aztechi, oggi, resa ancora più originale dall’aggiunta di carruba e valorizzata col marchio IGP.

 

Antonella Ventura

 

mercoledì 10 novembre 2021

Saperi & Sapori (parte nona): la frisa – di Antonella Ventura

 

      È interessante sapere sin da principio, trattando della notissima frisa -soprattutto quella salentina tanto rinomata tanto qualitativamente superiore- che essa rientra in una categoria di alimenti che oggi si denominano comfort-food. E così anche questo alimento, un tempo prerogativa importante, soprattutto per braccianti e contadini di terra e di mare, viene ad acquisire una dignità tutta british.

I cibi che, infatti, rientrano nel cosiddetto comfort-food -va doverosamente esplicitato- sono quelli che ci si concede quando vogliamo eludere il quotidiano o l’ordinario, per vivere un’esperienza anche culinaria che ci porti o riporti in ambienti e tempi diversi dal nostro. Nello specifico, la frisa evoca antichi e piacevoli sapori, e non solo contadini, odori ed emozioni forse dimenticate, atmosfere e ritualità di un tempo oramai remoto, lontano dal nostro tempo, opulento e tecnologico, fatto di proiezioni future infarcite di intelligenza artificiale e robot.

Parlare di frise o di friselle è ricordare l’arte d’arrangiarsi degli esseri umani, grazie alla quale la nostra specie è riuscita a distinguersi dagli altri esseri viventi, quanto a capacità di adattamento alle circostanze e di sviluppo in un processo evolutivo di diverse migliaia di anni, dovendosi qui ricordare che esistono due ipotesi che giustificano l’esistenza dell’Uomo sul pianeta Terra, ovvero quella più tipicamente evoluzionistica e quella spiccatamente creazionista.

È con questo spirito di adattamento, per l’appunto, che circa 3000 anni fa nasce la frisella, come alimento principe sulle navi fenicie, in sostituzione del pane, che si deteriora velocemente.  La sua doppia cottura in forno le permette di potersi conservare a lungo senza ammuffire. Tipica è poi la sua forma con il buco al centro, che la dotava della possibilità di essere facilmente trasportata, in quanto poteva essere appesa, come le perline di una lunga collana. Nel tempo, divenne poi alimento di braccianti e contadini, ma anche di pellegrini e viaggiatori in genere.

La storia ci insegna che quando ad un individuo viene negato il diritto di esprimersi nella propria interezza e peculiarità, relegandolo in uno stato di segregazione, costui si adatterà al nuovo ambiente conformandosi con esso, conservando però le proprie potenzialità inespresse e il proprio animo selvaggio pronto a ritornare in superficie qualora l’ambiente lo permettesse nuovamente. Paradossalmente e metaforicamente lo stesso fenomeno caratterizza proprio la nostra frisella, che per questo potremmo definire intelligente: non riuscendo a sopportare situazioni ambientali ostili per la conservazione della sua caratteristica fragranza e morbidezza tipica del pane, essa trova attraverso la biscottatura il modo per preservare le sue potenzialità da tirare fuori una volta che viene opportunatamente bagnata.

Questo prodotto, come già citato, nasce quindi come alimento per i marinai imbarcati sulle navi fenicie, passando poi a quelle greche, crociate, ma anche ai pescherecci della gente comune, di ieri e di oggi, che la portavano con sé, durante le lunghe “mattanze” o viaggi commerciali, rimanendo, infatti, lontani da casa e da riva per giorni. E questo per mangiarle al bisogno, bagnate con acqua di mare e condite con olio d’oliva e altri alimenti poveri recuperati al momento.

Si racconta che siano state introdotte in Puglia da Enea, durante la fuga da Troia. Da qui hanno varcato i confini regionali e forse anche nazionali, assumendo forme e pezzature lievemente differenti in base al luogo di appartenenza, rimanendo pur sempre un semplice impasto di farina di grano duro, sale, lievito e acqua. Tra le altre, attualmente, per la sua produzione si utilizza anche la farina di orzo o integrale.

            Appare interessante qui sapere che la denominazione frisa riviene da una delle particolari operazioni nella sua produzione: tra la prima e la seconda cottura le friselle vengono divise in due con uno spago e che ne connoterà la tipica forma. Proprio la separazione, specifica della sua produzione, ha portato a definirne il suo nome: frisa, appunto, da fresa, fendere, tagliare.

 Molte sono le curiosità che ruotano intorno al mondo della frisa. Non tutti sapranno, ad esempio, che nell’antica Roma esse venivano consumate nelle “cauponae”, una sorta di autogrill, luoghi di sosta nei quali si consumava il pasto servito dalle “ministre” che avevano anche il compito e la possibilità di intrattenere l’ospite in intimità con o senza compenso. Ed ancora, altra curiosità interessante è che nel Salento si usava conservarle nelle capase, tipici recipienti di terracotta smaltati che avevano il dono di preservare i cibi dall’umidità.

Il turista forse no, ma un salentino invece sa bene riconoscere una buona frisella dal modo in cui si “sponza”, che deve essere uniforme e non eccessivo, perché se dovesse spappolarsi alla prima immersione in acqua, sarebbe una frisella impastata con il grano troppo tenero, mentre al contrario se dovessero rimanere in essa delle “zone dure”, ovvero non ha trattenuto acqua, si tratta di una frisa “mpitrata”, ovvero che ha preso aria o è troppo vecchia. È quindi importante il momento della bagnatura, la sponzatura per l’appunto, tanto che in Puglia si possono comperare i tipici “Sponzafrisa”, ovvero ciotole in terracotta con un semicoperchio forato per la scolatura dell’acqua in eccesso.

Regole ferree per la sponzatura! Esattamente l’opposto si ha per il condimento. La frisa si presta alla massima libertà d’espressione nel condimento. Una gran bella “donna intelligente” quindi la nostra frisella, che merita il giusto approccio iniziale discreto ed etichettato, per liberarsi, poi, e far emergere gli aspetti creativi, per chi ce li ha com’è ovvio, …in piena libertà di “gusto e sapore”.

Oggi elegante regina delle tavole dei lidi in estate, la si può gustare condita con ogni sorta di verdure, pinzimoni e sott’aceti di ogni genere, ma anche con tonno, gamberi e perché no, caviale e ostriche, anche se resta unica ed inconfondibile la ricetta tradizionale con pomodorini e basilico. Insomma un modernissimo e brioso pasto, dei nostri tempi moderni, tanto accelerati, e che proprio nella “frisella” possono trovare il momento del “ri-poso”.

 

Antonella Ventura

 

 

giovedì 4 novembre 2021

Punti, appunti e …puntini (parte seconda): Velocemente verso il Nuovo Medio Evo – di Mauro Ragosta

 

    Senza accorgersene tutto lascia intravedere che siamo entrati, proprio in questi ultimi lustri, nell’Era di Mezzo, la Nuova Era di Mezzo. E come morì, senza accorgersene il Mondo Classico, così è alle ultime battute la Civiltà Occidentale, il Mondo Moderno e Contemporaneo.

    Ma quali le caratteristiche comuni tra i due Medioevi? Sicuramente la distruzione di tutte le strutture sulle quali si sono edificate e rette le Civiltà di riferimento.

    Non ci vogliono grandi capacità analitiche per comprendere che è stata distrutta la famiglia, che siamo in un sistema di consumo compulsivo senza un senso preciso, sono state distrutte le distinzioni di genere. È stata distrutta la politica, riducendola a questioni di branco, di club più o meno vasti. Sono stati abbattuti i ruoli del padre, della madre, del maschio e della femmina, dei figli, dei professori e della scuola medesima, e così anche i sensi di destra e di sinistra nella politica. Anche la Chiesa è in pieno declino strutturale e valoriale, da sempre invece motore delle istituzioni. Il mercimonio del proprio corpo e del proprio intelletto sono costume corrente, sembrano essere la realtà attuale preponderante. A ciò non si somma la corruzione che, invece, è la costante di tutte le società e di tutte le Civiltà. Tuttavia, va considerata come peculiarità di ogni aggregato umano, che ha la prerogativa di accelerare o frenare il processo di distruzione dell'aggregato stesso e da qui, per estensione della Civiltà, anche di quella che sino a pochi anni fa ci accoglieva.

Ma non finisce qui. È stato distrutto lo stesso Stato, che ha registrato il suo massimo splendore negli anni ’70 del secolo scorso, e in meno di cinquanta anni si è involuto, ritornando pressoché alle sue origini, ovvero quale struttura militare e fiscale. Oggi, dopo che è stata devoluta la sua capacità di battere moneta e sono stati privatizzati tutti i mezzi di produzione, con la dismissione dell’IRI in Italia, dopo aver privatizzato per il 60% la sanità, dopo aver annientato lo Statuto dei Lavoratori, allo Stato non sono rimaste che poche cose, quali una parte dell’Istruzione, la Previdenza, oltre che il sistema fiscale e militare. E tutto lascia pensare che lo Stato ritornerà alle sue origini, alle sue funzioni per cui è stato creato: quelle di controllare militarmente un territorio e prelevare da questo le risorse per la sua sussistenza e per quella della sua classe dirigente. Oggi, però lo Stato leggero si pone in una prospettiva di senso diversa, più sbilanciata sul controllo sociale che di arricchimento della upper class. E anche le guerre sono cambiate, non usandosi più le armi, se non in casi estremi e puntuali, mai in senso massivo.

    Tale quadro si completa se si considera che siamo alla fine delle realtà nazionali, da una parte. Dall’altro e nel microcosmo, è finita l’arte e la musica, avallandosi la pratica che tutto è arte e anche il rumore è musica. Anche la medicina e la scienza in questi anni sono entrate in crisi e sono sempre meno credibili all’uomo comune, in quanto nell'immaginario collettivo hanno perduto la loro caratteristica di discipline oggettive, assumendo così specificità tutte fortemente policizzate. Insomma, si è distrutto tutto! E l’uomo comune è di fatto un uomo che vive in una giungla senza alcun tipo di "copertura", struttura. È questa la società liquida a cui si riferiva Bauman: un uomo esposto ai quattro venti e a tutto, come un animale e come un animale che può assumere qualsiasi forma, nel tempo e nello spazio. Un uomo che, peraltro, pare abbia perduto il senso profondo della sua esistenza, inutile dunque.

       A ciò basti pensare che oramai siamo in piena Era dell’Intelligenza Artificiale, della Robotica e dell’Ingegneria Genetica. Un'Era che non ha bisogno del lavoro dell’uomo, pur essendo questo il senso primo della sua esistenza a partire dal 500 d.c. E così siamo passati dal lavoro come necessità per la sopravvivenza, a valore su cui costruire un’esistenza, ad una successiva dipendenza e assieme inutilità. Per tutto ci sono i Robot, assistiti dall’intelligenza artificiale, che possono modificare la Natura secondo i valori di chi possiede le leve dell’ingegneria genetica, di cui gli OGM e il voluto mutamento del Clima sono solo gli aspetti conosciuti.

    Una visione questa distopica? È possibile… ma ognuno potrà verificare rapidamente e da sé, queste realtà nella sua vita coorrente, anche spegnendo la televisione, la radio e i social. Dunque? Di certo, siamo all’interno di un processo irreversibile e inarrestabile, dove nessuno riesce a capirne il futuro possibile.

    In tutto questo è lecito pensare che così come crollava l’Impero Romano, mentre sorgeva il Monachesimo, quale forma in nuce della nostra Civiltà, così oggi, mentre tutto si distrugge e si dissolave, è già stato concepito un Nuovo Monachesimo, di sicuro strutturato diversamente, ma con le medesime funzioni del primo.

Mauro Ragosta


martedì 26 ottobre 2021

Saperi & Sapori (parte ottava): l’acqua – di Mauro Ragosta

        Di primo acchito trattare dell’alimento e dell’elemento acqua potrebbe sembrare alquanto banale nella nostra rubrica. Nel vocabolario sovente troviamo scritto che si tratta di un liquido incolore e insapore, e tuttavia elemento decisivo di qualsiasi dieta. Nello specifico, senza assumere l’acqua, l’essere umano è destinato alla morte. Un detto popolare asserisce che: di fame non si muore, ma di sete sì!

            L’acqua dunque, alimento ed elemento principale di qualsiasi dieta. E ciò senza ricorrere alla nota affermazione che asserisce che siamo fatti di acqua, ovvero che più del 90% del corpo umano è composto da molecole di acqua, e che inoltre, la superficie terrestre è ricoperta per il 70% da acqua. Dall’altra, la sua estrema abbondanza porta a non dare il giusto risalto a simile elemento nelle diete. E ciò nella prospettiva tutta capitalistica che si fonda sulla scarsità e da questa, sul bisogno e quindi sulla commerciabilità. Non a caso l’economia si fonda tutta sul bisogno, in assenza del quale essa non avrebbe ragione di esistere.

Ma l’acqua non è scarsa e da qui il suo valore economico si presenta bassissimo, come basso si presenta anche la sua valenza nella prospettiva culturale, la quale, oggi, grandemente ignora quest’elemento, benché sia necessaria alla sopravvivenza del genere umano e il cui bisogno è ovviamente altissimo e decisivo.

       Ciò premesso, va sottolineato che nelle civiltà passate e fino a qualche secolo fa, l’acqua era elemento centrale nella vita di un popolo e da qui assumeva anche valenze simboliche di grande rilevanza, che oggi sono svanite in quasi tutti gli strati sociali. L’acqua era simbolo di vita e di morte, di elemento purificante. In tale direzione, va ricordato che dal costato di Gesù morente escono acqua e sangue, ovvero la vita e la conoscenza; il battesimo si sostanzia, dall’altra, nell’immersione nell’acqua dell’iniziato, dove questa ha la valenza di morte. Eh sì, perché un tempo si associava giustamente l’acqua al mare e si credeva che il mare fosse animato non solo da pesci per lo più innocui, ma anche da esseri mostruosi e pericolosissimi, e la sopravvivenza negli abissi marini per un uomo era pressoché impossibile.  Ed ancora note sono le pratiche legate alle abluzioni, che purificano sostanzialmente e metaforicamente il corpo e l’anima. Rispetto a queste ultime, famosissime sono ancora oggi le abluzioni degli induisti nel Gange, il fiume sacro dell’India. Meno attenzionate son invece le abluzioni dei presbiteri durante la messa.

          Ma al di là di ciò, l’acqua è sicuramente incolore, ma non insapore. Esistono, infatti, delle acque alimentari dolci, altre più acidule, altre ancora più dure e salmastre, alcune delle quali effervescenti e dotate di perlage di vario genere. E proprio come esistono varie qualità d’acqua, è possibile riscontrare vari tipi di digeribilità di queste. Note sono la digeribilità e la leggerezza delle acque del Pertusillo o del Vulture, e comunque di quasi tutte le acque della Calabria e della Basilicata. A queste si aggiungono quelle di alcune acque spiccatamente diuretiche, tra le quali ad esempio l’acqua di Fiuggi, un tempo conosciutissima, ed ancora oggi, sebbene costosissima e rarissima, in commercio.

            Sul mercato, tuttavia, esistono anche delle acque aromatizzate, per i palati più esigenti e raffinati. Il loro costo altissimo ne fa di queste un prodotto di nicchia, esclusivo, per quei pochi che hanno disponibilità finanziarie importanti. Il costo delle acque aromatizzate varia molto da tipo a tipo, giungendo anche a prezzi a due cifre per un litro. Si tratta, però, di un prodotto già noto ai nostri nonni, ed in genere ai nostri avi, che sovente utilizzavano acque aromatizzate con pratiche tutte caserecce, casalinghe. Per chi è avanti nell’età sa che d’estate si presenta ottima come dissetante l’acqua aromatizzata con le foglie di menta, a cui spesso si aggiungono delle bucce di limone.

            L’acqua aromatizzata, in genere si ottiene immergendo nell’acqua bollente le foglie delle piante che interessano, ma anche alcune spezie. Poi si lascia raffreddare il tutto sino a collocare questo in frigo, per servirlo a bassa temperatura. E questo almeno in estate. Insomma, una pratica dimenticata, o fattaci dimenticare, per indurre il consumatore ad acquistare e consumare le bevande industriali o “artigianali”, che mai tuttavia avranno la bontà di queste acque aromatizzate con le antiche pratiche della “nonna”, sempre attuale, dunque.

 

Mauro Ragosta

 

Nota: chi fosse interessato alla produzione di saggi di Mauro Ragosta, può cliccare qui di seguito per le principali delucidazioni:
https://youtu.be/lhdKGKUfH6Q 

 




martedì 28 settembre 2021

Saper Comunicare (parte dodicesima): L’ascolto – di Mauro Ragosta


        Nella comunicazione, ovvero nello scambio verbale e non solo, una parte decisiva occupa l’ascolto, ovvero quella capacità di saper capire, di volta in volta, i messaggi e le informazioni che provengono dalla controparte, sia essa una persona sia esso un gruppo. Capacità che si estendono in facoltà, in quanto l’ascolto è qualcosa che si sviluppa con lo studio e l’esercizio, anche di controllo della propria emotività. In tale direzione, un soggetto particolarmente fragile sotto il profilo emotivo, difficilmente svilupperà o migliorerà le proprie capacità di ascoltare i propri interlocutori.

        Va da sé che, lo sviluppo delle capacità d’ascolto è il motore primo per rivoluzionare la propria vita. L’ascolto, infatti, oltre a dare i presupposti di un’interlocuzione, dall’altra, proprio perché è una delle principali condizioni per acquisire elementi ed informazioni, genera un mutamento dei propri scenari cognitivi, e da qui un diverso agire e un’esistenza che si trasforma in un transito da un assetto di vita all’altro. Permette, dunque, la crescita, lo sviluppo e la possibilità quindi di giungere alla piena maturità, sotto molti profili.

         Il saper ascoltare nasce dal saper stare zitti. Per ascoltare bisogna tacere! E qui va specificato che il tacere non si intende solo il non proferire parola, ma anche avere un certo controllo delle proprie passioni e della propria mente, che in qualche modo devono rispondere al comando di riduzione dei moti emotivi e dell’attività celebrale in senso creativo e autonomo. In altre parole, per ascoltare in maniera ottimale occorre essere, per quel che è possibile, tranquilli ed avere una mente facilmente sgombrabile da pensieri poco pertinenti a ciò che è oggetto dell’interlocuzione.

        È chiaro che chi presenta frustrazioni importanti, e da qui un’emotività poco gestibile, spesso si produce nell’interlocuzione attraverso un eloquio spropositato, spesso eccessivamente verboso, il più delle volte è incapace di arrestare autonomamente il proprio dire. E per quel che riguarda gli effetti di emotività molto provate ci si ferma qui, senza ovviamente prolungarsi nei diversi aspetti e manifestazioni della frustrazione, soprattutto in campo comunicativo.

       E qui d’obbligo sottolineare, all’interno di quanto appena tracciato, che un ruolo decisivo nel nostro assetto da interlocutori giocano la nostra capacità di gestire il livello di reattività alle informazioni che ci vengono fornite dal nostro interlocutore, ma anche la capacità di decodificare le provocazioni, che tendono o a depistarci o a far perdere il nostro controllo sotto il piano emotivo.

       Stare zitti, dunque, è il punto di partenza fondamentale. Evitare di reagire d’impulso e scansare le provocazioni sono le altre questioni di pari rilevanza rispetto al silenzio o il tacere. E se queste sono cose difficili per alcuni, per altri sono il momento e l’agire decisivi per entrare in relazione e spezzare la propria solitudine. Il silenzio, infatti, è funzionale per acquisire i dati e le informazioni che emette il nostro interlocutore, il quale in ultima istanza può essere anche l’ambiente che ci circonda, ovvero quello scenario fatto di cose e persone, le quali nell’insieme ci offrono una serie di informazioni di rilievo. D’altra l’assenza di reazione e l’abbattimento delle provocazioni permettono un ascolto maggiorato e da qui una risposta estremamente efficace.

         Ora, la capacità di recuperare informazioni del nostro interlocutore, al fine di gestire la relazione dipende in maniera importante ovviamente dal proprio bagaglio culturale e in primo luogo dal livello delle nostre Conoscenze. Avere cultura non è sufficiente, infatti. E qui va marcato che, le capacità d’ascolto dipendono anche dal possesso di una buona spiritualità e significative cognizioni esoteriche. Più sviluppato è questo “pacchetto” di elementi decodificativi, maggiore sarà la possibilità di una risposta adeguata e soprattutto efficace. In ciò, l’ottima conoscenza della lingua in cui si interagisce completa il quadro di un ascolto ottimale.

        L’ascolto, peraltro, permette di comprendere non solo le informazioni principali emesse dal nostro interlocutore, ma permette di capire anche i suoi valori di riferimento sul piano, ad esempio, caratteriale, ma anche culturale, esistenziale, politico, economico e via dicendo. Comprensione, questa, di non poco conto perché permette di tarare il nostro dire in maniera chirurgica, precisa, ovviamente in proporzione alle nostre facoltà di capire e recuperare dati.

         E per concludere, si intuisce facilmente che l’ascolto e il saper ascoltare possono facilmente essere ricondotte al concetto d’Arte, nel senso più autentico, ovvero come possesso non solo di tecniche, ma anche di intuito e creatività, capacità di uscire fuori dagli schemi ed essere più aderenti alla Realtà.

 

Mauro Ragosta

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lunedì 6 settembre 2021

Stile & Buongusto (parte undicesima): L’anticamera – di Mauro Ragosta


     Molti sono i motivi per cui credere che il lettore di Maison Ragosta rimanga sorpreso nell’apprendere l’oggetto dell’undicesima parte della rubrica Stile & Buongusto. L’anticamera pare oggi non solo un termine desueto, fuori moda, ma anche una struttura abitativa, un elemento della casa, magari la propria, non consona alle mode di questo tempo, un tempo, quale appunto il nostro, dove qualsiasi sosta pare essere un disvalore, ed anche di rilievo: sembra vietato fermarsi se non durante le ferie e il week end, da trascorrere ovviamente in movimento per andare di qui e di lì alla ricerca dell’agognato e forse mai guadagnato relax.

Forse si esagera, ma pochi sono coloro a parlare ed elogiare l’attesa, la lentezza e qualsiasi rallentamento. Anche i Media, quando illustrano e rappresentano i coffee break tutto è molto veloce, dinamico: oggi, l’unica lentezza consentita sembra essere quella connessa alla lettura, che di per sé deve essere velocissima, data la mole di libri prodotti dall’industria del libro: in Italia nell’ultimo lustro siamo di poco sotto gli 80.000 titoli all’anno editati.

            Velocità, solerzia, rapidità, dunque, i dictat dei nostri tempi, del Nostro Tempo! …da compensare poi con qualche Spa, che più che un piacere appare come una necessaria medicina, una cura indispensabile, pena l’insorgere di qualche disturbo, e non solo psichico… Ad ogni modo, corriamo e consumiamo, poi si vedrà!!!

            Preambolo a parte, forse un po’ provocatorio, non è né gradevole a vedersi né piacevole essere sempre in affanno e con un sorriso “stampato in faccia”. Una persona in affanno e sempre sorridente è decisamente fuori da qualsiasi regola di stile e soprattutto di buongusto. E giocando al raddoppio, vanno guardate con sospetto tutte quelle strutture culturali, fisiche e valoriali, che impediscono all’individuo una adeguata e dignitosa sosta tra un’attività e l’altra della sua esistenza. L’assenza di tali strutture, infatti, quelle intermedie appunto, impediscono, in termini molto pratici, di essere presenti a sé e agli altri, se non in una soluzione confusa, assente, dis-tratta. Insomma, fuori contesto!!!

            L’assenza di una “stanza di compensazione” tra i vari ambiti della propria vita, anche quotidiana, non solo impedisce un’azione efficace ed efficiente, pregnante, ma non è garanzia del proprio pensare ed agire nei confronti del prossimo, dell’interlocutore. Sotto altra prospettiva, ogni attività, almeno rispetto a quelle significative, richiede una preparazione, che in linea generale si sostanzia nel perdere le problematiche, l’incedere, il carico della dimensione dalla quale si esce e nel predisporsi a quelle che si sta per affrontare.

            In tale quadro si colloca l’Anticamera, quale struttura fisica, ma anche esistenziale. Sotto il profilo abitativo, il Mondo ha deciso che bisogna essere veloci, rapidi, e non solo, ma anche efficienti, e non solo in ambito sociale, stricto sensu, ma anche nel luogo a noi più caro. Sicché le abitazioni di oggi sono sprovviste di anticamera e tutto avviene nel cosiddetto open space, come una volta nelle case dei contadini: un unico ambiente, nel quale si accede dalla porta d’ingresso, dove si dorme, pranza, studia. A differenza di allora, l’ambiente è meno rozzo e mancano gli animali, quali asini, pecore e cavalli. In compenso ci sono i gatti e i cani. Ma va bene, ugualmente...

            Non c’è bisogno di una determinazione statistica per accorgersi che le case dotate di un’anticamera, ovvero quella camera in cui ci si distrae dal mondo dal quale si proviene e ci si prepara per quello nel quale si sta per fare esperienza, sono veramente poche. Spesso, peraltro, le anticamere sono mal curate e di scarso significato. Sicché solo in rari casi, quando si entra in una casa vera, si viene accolti in un ambiente che prepara a viverla in pienezza. Eh sì, perché le case vere, che non è detto che siano quelle lussuose o di gente ricca e benestante, sono strutture che rappresentano fortemente chi vi abita, e sono architettate in maniera tale da comunicare chi si è, come si considera l’ospite, cosa si gradisce da costui, cosa gli viene offerto, e via dicendo. Al di fuori di tale ipotesi, siamo in ambienti che non vanno al di là del funzionale o tesi ad ostentare magari ricchezza o cultura, ma mai tesi a narrare il proprietario o i proprietari. 

        Negli anni ’80, ad esempio, spesso si acquistavano le enciclopedie quali componenti e complementi d’arredamento. E a volte i più furbi, si procuravano quelle false, fatte solo dalle copertine, mentre dentro vi era del polistirolo al posto delle pagine. In altra prospettiva, negli anni ’90 cominciarono ad apparire in televisione e nelle riviste d’arredamento gli open space ricavati da vecchie fabbriche dismesse. Ambienti privi di qualsiasi riservatezza, senza difese dunque, e che si mostravano come ambienti desiderabili ed evoluti. E in qualche modo vanno bene per il popolo, che vive tecnicamente senza alcun segreto, immacolato, il quale sempre adempie alla regola tel quel: quello che si vede quello è, non essendoci dell’altro, appunto.

             Chi ha stile comprende bene che esistono le differenze individuali e sociali, le quali vanno mediate e somministrate, almeno le proprie, con grande accortezza e prudenza, talché attrezza sempre nella propria abitazione un ambiente, l’anticamera appunto, che prepara e predispone “al diverso”, e allo stesso tempo, al nuovo, che non possono essere compresi e acquisiti in maniera automatica, senza un buon livello di attenzione, favorito appunto da un ambiente di preparazione.

            Anche questa volta Maison Ragosta ha posto degli spunti di riflessione, che si spera invitino ad un percorso di approfondimento e di ricerca più soddisfacente, esaustivo e di certo più confacente ai propri interessi e alle proprie necessità conoscitive ed esistenziali. Sicché molto altro si può argomentare sull’anticamera e non solo nella prospettiva abitativa, ma anche in ambito esistenziale, dove quest’ultimo richiede soprattutto oggi, Tempo della Confusione e del Disorientamento, una necessaria attenzione e applicazione, se non proprio un robusto sviluppo.

 

Mauro Ragosta

 

Nota: chi è interessato alla produzione di saggi di Mauro Ragosta, può cliccare qui di seguito per le principali delucidazioni:
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domenica 22 agosto 2021

Saperi & Sapori (parte settima): Il sale – di Mauro Ragosta

            Qui, come anticipato nel titolo del presente pezzo, sarà il sale il protagonista delle nostre proiezioni intellettuali, delle nostre speculazioni, del nostro piacere di riannodare fatti e circostanze in maniera tale che possano produrre un certo piacere.

            Il sale, in prima battuta, potrebbe assurgere a simbolo di equilibrio e armonia e forse anche di giustizia, ma solo nell’accezione delle capacità di mediazione. Si sa, il sale, soprattutto oggi, viene utilizzato per esaltare e dare la perfetta corposità ai sapori degli alimenti, cotti o crudi. Sbagliare la salatura significa rendere un alimento non commestibile, se in eccesso, e del tutto scipito, se in difetto. Il sale, insomma, rende giusta, armoniosa ed equilibrata una pietanza.

            Da tale impostazione vanno omessi coloro che escludono il sale dalle loro pietanze, al fine – così dicono- di degustare il vero sapore degli alimenti. E questa può essere una prospettiva che riporta alle origini: è il piacere dell’originario, che tuttavia rifiuta molti dei processi culturali, proprio quelli che distinguono l’uomo dall’animale. Sulla scia vi è anche chi degusta il caffè senza zucchero, adducendo che tale prassi sia utile al piacere di assaporarlo nella sua soluzione pura, la quale pare dia particolarmente gusto. In verità, in questo caso, si riscontra facilmente che i veri motivi sovente risiedono nelle diete e nei tentativi di rimanere magri………o in forma, o ancora di rallentare i processi di inesorabile invecchiamento.

            Ad ogni modo, il sale ha una storia antica, articolata e su di esso si è prodotta un’architettura culturale di non poco conto.

            In tempi remoti, il sale veniva denominato “l’oro bianco” in quanto la forbice tra la sua scarsità e il suo valore era altissimo. La mancanza di sale si presentava una circostanza disastrosa, in quanto non si potevano conservare a lungo molti cibi. Insomma, non si potevano fare le scorte per “l’inverno”, tempo di scarsità per eccellenza. Sicché, la grande valenza del sale condusse anche a utilizzarlo come moneta. E così, i “dipendenti” si pagavano in sale, portando tale pratica a definire il loro compenso col termine salario e i “dipendenti” stessi, salariati. L’utilizzo del termine, oggi, è sempre più in disuso e sostituito da re-tribuzione, che presenta una sottostante filosofia economica diversa.

            Attenzione, però, che dal termine sale deriva anche la parola sapere, che si distingue dal lemma conoscere, in quanto essa indica l’esistenza del geniale nel proprio sistema culturale, ma anche dell’avere delle cognizioni sulle cose e sui fatti non solo derivante dalla lettura, dalle informazioni acquisita con vari strumenti, non solo dalle proprie attività riflessive e speculativa, ma anche esperienziali. L’esperienza produce una meta-conoscenza, in quanto permette di penetrare in maniera totale fatti, cose e circostanze, a differenza della conoscenza tout court che è una questione esclusivamente intellettiva, e per questo chiusa. Il sapere è, al contrario, aperto non solo al raziocinio e alla logica, ma anche alla percezione, all’intuizione, a tutte quelle procedure che sono al di là di un processo logico. Il sapere, dunque, come forma di conoscenza superiore, come meta-conoscenza. Diversi, quindi, sono il dotto, l’intellettuale, il colto, dal sapiente.

            Virando verso questioni più propriamente alimentari, il sale è un prodotto che assume varie caratteristiche chimiche e visive. Il sale infatti, non è solo di color bianco. Troviamo in commercio il sale rosso, il sale nero, il sale grigio, il sale marrone, il sale rosa (noto è quello dell’Himalaya, ma non è l’unico), ciascuno dei quali pare che sia particolarmente efficace a seconda delle pietanze, come ad esempio sul pesce o le patate fritte sovente è consigliato il sale nero. Con lo sviluppo della cultura culinaria si è definito l’ambito di utilizzo dei vari tipi di sale, dando luogo così a quella che potrebbe indicare come la cultura del sale. Va da sé che, ogni varietà di sale ha caratteristiche sue proprie, e così troviamo tipi più aggressivi, altri più leggeri, altri con aromi specifici.

            Circa la produzione del sale, questo si estrae in saline, facendo essiccare l’acqua marina, o in cave di salgemma. Al riguardo in Italia note sono le saline di Margherita di Savoia, in Puglia, forse le più importanti nel nostro Paese. Con riferimento al Salento, vanno ricordate le saline dei Monaci Basiliani, localizzate a metà strada tra Porto Cesareo e San Pietro in Bevagna, attualmente abbandonate e frequentate solo dai fenicotteri rosa, che qui nidificano.

            Il sale potrebbe essere considerato, ritornando su quanto si è accennato al principio, quell’elemento che dà corpo ai vari alimenti, e non solo, ma ha anche la capacità di legarli e armonizzarli. Proprio per questa caratteristica nei vangeli Gesù definisce i suoi seguaci, il “sale delle terra”, ovvero coloro che non solo danno un senso all’esistenza, ma permettono anche di aggregare gli uomini. Insomma, i cristiani vengono paragonati a coloro che permettono all’Uomo di attribuire un senso alla propria esistenza, ma anche di vivere in comunità.

            Un discorso a parte merita il poco noto “rito del sale” che si svolge in particolari circostanze, ovviamente nelle varie chiese cristiane, e che metaforicamente fa comprendere i valori e la funzione della croce di Cristo. Un rito nel quale vengono distribuite ai partecipanti dei grossi grani di sale, che devono essere sciolti in bocca. Ed ecco che, se in un primo tempo il grosso grano di sale dà delle sofferenze terribili, quando si è completamente sciolto rende dolcissima la bocca, segno tutto ciò della passione, della morte e della resurrezione…

            Molto altro si potrebbe dire sul sale, ma il nostro compito si esaurisce qui, in quanto orientato quasi unicamente a funzionare da stimolo per le ricerche e le riflessioni del nostro caro e tanto affezionato, lettore.

 

Mauro Ragosta


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mercoledì 26 maggio 2021

Saperi & Sapori (parte sesta): Il caffè – di Antonella Ventura

 

      E non poteva mancare in questa rubrica di Maison Ragosta, Saperi & Sapori per l’appunto, una breve dissertazione anche sul caffè, bevanda amatissima dagli italiani, e non solo. V’è subito da specificare, tuttavia, che i grandi consumatori di caffè sono i paesi del Nord Europa, mentre l’Italia si posiziona solo al 13° posto per consumo procapite. D’altra però, il caffè, nella fattispecie Espresso, diffusissimo in tutto il Mondo, è di invenzione-origine italiana. Al di là di ciò, i grandi consumatori di caffè sono gli europei, mentre in seconda battuta vengono i sudamericani, poi i nordamericani, di seguito tutto gli altri.

            Nella storia del caffè lo snodo decisivo pare collocarsi nel XV secolo, in connessione con lo sviluppo del suo consumo, che destò l’attenzione dei poteri religiosi sia cristiani sia musulmani. Ora, pare che la scoperta del caffè, quale bevanda energizzante, risalga ai primi secoli dell’Era Cristiana. Le leggende circa le origini del caffé, al riguardo, sono molte. Sia il Mondo Cristiano sia il Mondo Musulmano se ne contendono il primato, ma l’unica cosa certa è che il fenomeno della coltivazione della pianta di caffè divenne un fenomeno rilevante nel XV secolo tra l’Etiopia e lo Yemen. Testimonianze ancora più certe ci dicono che la pianta del caffè veniva coltivata a metà Quattrocento dai monaci Sufi yemeniti.

            Ad ogni modo, nel ‘500 la scura bevanda era conosciuta in molta parte del Mondo Musulmano e cominciava ad essere introdotta anche in Europa, grazie ai mercanti veneziani. La progressiva diffusione trovò, tuttavia, notevoli ostacoli nei dissensi del potere religioso, che, per le sue qualità, la considerava la “Bevanda del Diavolo”. Vari furono i tentativi di vietarne il consumo, ma alla fine ogni sforzo fu vano, dal momento che il consumo di caffè muoveva affari economici e finanziari sempre più rilevanti. Nel Mondo Cristiano, le attività di contrasto cessarono, quando Clemente VIII, qualche anno prima della fine del suo pontificato, ovvero nel 1605, la giudicò un’ottima bevanda. Da qui il caffè, in Europa, venne consumato in maniera vieppiù crescente ed esponenziale, mentre il Mondo Arabo protrasse la querelle sostanzialmente per tutto il XVII secolo. Alla fine, anche qui il Vino dei Musulmani, così veniva definito il caffè, fu liberalizzato completamente.

            E così, nel ‘600 in Europa, nel giro di pochi decenni ogni centro abitato ebbe almeno una sua caffetteria. Agli inizi del ‘700 a Venezia se ne contavano più di 200. E qui va segnalato che, nel 1720 apre il famosissimo Caffè Florian, tutt’ora attivo, in Piazza S.Marco. La caffetteria lentamente, poi diventa luogo d’incontro, dove la degustazione del caffè è soprattutto la scusa per rimediare un incontro d’amore, d’affari o amicale. Da qui, poi, questi spazi di degustazione della famosa bevanda diventano luoghi frequentati da artisti, intellettuali, poeti: nascono così i Caffè Letterari. In ogni caso, fino a metà Novecento il caffè, nei luoghi pubblici, quali appunto i Caffè, si degustava al tavolo e seduti. Negli anni ’50, con l’americanizzazione della cultura europea e, dunque anche italiana, tale costume subisce delle vistose variazioni: comparvero i Bar, dove il caffè viene degustato al banco e in piedi.

            Sino a vent’anni fa, sembrava, almeno in Italia, che i Caffè dovessero scomparire o essere luoghi destinati solo ad una ristretta élite. Ed invece, no. Oggi, le due strutture, il Bar ed il Caffè, sono fortemente diffuse e vengono frequentate in base alle circostanze. La più usuale, ovviamente, tra le due soluzioni, attualmente è quella che garantisce ambedue le modalità di consumo, indipendentemente dalla dicitura che si usa per il locale.

            Va da sé che, con lo sviluppo economico e culturale, la bevanda ha registrato composizioni sempre più articolate, variegate e complesse. E così, con riferimento al frutto, alle tradizionali qualità, quali la Robusta e l’Arabica, se ne sono aggiunte molte altre, specifiche. Del pari anche le miscele sono diventate le più disparate, sino al punto in cui i gestori delle caffetterie fanno uso di varianti fortemente personalizzate. Non pochi, in ogni caso sono coloro che gradiscono soluzioni monorigine o pure. In tale direzione, anche le modalità e la ritualità legata al consumo del caffè sono innumerevoli: c’è chi gradisce il caffè in tazza fredda, chi in tazza calda, chi in tazza sottile, chi in quella spessa, chi in tazza larga, chi in tazza alta, c’è, poi, chi vi aggiunge un po’ di latte, altri delle soluzioni alcoliche (il cosiddetto caffè corretto). E non finisce qui. C’è chi lo desidera ristretto, chi lungo, chi all’americana, chi amaro. D’estate poi, l’uso è quello di prendere del caffè freddo, mentre a Lecce, si usa il caffè in ghiaccio, edulcorato a volte con latte di mandorla.

            Anche sulle modalità con le quali viene prodotta la bevanda sono le più disparate. In Italia se ne conoscono tre: alla napoletana, espresso e con la moka. La prima è la più antica, mentre la seconda viene escogitata dall’ingegner Liugi Bezzera, nel 1902, la terza, invece, dall’imprenditore Alfonso Bialetti, nel 1933. Tre modalità che oggi possono essere esperite sia nelle caffetterie pubbliche, siano esse bar o caffè dove predomina la modalità espresso, sia presso le abitazioni private.

            Un mondo complesso quello legato alla produzione -che oggi supera le 12 milioni di tonnellate- e al consumo del caffè, una bevanda di sicuro successo, che, fatta esclusione di una normale quota di detrattori, accompagna la vita dell’Uomo Occidentale, da quando si sveglia, al mattino, fino a sera, con i consumatori più accaniti e refrattari alla caffeina, ma non al meraviglioso gusto…

 

Antonella Ventura