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venerdì 29 novembre 2019

Stile e Buongusto (parte sesta): Cosa si nasconde dietro un regalo? – di Mauro Ragosta

      Trafitto e disarmato dalla malìa delle parole di una giovane professoressa di Neviano (LE), che, tempo fa, desiderava sapere da me cosa pensassi circa l’arte del regalo, o del dono, ecco qui un succinto resoconto, che offro anche agli affezionati lettori di Maison Ragosta, magari per sollecitare un certo tipo di riflessione.
         Al riguardo, va subito puntualizzato che, nella nostra società, dove anche gli aspetti più sacri del vivere sono stati trasformati in eventi mondano-consumistici, il regalo non solo ha perso il suo senso più profondo, ma si ritrova come oggetto di un gesto privo di un vero significato, automatico e incosciente, se non proprio imposto come dovere sociale categorico ed incontrovertibile. Una società alla quale pare, infatti, che non importi il dare un senso alle cose, ma che consumi cose………Una vita, quella Occidentale, “appesa” al consumo, che dunque si pone come dovere primo ed imprescindibile del cittadino.
         Spingendo oltre, anche il lusso è diventato, come conseguenza ovvia del fare consumistico, questione eminentemente popolare e di massa, se non proprio espressione di una volgarità “intelligente”. Il lusso, infatti, che dovrebbe essere qualcosa di esclusivo, non ordinario, è diventato questione drammaticamente quotidiana e, a ben rifletterci, degli status symbol ad esso connessi, non è rimasto che il “brand” che ne è il feticcio. Il lusso è, dunque, nell’accezione consumistica questione tipicamente popolare. Tant’è che il mercato da questo definito, in Italia, come nel resto del Mondo Occidentale, negli ultimi quindici anni, ha registrato ritmi di espansione se non impressionanti, quasi, con tassi di crescita, infatti, sempre a due cifre. Un lusso, che s’è trasformato in attorialità evocativa, sulla scia della migliore tradizione contadina, in tal senso rivisitata, corretta e attualizzata. In altre parole, del lusso ne è rimasta solo la rappresentazione e quando è tale e reale ai più è sconosciuto, meticolosamente occultato....
         In tale cornice può inquadrarsi, in un perimetro di significati dunque, l’arte del regalo. Ed ecco che, il regalo presenta due prospettive diverse. La prima è utilitaristica, la seconda di donazione di se stessi, spesso in una prospettiva dialogica. Più nello specifico e per meglio chiarire, il regalo, nella prima accezione, è qualcosa che fa piacere ed è utile a chi il regalo lo riceve. In linea esasperata, vale l’esempio degli eventi matrimoniali in cui, di solito si fa il calcolo o il bilancio di quanto si spende per la complessiva cerimonia e l’ammontare economico e l’utilità dei regali che si ricevono in cambio. Di solito è un po’ come pagare la pizza alla “romana……..” Sotto altra angolazione, il regalo, nella prospettiva utilitaristica si avvicina, e di molto pure, alla pura e semplice beneficenza. E cioè si regala ciò di cui ha bisogno il soggetto da "onorare" col gesto liberale.
         Nella seconda accezione, invece, il regalo è mezzo e strumento di comunicazione simbolico-metaforica, sino a giungere alla forma più alta del regalo stesso, che è portatore di parte del proprio mondo e del proprio essere più profondo. Ed esempio, in tale prospettiva, si può regalare un libro, che se intonso, vale quasi sempre come stimolo a riflettere su certe argomentazioni, che di solito sono legate alla relazione tra donatore e soggetto ricevente. Tale gesto diventa “importante” quando il libro regalato fa parte della propria libreria e ha per il soggetto che lo dona un valore speciale per la sua vita. Egli dona, in definitiva, qualcosa di prezioso per la sua vita e dall’altra, cede una parte importante della sua vita stessa. Ed ancora, altro esempio può essere per un uomo quello del regalare alla compagna della sua vita un portafogli da uomo, se non proprio il proprio. E’ superfluo marcare che, anche in questo caso, la carica simbolica è chiara, divenendo “potente”, quando lui regala a lei l’oggetto specifico e personale, che sintetizza il suo potere. D’altro canto, una donna che si presenta al banco di un negozio o di un bar per pagare il conto ed estrae dalla borsa un portafogli da uomo, evidenzia un certo tipo di ruolo sociale e la questione, peraltro, diventa “altamente” chic.  
Qui, dunque, esclusa appare ogni utilità materiale ed intrinseca del regalo. O sotto altra prospettiva il valore del regalo non è quantificabile in termini monetari e secondo le leggi dello scambio. Esso, infatti è destinato ad assumere significati altri, di cui l’oggetto ha un valore meramente simbolico, rimandando, infatti, in dimensioni altre e speciali della relazione e dell’esistenza.
         Va da sé che, tra le due prospettive tracciate, esistono un’infinità di soluzioni intermedie, dove l’effettiva differenza sta nello spessore e nella profondità del significato che porta con sé il regalo, il quale, è bene ricordarlo, va accompagnato sempre da un biglietto nel quale sono esplicitate indicazioni ed indizi circa la sua funzione e le intenzioni di chi lo fa. Per i più raffinati, a ciò si aggiunge una breve presentazione verbale, che sappia rafforzare curiosità e i sensi del gesto.

Mauro Ragosta

martedì 26 novembre 2019

Archivio Ragosta: Le silenziose guerre di danaro in Italia

         Siamo abituati a sentir parlare di guerra come atto politico, come atto egemonico, ma non come scelta sociale. Di ciò gli studiosi hanno omesso tutte le ricerche, nessuno parla di guerra sociale. L’unico che ha accennato a simile pratica è stato Lenin nei primi anni del Novecento a proposito della Prima Guerra Mondiale. Lui auspicava che invece di una guerra tra nazioni, ci dovesse essere una guerra sociale globale, tra classi. Poi nulla. Eppure, oggi, le guerre sono lì, in atto, dove una pacificazione sociale appare solo in una prospettiva escatologica, come epilogo di un lungo travaglio sanguinoso. E pochi sono quelli che accennano agli attuali confronti sociali, alle guerre sociali, che travagliano l’Italia. E pare che i conflitti siano per giunta in aumento, senza che nessuno se ne accorga, mentre altri non ne fanno parola.       
         Primo fra tutti i conflitti è la guerra tra ricchi e poveri. Qui, pare, che oggi i ricchi stiano avendo la meglio, dopo settanta anni di sostanziale equilibrio. E’ sotto gli occhi di tutti il veloce processo di accumulazione delle risorse finanziarie e materiali verso una ristretta oligarchia, che si avvale dello Stato Italiano come macchina amministrativa per sottrarre risorse alla base e distribuirle verso le classi più agiate. Al proposito bastano pochi accenni: le super pensioni, le super retribuzioni dei manager pubblici, le super consulenze, i grandi contributi alle banche che agiscono con un po’ di distrazione, le grandi operazioni di salvataggio di grandi imprese gestite un po’ così, da un lato, e dall’altro, a partire dagli anni Novanta, la svendita dell’IRI, lo smantellamento del welfare e dello statuto dei lavoratori, dell’aumento delle tasse regressive, che colpiscono i poveri ed esentano i ricchi, come l’IVA e le accise. Non è un caso che il mercato del Lusso viaggi ad incrementi annui di circa il 20%. Ma non solo. Stiamo assistendo, a partire dal 2008, con la crisi ad una focalizzazione del potere. E pare che questo processo sia irreversibile. D’altro canto tutte le dittature del Novecento sono passate dalla Sinistra: Mussolini era un socialista!!!! E noi, oggi, siamo ostaggi della sinistra, saldamente al potere oramai da più di dieci anni, nonostante i risultati elettorali……..
         L’altra guerra, in cui sempre lo Stato fa da mediatore per niente imparziale, è quella tra Nord e Sud. Una guerra che ha assunto caratteri acuti sempre dopo il 2008, con la Sinistra al potere. Le statistiche parlano chiaro: la forbice del Pil tra Nord e Sud è peggiorata da quando al governo si è avvicendato Monti. Da allora il sistema fiscale è stato costruito per favorire le regioni settentrionali e sfavorire le regioni meridionali. Ma la guerra a livello istituzionale si scioglie anche a livello popolare. Notoria è la considerazione negativa che hanno buona parte dei settentrionali nei confronti dei meridionali. Una guerra che entra anche nelle famiglie più semplici. D’altro canto, pare che un moto contrario di riscatto stia sorgendo spontaneo, di cui Pino Aprile pare essere la punta dell’icebreg. Una guerra questa ammortizzata molto dallo sviluppo del turismo meridionale, che impedisce una reale rivalsa (o rivoluzione?) per il ricatto dal vacanziero settentrionale che pratica lidi e monumenti del bel Sud, peraltro a basso costo.
         Di non minore rilevanza è anche la guerra tra maschi e femmine. Sono due secoli oramai di guerra aperta, senza tuttavia esiti significativi: libertà e uguaglianza hanno infarcito tutti i motivi del riscatto femminile e hanno dato manforte alla replica maschile. E’ vero, tantissime sono state le conquiste delle donne, non foss’altro che oramai nella peggiore delle ipotesi vengono reputate diverse, per competenze e caratteristiche, dall’uomo, e non invece, come un tempo, inferiori. Ma i dati parlano chiaro: nei processi economici e finanziari le donne vengono marginalizzate ed hanno una consistenza numerica di gran lunga inferiore rispetto agli uomini, che mantengono saldo il loro potere-ruolo.
         Infine, una tipica e recente guerra italiana è, poi, quella tra giovani e vecchi. Sempre dal 2008 tutte le statistiche mostrano che il patrimonio finanziario e immobiliare dei giovani è in netta diminutio, mentre quello dei vecchi è in forte aumento. Anche nei ruoli istituzionali e di potere sostanziale, i vecchi la fanno da padroni. In tale direzione, docet l’episodio Napolitano, che è solo un esempio che sintetizza una situazione molto diffusa. Vero è che i processi di integrazione sociale ed economica sono divenuti molto più complessi, a seguito di una società molto evoluta, che impedisce ai giovani di compiere percorsi di realizzazione in tempi brevi. In ogni caso, la ricchezza nell’ultimo decennio si è focalizzata presso le persone che hanno più di 65 anni, le quali, di fatto, decidono per tutti.
         Queste le principali guerre, rispetto alle quali ci si chiede se siano inevitabili o strutturali di una società, o addirittura necessarie. In altre parole, guerreggiare è un modo d’essere del popolo, della società nel suo complesso?
        
Mauro Ragosta
Articolo apparso su Paisemiu.com nel luglio del 2016

sabato 23 novembre 2019

Pensatori Contemporanei (parte terza): Ralf Dahrendorf – di Giuliano Greco


         E siamo al terzo appuntamento della più recente delle rubriche varate quest’anno da Maison Ragosta, centrata su alcuni pensatori, quelli che, in maniera importante, negli ultimi trent’anni, con le loro idee e con le loro costruzioni intellettuali, hanno inciso sulla nostra società. Una società, che non a torto, Bauman ha definito liquida. Ed ecco che, in un certo qual senso, questa rubrica si pone come fine ultimo quello di intercettare quei pensieri e quei pensatori che hanno fatto approdare a questo stato di liquidità la società in cui viviamo. Certamente, la componente ideologica, in tale direzione non è esclusiva, ma si presenta sicuramente come uno dei fattori più che importanti.
         Dopo aver, seppur succintamente dissertato sul pensiero centrale di Karl Popper e sulle sue ricadute sociali, qui ci soffermeremo su Ralf Dahrendorf, il cui pensiero, sebbene molto articolato, in alcuni aspetti si mettono in luce gli ingredienti salienti delle sue formule socio-intellettuali, che, come s’è detto, hanno condotto, come il pensiero di Popper, alla liquidità di Bauman. D’altro canto, poi, Daherndorf, non a caso, succedette a Popper alla direzione della London School of Economics, evidenziandosi cosi una linea di continuità nella gestione del pensiero Occidentale, da parte delle massime istituzioni culturali e accademiche mondiali.
         Ma prima di puntare ad uno dei nodi centrali del pensiero di Ralf Gustav Dahrendorf, ci di deve chiedere, almeno per quanto riguarda i tratti essenziali, chi è questo nostro pensatore. Tedesco, nasce ad Amburgo nel 1929. Qui, tra il 1947 ed il 1952 studia filosofia, filologia classica e sociologia, non mancando di frequentare alcuni corsi speciali a Londra. In Germania è stato un sociologo, politologo e politico di stampo liberale, ai massimi livelli istituzionali negli anni ‘60. Dal 1967 al 1970, peraltro, assume la carica di Presidente della Società Tedesca di Sociologia, succedendo a Theodor Adorno, colui che ha introdotto e definito, in ambito socilogico, il noto concetto di “massa”. Nel 1974, si trasferisce in Inghilterra e, come s’è detto,  gli viene conferita la carica di direttore della London School of Economics, fino al 1984, divenendo, poi, cittadino britannico nel 1988. Nel 1993 la Regina Elisabetta II lo nomina Lord a vita con il titolo di “Baron Dahrendorf of Clare Market in the City of Westminster”. Molte, comunque, sono le onorificenze assegnateli a livello internazionale. Tra queste va segnalata quella italiana conferita dal Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, nel 2002, quale quella appunto di Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana. La sua esperienza terrena si chiude nel 2009 a Monaco. Inutile dire circa la sua bibliografia, che si presenta decisamente corposa e di grande rilievo internazionale.
E veniamo al punto. Tra le tante, nota è la sua teoria sulla prospettiva del conflitto. Secondo Dahrendorf, il conflitto centrale nella società è tra chi ha il potere e chi non lo ha. E ciò sia a livello individuale, sia a livello di gruppi, sia a livello di ceti sociali. E’, in definitiva, l’esercizio del potere che produce e definisce il conflitto sociale. In tale prospettiva egli appoggia la definizione data da Max Weber sul potere, ossia “la capacità di far fare agli altri ciò che si vuole e farsi obbedire”. Da qui, è il potere che determina, oltre al conflitto, la struttura della società e stabilisce le norme, che tutelano gli interessi delle classi dominanti, e non sono frutto del consenso sociale. Inoltre, crea discriminazione verso chi non vi si conforma, oltre che sanzionare chi non le rispetta.
Tale impostazione, che si è disciolta nella pubblicistica, ha portato negli ultimi decenni a favorire, da noi, il cosiddetto “trasformismo”, termine, questo, coniato da Agostino De Pretis, liberale di sinistra e Capo del Governo nel Regno d’Italia, tra 1881-1887. Ed in effetti, se è vero che l’unico conflitto è tra chi ha il potere e chi non lo ha, l’appartenenza politica e l’esistenza dei vari partiti si presentano irrilevanti. Da qui, è lecito il trasformismo cui abbiamo assistito negli ultimi lustri, come fenomeno crescente e le cui giustificazioni si presentano sempre più stringenti. Ma la conseguenza ultima del pensiero di Dahrendorf si deve rintracciare soprattutto nelle ricadute popolari e sociali, amplificate anche dalla pubblicistica e dall’arte di Sistema, fortemente politicizzate. In Italia, con riferimento all’arte, un esempio vale per tutti: la nota canzone, per nient’affatto casuale, Destra-Sinistra di Giorgio Gaber, dei primi anni ’90, i cui effetti furono e sono tutt’oggi devastanti sulle menti più semplici.
L’uomo comune, infatti, col trasformismo viene privato della sua tradizionale identità politica, che lo ha caratterizzato negli ultimi duecento anni e che gli hanno consentito di esprimere la sua umanità. E quindi, ecco che il pensiero di Dahrendorf, come abbiamo visto anche per Popper, ha contribuito, ponendosi come sorgente prima, ad indebolire le strutture intellettuali “rigide” dell’uomo comune, la sua identità in definitiva, indirizzandolo verso soluzioni più “liquide”, per richiamarci a Bauman.

Giuliano Greco

mercoledì 20 novembre 2019

Archivio Ragosta: Il potere in Italia

         L’esercizio del potere è cosa buona, ma, come ovvio, non è condizione di felicità né pratica esperibile da tutti. Secondo la prospettiva cristiana questo è prerogativa di chi gode della Grazia Divina, mentre dall’angolazione laica -ed in ogni caso, di chi pone al centro della vita, l’uomo e la sua volontà- è il risultato delle proprie capacità e determinazioni. Comunque sia, è un privilegio al quale gran parte degli individui aspira e per il quale si combatte tutta una vita. Anzi, in molti costruiscono la propria esistenza attorno a questo traguardo, che si pone nella loro vita in maniera totemica. Ma...come si narra nel Vangelo secondo Matteo (22,14) ”molti i chiamati, pochi gli eletti” (o elevati?).
         In ogni caso, il potere in Italia è racchiuso orwellianamente, nelle mani di pochissime persone, che tutto possono e vedono, o siamo in presenza di qualcosa di molto più articolato e complesso? La seconda prospettiva appare la più vicina alla realtà ed in tale direzione varie sono le componenti sociali del potere, all’interno delle quali ovviamente non vi sono contingenze omogenee. In altre parole, esistono delle oligarchie eterogene nella loro natura, che in un rapporto dialogico gestiscono il territorio. Va detto che, anche in presenza di totalitarismi, mai questi, in Italia, ma anche altrove, hanno visto racchiudere il potere sommo nelle mani di un singolo soggetto. Questo è meno evidente nella prospettiva popolare, ma a ben guardare il cosiddetto leader totalitario è in maniera chiara solo il momento di sintesi di varie forze ed espressioni dei vertici di agglomerati di potere.
         E così, in una posizione di spicco, oggi, in Italia, pare porsi il potere dei burocrati dello Stato, che in maniera fattiva e concreta gestiscono più del 50% del reddito nazionale e quasi il 20% della forza lavoro italiana. Ovviamente tra i burocrati occorre ricomprendere anche la Magistratura, che presenta importanti capacità di incidere sul governo del territorio. Va qui specificato che, il peso dei politici, come si dirà, è di gran lunga inferiore rispetto alla classe di burocrati. I politici, a partire dalla Seconda Repubblica, non hanno, nella maggior parte dei casi, le competenze tecniche e amministrative per la gestione dello Stato, che invece sono oggi prerogativa quasi esclusiva dei burocrati.
         Allo stesso livello dei burocrati ed in un’ottica dialogica si pone il potere di chi dispone di capitali, come gli industriali, i grandi buyer e i banchieri. Naturalmente, sullo stesso piano si pongono i grandi manager, che, in una logica di stretta intesa con la proprietà, gestiscono strategicamente le risorse delle imprese. In altre parole, sono i grandi “Ufficiali della Corte”. Ovviamente, tutto ciò deve ricondursi alle imprese e ai gruppi capofila, che decidono le sorti di tutte le piccole e medie imprese italiane, in qualche modo ad essi collegati, sia sotto il profilo industriale sia sotto quello bancario.
         Un altro importante potere in Italia, come è noto a tutti, è quello religioso, ascrivibile in particolar modo alla Chiesa Cattolica. Un potere, quello della Chiesa non solamente spirituale, ma anche economico, e che socialmente si muove, a secondo dei punti di vista, in maniera trasversale o circolare. Fortune queste, tutte dovute soprattutto alla capillarità sul territorio degli insediamenti di culto, che hanno come risvolto la sua capacità di gestire in maniera importante l’opinione e le coscienze degli adepti e dei fedeli, e non solo. V’è da dire, tuttavia, che ultimamente la Chiesa va ridimensionando questa sua presenza spaziale, e non certo per la perdita del suo potere.
         Non per ultimo viene il potere degli intellettuali, ovvero dei filosofi e degli affini nonché dei giornalisti, che si muovono su due direzioni. Quelli prevalentemente di sinistra, i quali risentono ancora in maniera importante della scuola gramsciana e sono organizzati in strutture verticistiche. In prevalenza si dedicano in una prospettiva pedagogica-professorale alla formazione e all’informazione della popolazione. Quelli di destra, invece, sono più individualisti, dove i più estremisti, presentano spiccate tendenze di tipo spirituale ed isolazionistico. E mentre i primi hanno presa sulla coscienza popolare, i secondi, nelle frange più radicali, si pongono prevalentemente al di fuori del Sistema in maniera autarchica e al tempo stesso rappresentano dei punti di riferimento.
         E la politica? Dà e conferisce un potere? E se lo dà, è un reale potere? Con la seconda Repubblica e col porcellum il potere politico ha perso la sua caratteristica fondamentale, ovvero l’intellettualità. Oggi, e forse dopo Craxi, i politici italiani dipendono quasi in maniera esclusiva dai poteri di prima fascia testé citati, che ne determinano ogni scelta e ogni conclusione. Di fatto, i politici sono dei meri esecutori, i quali, peraltro, non hanno quel bagaglio culturale e di interessi per poter incidere e connotare la società. Ed in effetti, oggi, la politica nazionale non ha più una visione né un orientamento comprensibile, al di là degli schemi capitalistici tracciati nei salotti e nei Cda dei grandi gruppi ed impresa, dove convergono tutti i poteri. Un esempio vale per tutti: i Cinque Stelle, guidati da un attore professionista su schemi dettati dal Gruppo Casaleggio. Ma è solo il caso più facilmente comprensibile.
Non è un caso che il cittadino comune, come afferma Vattimo, ha perso gli orizzonti futuri e vive in un presente prevalentemente vuoto e fatto di consumi compensativi e dipendenze di vario genere nei confronti di oggetti-feticcio, abbondanti sul mercato.
         Dove dunque guardare per intercettare le reali prospettive della nostra società, e quella italiana in particolare? Ma sicuramente le determinazioni dei burocrati, dei capitalisti, degli intellettuali e dei religiosi, considerati nel loro insieme, possono far intercettare i grandi movimenti futuri della nazione, che comunque conserva ancora, sebbene in maniera oramai molto sbiadita, una sua specificità ed autonomia rispetto al contesto internazionale. Circostanza quest’ultima, da non sottovalutare, assieme a quella di riconsiderare quanto su esposto nella prospettiva dei gruppi familiari……

Mauro Ragosta

Articolo apparso nel 2016 su PaiseMiu.Com

lunedì 18 novembre 2019

Stile e buongusto (parte quinta): …circa l’abbigliamento e l’arredamento – di Mauro Ragosta


         Non può darsi l’abbrivo ad una dissertazione su abbigliamento e arredamento di buongusto e soprattutto di stile senza sottolineare subito che questi sono elementi della comunicazione, a volte decisivi. In tale direzione, l’abbigliamento e l’arredamento raccontano e ci raccontano, domandano e rispondono, nascondono, svelano e…..rivelano!
         Ed ecco che, ça va sans dire, che tutto dipende in primo luogo da ciò che abbiamo da comunicare e di pari passo dalle nostre capacità comunicative, espressive, narrative. Per comprendere meglio il perimetro all’interno del quale ci muoveremo, basti considerare la letteratura degli ultimi trent’anni, non tutta ovviamente. Questa ha assunto, nella maggior parte dei casi, quelli più commerciali e di successo, un linguaggio semplice, che non è tuttavia frutto di un processo di esemplificazione. E ciò in linea con certe tendenze della nostra società. E’ una semplicità tout court. In maniera più o meno articolata, gran parte della letteratura si rifà al sentito dire, a ciò che si è letto, il tutto assistito da una personalizzazione minima. Anche in molte biografie sono evidenti la semplicità degli strumenti con cui si narra e si osserva la propria esistenza: non v’è nulla che lasci intravedere scenari di un qualche interesse: è quasi cronaca.
         Del pari si verifica nell’abbigliamento e nell’arredamento. Qui è più esplicito ed evidente il rifarsi a, il comprare idee altrui. E’ noto che gli stilisti e gli arredatori, i designer sono i veri “intellettuali” di questo mondo, di questa sfera della comunicazione, che decidono cosa debba esprimere gran parte della società, quali concetti far utilizzare da questa e quali no. Ed ecco che l’abbigliamento e l’arredamento sono intrisi di politica, di status symbol, di territorialità. Insomma, perimetrano in definitiva l’appartenenza a quello o a quell’altro gruppo di partiti, il proprio status sociale, nonché la propria provenienza territoriale. Insomma, il più delle volte, ad esempio, è facile individuare, osservando l'abbigliamento e gli ambienti casalenghi, l’estrazione politica di una persona, e quindi gran parte del suo modo di pensare e relazionarsi, la classe sociale d'appartenenza e dove egli risiede abitualmente, giungendo, qualora fosse ignota, la sua professione, il suo lavoro.
Ma è chiaro che siamo all’interno di manifestazioni espressive omologate, come per i militari e le caserme, in definitiva. Nulla di più. E ciò senza andare negli aspetti feticistici dell’abbigliamento e dell’arredamento, e senza considerare che la moda è in gran parte dettata dalle esigenze di produzione e commerciali. Una per tutte, si tenga presente che la moda stagionale nell’abbigliamento venne inventata dai mercanti lionesi sul finire del Seicento, per battere la concorrenza italiana e soprattutto napoletana. Ma anche il vestire tutti in maniera diversa ha radici nelle problematiche industriali e sindacali degli anni ‘60.  E anche per l’arredamento, ad esempio, l’Art Dèco, che si affermò nei primi del Novecento, protraendosi sino agli anni ’50, è il prodotto della meccanizzazione dei processi produttivi nella costruzione dei componenti dell’arredamento e dall’introduzione di nuovi materiali.
         Chi ha stile, tuttavia, si abbiglia e arreda la propria casa senza tener conto della moda, dei luoghi comuni, insomma, o delle idee degli altri. Al più, come in letteratura si utilizzano i ghost writer, il soggetto che ha stile e buongusto assolda stilisti, designer o altri professionisti affinché progettino prodotti secondo le sue necessità espressive, secondo le sue elaborazioni esistenziali ed intellettuali. Ma tutto ciò sovente non è necessario a chi ha capacità espressive proprie, se non per “grandi operazioni”, ovviamente.
         Circa l’abbigliamento il soggetto che ha stile e buongusto, quindi, sa in quali circostanze vestire le gramaglie o con particolari capi, che non esaltino gli aspetti comunicativi dell’abbigliamento stesso, perché si predilige, in alcune circostanze ed in alcuni gruppi, sviluppare le relazioni su livelli comunicativi diversi. Al di là di queste circostanze, di cui in seguito se ne parlerà più diffusamente, l’abbigliamento di chi ha stile rispecchia, tutto, significati da ricondurre alle idee e alle intenzioni comunicative di chi li indossa. Ogni particolare ha un preciso significato, un messaggio specifico e rimanda in toto alle idee di chi le propone. Difficile che tale soggetto trascuri alcuni aspetti della sua mis. Naturalmente, solo chi riflette su tale situazione è in grado di cogliere, anche nel proprio interlocutore, tale tipo di comunicazione, e ciò nella sua portata e nei suoi contenuti più profondi. Ovviamente, c’è chi ha concetti che sa esprimere solo in maniera grossolana, che chi ha stile nota subito.
         Stessa cosa vale per l’arredamento. Qui la casa di chi ha buongusto è organizzata secondo precisi sistemi espressivi e nulla è lasciato al caso. In definitiva, ogni oggetto ha un suo perché e un suo valore comunicativo. Ecco, non si dovrebbero mettere i quadri solo per “riempiere” una parete. Non molto tempo fa si acquistavano le enciclopedie solo per “riempire” le librerie, per “arredare”, insomma. Di casuale non v’è niente in alcune case. Naturalmente, tutto dipende non solo dalle idee da mettere in campo, ma anche dalle capacità espressive. Ed ecco che, nella sua casa, la persona di stile racconta e si racconta, domanda e risponde, dichiara, nasconde, svela e….rivela.

Mauro Ragosta

venerdì 15 novembre 2019

Continua la ricerca di un redattore per Maison Ragosta…

                                     

          Con la presente comunicazione si reitera e meglio si specifica e formalizza l’annuncio del 21 luglio u.s. volto a valutare candidature per la selezione di un collaboratore da inserire nell’attuale gruppo di lavoro che gestisce Maison Ragosta, rivista on line di cultura e intrattenimento, al momento con caratura territoriale di tipo nazionale, ma con sede operativa a Lecce. Tutto ciò è dovuto alla sostituzione di un elemento della compagine redazionale per la sua riallocazione in altro ambito culturale.

            Si ribadisce, ancora una volta, che per la figura richiesta sono indispensabili una buona conoscenza della lingua italiana, una soddisfacente cultura interdisciplinare e una significativa propensione alla ricerca, nell’ambito delle scienze molli. Per la selezione non presenteranno valore significativo, pertanto, né i titoli di studio né i titoli accademici e neppure eventuali riconoscimenti, come neanche il curriculum, attinente agli studi e ai pregressi professionali, di lavoro e letterari di vario genere.  E' fatta eccezione solo per i condidati sotto i trent'anni in possesso di un master di secondo livello. Particolarmente graditi saranno i candidati di età compresa tra 50 e massimo 65 anni, residenti in provincia di Lecce o in provincia di Brindisi.
        I candidati, inoltre, dovranno essere disponibili a frequentare un corso specializzato e personalizzato, che insisterà su temi di stile e politica della comunicazione, attraverso alcune full immersion (minimo 2, massimo 4), che verranno sviluppate nell’arco di 50 giorni. I candidati, inoltre, nel corso di un quadrimestre dovranno sperimentare un percorso formativo a carattere prettamente intellettuale, centrato su un argomento assegnato. E ciò attraverso due due full immersion mensili da concordare con il responsabile di Maison Ragosta
            A tal proposito, gli interessati possono utilizzare il canale comunicativo che meglio ritengono opportuno per le procedure di primo contatto, tenendo in considerazione anche dell’opportunità di poter ricorrere ad un approccio telefonico, preferibilmente dalle ore 12:00 alle ore 13:00 e dal lunedì al venerdì, utilizzando il seguente numero: 340-5230725.

Mauro Ragosta
           

lunedì 11 novembre 2019

Post-evento n°9 - Ieri sera a Copertino: Ivan Raganato-Maria Antonietta Vacca, coppia teatrale imbattibile – di Mauro Ragosta



          

       D’emblée, prima di entrare nel merito della serata di ieri, domenica 10 novembre, presso Scena Muta a Copertino, per la pièce “Ugo”, scritta dalla nota quanto acuta, Carla Vistarini (peraltro nel parterre), v’è da chiedersi se, oggi, l’attorialità industrializzata, l’attoriosità di un interprete, insomma, sia “cosa buona e giusta”, oppure è necessario andare oltre. In altre parole, oggi è da avallare il fatto che l’interprete teatrale debba superare l’attore standard, ovvero “non puzzi di teatro” o bisogna rimanere ancorati ai canoni teatrali e, semmai, trascenderli pur non negandoli?

         Ieri sera, nella grande sala di Scena Muta, tutto sembrava, tranne di essere a teatro, dove, quasi sempre, è netta la sensazione di separazione tra pubblico ed attori. Dalle ore 09:10, e cioè da quando si è aperto il sipario, le luci hanno illuminato la scena ed è apparso, solo, Ivan Raganato, s’è percepita subito un’atmosfera di immedesimazione totale, e pubblico e attori hanno vissuto all’unisono e da protagonisti la storia tracciata dalla brava Vistarini. Se si dovessero esprimere le coordinate di ieri sera da Scena Muta per “Ugo” con la retorica pittorica, ecco ieri sera si era in presenza di un’opera iperrealista. Tutti, credo, abbiamo sentito e “toccato” il cuore e il pathos dell’autrice e dei suoi personaggi. Si era, va la pena sottolineare, all’esatto opposto delle performances di Carmelo Bene, che sempre ha esasperato, ha forzato oltre misura l’attorialità, che diventava qualcosa d’altro, di unico, a se stante in scena, monadico nella sua dinamica. E da qui, ci si potrebbe chiedere: ma è vero poi che gli opposti, ad un certo punto, si confondono?
         In tutto ciò, Ivan Raganato, ieri, ha mostrato una parte importante della sua maestria. Peraltro, in un certo senso, senza spalla, ha avviato lo spettacolo ed è rimasto da solo sulla scena per ben quarantacinque minuti, caricando la rappresentazione e disponendo tutte “le carte” per il momento clou, che si è avuto quando è comparsa, come sempre superbe e luminosissima, Maria Antonietta Vacca. Da qui e con i due, accompagnati dal silente Ugo, magistralmente interpretato da Pino Imbriani, il momento d’arte, sempre in un crescendo, in una accelerazione progressiva e continua, ha trovato il suo giusto compimento nell’ultima battuta, quando, in sala è calato il buio, mentre in simultanea si è impennato con potenza l’applauso degli astanti.
         Lo specifico di “Ugo” della Vistarini non sta tanto negli ingredienti base della rappresentazione, peraltro canonici di un certo tipo di commedia, quanto piuttosto in tutto ciò che è ruotato attorno e ad essi si è connesso. In altre parole, l’equivoco e l’imprevisto, non sono stati solo la scusa di arguzie esilaranti, ma anche il motivo per raccontare la vita di una coppia moderna, dove, in un rapporto di genere invertito, rispetto ai canoni tradizionali, la Vistarini ha fatto giungere i protagonisti, il lui e la lei insomma, all’intesa di sempre, al rapporto di sempre, tra uomo e donna. In ciò la maestria della Vistarini, che è stata capace di far vedere la modernità e il progresso, perfettamente possibili ed incastrabili in una cornice tradizionale. Una sintesi su cui riflettere.
         Sebbene non abbia detto una sola parola, non si sia prodotto in alcuna battuta, un cenno speciale merita Pino Imbriani, che ha interpretato Ugo, un gorilla, attorno al quale è stata costruita l’intera pièce. Una parte, quella di Imbriani, di grande complessità, dal momento che la gestualità del gorilla Ugo ha giocato un ruolo molto importante nel susseguirsi delle battute tra Ivan e Maria Antonietta.
         Un plauso va anche a Dalila Grandioso, che, questa volta, lontana dalla scena, si è prodotta in un’impeccabile attività di gestione di tutto il sistema scenico, che ha reso la rappresentazione perfettamente godibile.
Insomma, una serata speciale. D’altro canto, una pièce firmata da una tra le più note ed interessanti figure dello spettacolo italiano degli ultimi cinquant’anni. Questa sera, la replica alle ore 21:00.

Mauro Ragosta



sabato 9 novembre 2019

Avvio all’esoterismo (parte decima): …e scendendo, ancora sui livelli dell’esoterismo - di Italo Zanchi


          Dopo l’approccio metodologico all’esoterismo, di cui s’è diffusamente trattato nel pezzo precedente della presente rubrica, qui, invece, ci si affaccia alla prima intuizione esoterica, quella connessa a Visioni istantanee di una Realtà, tanto evidente quanto non visibile dai nostri occhi analitici e meramente fisici. Chiunque, d’improvviso ed in maniera inusitata, può ottenere “esperienze di vetta” o “illuminazioni” istantanee, come “bagliori di una lama” (dal Maestro G. Curci, Bari). E’ possibile che ciò accada in momenti di particolare concentrazione, di astrazione dal proprio Io e dal mondo circostante, causa sì di stress o di sofferenze, ma anche di frangenti di appagamento, felicità. Questi attimi possono modificare il corso delle esistenze, perché capaci di trasformare la mente di quanti li vive. Tuttavia, non poche volte, essi non producono alcunché, laddove non vengano riconosciuti, e così, restando incompresi, il soggetto li dimentica e quindi manca una sua possibilità di tesaurizzazione. Spesso, queste esperienze non sono ricercate e volute, ma si presentano nella propria vita in maniera casuale, e se vissute da persone che non hanno la Ricerca Profonda come propria intenzione conscia, è molto probabile che vadano ignorate dal soggetto. Qui vengono in mente le “margaritas ante porcos”, laddove le “perle” sono le visioni superiori, mentre i “porci” sono quanti ne abbiano esperienza ascrivendola a momentanee bizzarrie, se non défaillances della propria mente. Se invece queste “perle” vengono riconosciute come tali, e ci si sforza di tenerle con sé e approfondire il loro valore, ecco che si può procedere verso la sperimentazione delle capacità di conoscenza della mente. Può anche accadere che l’esperienza non venga compresa, ma venga accantonata per essere poi ricordata e considerata in un’altra fase della vita, più propizia.
            Ma, prima di procedere nel pennellare su questi “bagliori di lama”, occorre dar conto anche della ricerca intenzionale di risposte a interrogativi da parte della persona insoddisfatta o angosciata da un mondo che gli appare privo di senso esistenziale. La carta dei Tarocchi dove antichi iniziati rappresentarono questo stato, raffigura il viandante il cui calcagno viene morso da un cane: questo morso, questo travaglio interiore, spinge l’uomo ad abbandonare i paradigmi illusori della mondanità per muovere alla ricerca della Verità, di qualcosa di più “solido”. E così, letture, meditazioni, esperienze, possono condurre alla percezione di un bagliore che costituisca punto di svolta e, dunque, di inizio di risalita o di ascesa. Questo stadio della ricerca è molto presente nelle narrazioni/raffigurazioni esoteriche. Esso è connotato dalla melanconia, sempre presente nelle fasi iniziali della Ricerca, nella quale si incontra l’abisso e dove occorre vincere la paura di osservarlo, per verificare la veridicità del nulla, e discernendo così sui motivi profondi dell’angoscia. E’ l’opera al nero dell’alchimia, il Saturno degli astrologi, la “Melancolia” del Duhrer con l’angelo seduto e meditabondo (v., F.A. Yates, “Cabbala e occultismo nell’età elisabettiana”, Einaudi, 2002); in psicoanalisi, “è attraverso la depressione che entriamo nelle profondità, e nelle profondità troviamo l’anima” (Hillman, “Re-visione della psicologia”, Adelphi, 1983; “Fuochi blu”, Adelphi, 2010 ).
            Allo stesso modo, per esperienze di vita o convinzioni, oppure studi, si può affrontare un cammino di decostruzione personale, apofatico, cioè di progressiva negazione, eliminazione di tutti gli attributi costituenti la propria “persona” (maschera, apparenza) fino alle proprie facoltà e al pensiero stesso, per nullificarsi e sperimentarne lo Stato, il Nulla. Si constata che questi percorsi vengono affrontati in tempi e luoghi diversi e lontani, e in cornici culturali e religiose diverse: ad esempio, i Sufi o l’esoterismo islamico (G. Giuliano, “L’immagine del tempo in Henry Corbin”, Mimesis, 2009), così come alcuni santi cristiani (San Giovanni della Croce, “La notte oscura”, Gribaudi, 2007).     
            Ma, attenzione, la marcia di avvicinamento è pericolosa! Siamo, infatti, circondati e allo stesso tempo anche intimamente penetrati da forze immani: è un universo, una natura minerale, vegetale e animale, un’umanità intera che gravano su ciascuno dei “viaggiatori”. E’ tutto questo un immenso groviglio in continuo intrecciarsi, nel quale ciascuno è avviluppato e del quale, pure fa parte. Fortunatamente, nella vita comune, l’individuo possiede armi di difesa potentissime: coscienza e raziocinio; la prima, per distaccarsi psicologicamente dalle forze circostanti e interiori; la seconda per approntare un ordine nel quale potersi muovere con sicurezza secondo canoni noti. E’ come erigere un perimetro intorno a sé, dal quale tenere lontani i mostri e all’interno del quale muoversi con relativa sicurezza; come il cerchio tracciato dal Mago intorno a sé prima dell’operazione da compiere. Ora, andando oltre il Mago, ci si libera dalla paura e ci si spoglia delle armi per varcare il perimetro, ma qui si può essere assaliti dal Kaos, l’Immane Groviglio, e allora occorre grandissima forza (nella mitologia, Ercole; nella Bibbia –I Profeti minori-, Giona inghiottito da “un gran pesce”). Varcata la soglia, la volontà e la certezza dell’intensione non devono vacillare; diversamente, la visione del Kaos sarà terrificante, la mente (meus ens) ne sarà sconvolta, la missione fallisce.  
Per affrontare questi “viaggi” occorre fede? Forse, no! Probabilmente occorrono fortissimi desiderio e volontà di andare a vedere cosa c’è oltre il nostro recinto mentale. Il connubio di desiderio e volontà, forse, è Amore, Amore per la Verità, ontologicamente connaturato alla purezza. Ecco, per affrontare certi viaggi, trasformarli in pellegrinaggi, per vincere la paura e raggiungere il successo nell’impresa, occorre la purificazione: gli Esseni, a Qumran, avevano vasche per i lavacri; i fedeli islamici, prima di entrare nella Moschea o effettuare circumambulazioni intorno alla Ka’ba, purificano le membra con l’acqua; i cavalieri, prima di affrontare una tenzone o una battaglia eseguivano fumigazioni e lavacri; e molto altro, fino ai giorni nostri. Al di là di gesti, che oggi paiono simbolici, la sostanza consiste in un comportamento integrale -pensiero, parola, azione- fondato su sempre più approfonditi e vissuti valori, quali correttezza, lealtà, pratica del “neminem laedere”, fino alla bontà e alla simpatia (patire insieme). Oltre e altro rispetto, alla  positivistica “educazione alla legalità”.
Il segreto è questo: un animo puro! Nessun meccanismo comportamentale, nessuna pozione magica (le droghe contemporanee), nessuna disciplina fisica, conducono al risultato più elevato. Molte saranno le illusioni, anche forti, ma i patti col diavolo sono tragicamente deleteri. Il laboratorio dell’alchimista è l’Oratorio. Un detto iniziatico avverte: “Il Padreterno non si prende in giro”. Che il salto avvenga casualmente -in apparenza- o che i travagli della vita lo provochino oppure che venga ricercato –anche dolorosamente e pericolosamente- l’esito consiste nel ritrovamento del tesoro nascosto, nella scoperta dell’Essenza, del nucleo incorruttibile sul quale può erigersi saldamente la propria esistenza (“L’inno della perla” negli atti apocrifi dell’apostolo Tommaso, in H. Jonas, “Lo gnosticismo”, Ed. Internazionale, 1995). Ad ogni modo si sviluppa un’intelligenza diversa dal consueto, oltre il razionale, ma non irrazionale, visionaria appunto, nel senso della facoltà di vedere l’insieme delle cose, il paesaggio della Realtà nella sua più vera morfologia e consistenza. Visione, svincolata dalle complesse articolazioni e concatenazioni logico-razionali, propria di chi non vede e, nell’oscurità, analizza e deduce, per “farsi un’idea”, indirettamente, della realtà.
            Va da sé che vi sono altri gradini da salire per questo approccio all’esoterismo, ma li affronteremo con i prossimi appuntamenti di questa rubrica, se riterrete di riconoscere e condividere il percorso.
Italo Zanchi

giovedì 7 novembre 2019

Post-evento n°8: Giuseppe Pascali e L’altro Libro a Cavallino – di Mauro Ragosta

    
         Come s’è messo in evidenza precedentemente in Maison Ragosta, ma anche l’anno scorso su Paise Miu, quotidiano on line salentino da me diretto sino a dicembre del 2018, una delle peculiarità del mondo del libro nel distretto culturale leccese emersa a partire dal 2017 è quella legata alle rassegne letterarie, che, sempre più numerose, conferiscono a questo un carattere sistemico e gradi maggiori di maturità. Ed in effetti, le varie rassegne emerse, a Lecce ed in provincia, negli ultimi anni, tra le quali vale la pena citarne una per tutte, ovvero Inventiamo Eventi di Fiorella Mastria, si pongono come contenitori stabili che raccordano, da un lato, i lettori e dall’altro, gli autori e la produzione delle case editrici. Un fenomeno questo che si è strutturato sempre di più, come conseguenza di un pullulare corposo di autori e pubblicazioni locali, che dopo il 2010 hanno assistito ad un’espansione mai registrata prima d’ora in provincia de Lecce.
         In tutto questo un ruolo di spicco spetta alla rassegna letteraria L’altro Libro, che, avviata nel 2017, si tiene a Cavallino in una delle sale del Bar L’altro Caffè, d’inverno, e d’estate in alcune ville private del centro storico. L’ideatore e il direttore artistico di questa, oramai nota, kermesse letteraria è Giuseppe Pascali, stimato e popolare giornalista della Gazzetta del Mezzogiorno. Al suo fianco, condivide l’organizzazione degli incontri de L’altro Libro, il simpatico, quanto affabile e sensibile, Vinicio Russo.
         E proprio perché L’altro Libro può essere considerata una delle prime rassegne impostate nella prospettiva moderna del mondo del libro leccese, è stata oggetto della nostra attenzione, che da circa un decennio si focalizza anche sugli aspetti, non solo letterari, ma altresì sociologici ed economici del distretto culturale leccese. Sicché, si è deciso di parlare diffusamente di quest’iniziativa e per farlo ci è parso giusto declinare al nostro lettore una delle serate tipo, tra le quali si è scelta quella di ieri sera, mercoledì 6 ottobre, tenuta in occasione della presentazione del lavoro di una giovanissima esordiente, ovvero Francesca Crusi, che recentemente ha pubblicato il suo primo volume: Cacciatori di Demoni.
         A tal proposito, va sottolineato che la scelta degli autori e dei lavori letterari per L’altro Libro è portata avanti da Giuseppe Pascali, assieme a Vinicio, con grande attenzione, riuscendo sempre a far collimare le esigenze degli editori con quelle del pubblico. La rassegna, infatti, nella formula impostata da Giuseppe, mantiene una costanza significativa nelle sue frequentazioni da parte dei lettori cavallinesi e non solo.
                            
         L’abbrivo alla serata è stato dato da Vinicio Russo, che ha messo in luce i numerosi motivi per cui è sorta la rassegna. Tra questi un posto prioritario occupano la voglia, da un lato, di fare rete, tra scrittori, case editrici, presentatori e pubblico, al fine di promuovere la cultura salentina e dare una risposta alle esigenze letteraria locali, e dall’altro, la necessità di riqualificare la location, precedentemente destinata al gioco d’azzardo e offrire dunque alla comunità cavallinese un’alternativa più costruttiva. In seconda battuta è intervenuto Giuseppe Pascali, dando un sapore più romantico allo scopo de L’altro Libro, quale quello di trascorrere una lieta sera con amici ed in compagnia di un buon libro, ovvero una versione moderna delle riunioni che fino a non molto tempo fa si tenevano attorno al fuoco di un camino, per raccontare e raccontarsi.
         Da qui, la serata è entrata nel vivo ed è stata condotta con sapienza dalla giornalista Francesca Pastore che ha saputo ben interpretare e proporre l’autrice e il suo lavoro, intrattenendo un pubblico, in molti tratti, particolarmente qualificato. Molto intenso si è mostrato il frangente letterario quando si è parlato delle paure dell’uomo dei tempi moderni. E qui si è giunti a dei distinguo significativi ed importanti. Quindi, ci si è intrattenuti sulle paure di un tempo, che, pare, si presentino diverse da quelle di oggi. Ma profonde differenze sono state individuate e marcate anche tra le tipiche paure dei giovani d’oggi e quelle delle generazioni più mature.
         Al termine, decisamente significativo è stato l’intervento di Giuseppe Pascali, che ha esortato l’autrice a guardare al successo sempre con un certo sospetto perché il segreto di una lunga e luminosa carriera letteraria si deve soprattutto alla capacità di essere sempre molto critici con se stessi. Circostanza, questa, che va in parallelo con la produzione letteraria, la quale si interrompe e muore quando ci si accontenta dei risultati raggiunti. L’ultima battuta della serata è stata del Maestro Arnaldo Miccoli, noto pittore italo-americano, che ha declamato alcuni suoi versi in vernacolo, molto toccanti, dal titolo Sira de iernu, richiamando così lo spirito più profondo delle serate de L’altro Libro, lì a Cavallino.

Mauro Ragosta

lunedì 4 novembre 2019

La rivoluzione informatica (parte quarta): gli anni ’70 – di Andrea Tundo

In prima battuta, va ricordato che negli anni ’60 -già trattati nel precedente articolo di questa rubrica di Maison Ragosta- furono raggiunte innovazioni tecniche e teoriche riguardanti soprattutto lo sviluppo delle reti informatiche, ovvero la comunicazione fra più computer, e il potenziamento di questi ultimi, che passarono da essere semplici macchine di calcolo a interfaccia più o meno intelligenti in grado di compiere diverse funzioni contemporaneamente. Va ricordato inoltre che l’estensione dell’utilizzo del computer, in questo periodo, non va oltre nicchie specializzate, come le multinazionali e gli alti apparati burocratici e militari dello stato.
Gli anni ‘70 però contengono al loro interno un’aria ben diversa, un’aria di libertà e condivisione in tutti i campi del sapere: nelle arti, nella politica, nel comportamento dell’individuo, nelle scienze e così ugualmente nella nostra ancora giovane informatica. Infatti, da un gruppo di giovani di varia estrazione culturale prendono avvio l’avventura del centro di ricerca di Palo Alto e quello che sarà uno tsunami informatico-commerciale dovuto alla visione e realizzazione del personal computer come lo conosciamo oggi…, non solo una macchina da calcolo, ma anche uno strumento di comunicazione tra le persone, che peraltro non richiede per il suo funzionamento l’ausilio di tecnici specializzati. Qualcosa, insomma, che nelle visioni dei più illuminati, tra manager e matematici, tutti avrebbero dovuto avere………come poi hanno avuto!
In tal senso bisogna porre una particolare attenzione al lavoro di Steve Jobs, che non fu l’unico fautore di questa grande impresa visionaria né tantomeno l’unico genio in grado di prevederla, ma la sua figura, che negli anni ’90 diventò un’icona pop, è il simbolo di ciò che successe da quegli anni in poi: la massificazione delle tecnologie, che diverranno parte integrante del quotidiano, entreranno nelle case, negli uffici, nelle biblioteche, nelle scuole e così via sino a costituire l’oggetto di una delle nuove schiavitù. Non intendiamo in questa sede schierarci da una parte piuttosto che da un altra, ma sta di fatto che tale fenomeno, oggi, ha raggiunto il suo punto di saturazione dal punto di vista commerciale. Quasi tutta l’umanità infatti possiede un computer e/o un telefonino se non più di uno; inoltre la percezione di tale fenomeno si è in un certo senso invertita. Se di fatto sul finire degli anni 70’ avere un pc, vera e propria novità tecnologica, equivaleva a uno status symbol di persona indipendente e sganciata da determinate logiche del pensiero comune, oggi lo stesso vale per chi non ce l’ha, i quali sono veramente pochi. E se da un lato la commercializzazione su larga scala delle nuove tecnologie è stata spesso spinta grazie a una retorica pubblicitaria che ne esaltava i caratteri indipendenti rispetto agli apparati di potere e le grandi libertà che l’uomo medio ne avrebbe tratto, dall’altro si è diventati schiavi della tecnologia in sé e non tutti sono realmente in grado di calcolare se la propria vita possa effettivamente dirsi migliorata dopo questi cambiamenti. E’ questa una tra le nuove dipendenze, come lo fu la sigaretta nel dopoguerra. Bisogna in definitiva convivere con queste contraddizioni del consumismo ed eventualmente provare a chiarirsele, ma per farlo è necessario avere il quadro della situazione.
Ma torniamo sui nostri passi. La massificazione delle tecnologie è stata resa possibile, innanzitutto, dall’ottimizzazione dell’hardware, che diventa più piccolo e funzionale. L’invenzione dell’Apple 1, infatti, primo computer ad essere stato messo in commercio ad un prezzo accessibile a molti, era in sostanza una scheda madre alla quale andavano collegati alimentatore, tastiera e display. Il salto successivo sarà  quello di fondere questo circuito integrato con un televisore: nasce così il 5 giungo 1977 l’Apple 2. A partire da tale anno sono presenti tutti gli elementi del vero personal computer e per la prima volta un attrezzo informatico entra nel mercato di massa. Tutti i tentativi precedenti anche dell’IBM presentavano prezzi alti, una gestione operativa poco efficace ed efficiente e un utilizzo in molti casi hobbistico. E’ importante notare che questo enorme passo non viene compiuto da una compagnia accreditata come IBM, ma da un gruppo di giovani che avviano quest’attività in un garage di Cupertino e che pochi anni dopo verranno quotati in borsa. Si allude ovviamente alla Apple.
In Italia, su altro fronte, tra 1970 e il 1974, nasce a Novedrate (CO) il Centro Studi e Formazione per l’Europa dell’IBM, un polo informatico che poteva ospitare fino a 500 tra formatori, progettisti e discenti, il quale fu il fulcro operativo del processo di informatizzazione di gran parte del sistema bancario europeo e delle più grandi aziende in ambito commerciale ed industriale del Vecchio Continente. Un centro che rimase attivo fino al 2003, quando, come si vedrà, per gli ulteriori sviluppi matematico-scientifici di questo mondo, resero la struttura poco significativa sotto il profilo strategico e produttivo.
Sicché, negli anni ’70, in sintesi, se da un lato si ha il pieno sviluppo del processo di informatizzazione delle grandi strutture pubbliche e private, dove in ambito militare a seguito dei rilevanti progressi registrati si comincia a pensare di ridurre in maniera massiccia l’impiego del fattore umano; dall’altro, sebbene a livello embrionale, cominciano a prendere corpo le attrezzature informatiche domestiche, tra le quali il più rilevante è il personal computer, posto per la prima volta sul mercato  a titolo sperimentale da Olivetti nel 1957, ma che solo in questo decennio registreranno rilevanti e significativi progressi, che permetteranno, poi, all’avvio del nuovo decennio, nel 1981, l’ingresso sul mercato del primo vero computer da tavolo, l’IBM 5150, anche se si dovrà attendere il 1984 per averne uno nell’odierna accezione, targato questa volta dalla Apple di Steve Jobs.

Andrea Tundo