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mercoledì 28 aprile 2021

Stile & Buongusto (parte decima): il bigliettino da visita – di Mauro Ragosta

         E siamo così arrivati al decimo appuntamento della rubrica di Maison Ragosta, Stile e Buongusto, nel quale si faranno alcune considerazioni sul bigliettino da visita, soprattutto circa l’uso e l’impostazione grafica.

            Al riguardo, non ci pare inopportuno sottolineare che il bigliettino da visita è metaforicamente figlio del bigliettino di visita, in uso dai primi decenni del Settecento e fino alla fine dell’Ottocento, quando cominciò a diffondersi l’uso del telefono. In effetti, il bigliettino di visita si affermò per la prima volta a Parigi e serviva a lasciare una traccia di chi rendeva visita, ma aveva la sfortuna di non trovare presso il suo recapito la persona di proprio interesse. E così, il lacchè consegnava al maggiordomo della persona visitata il bigliettino del visitatore, il quale con tale prassi segnalava la circostanza del suo tentativo di rendere visita. Ovviamente, il destinatario del bigliettino di visita una volta entrato in possesso, sapeva chi l’avesse cercato presso il proprio recapito, e aveva così modo e l’opportunità di provvedere a ricambiare.

            Il bigliettino di visita era composto in maniera semplice ed essenziale: nome e cognome, al centro, in basso a sinistra la via di residenza e, in basso a destra, eventualmente, il club di appartenenza. Questa la forma canonica e classica, ma v’era chi aggiungeva disegni, motti, titoli.

            Con la diffusione dell’uso del telefono il ricorso al bigliettino di visita fu sempre meno frequente, sino a non esser più considerato come forma comunicativa, ma il piccolo cartoncino con le proprie coordinate continuò ad essere utilizzato, con funzioni tuttavia diverse e da qui il cambio del nome, ovvero bigliettino da visita, in quanto la sua funzione principale fu ed è quella di essere strumento di “apertura” di relazione.

            Oggi, bigliettini da visita se ne distinguono principalmente tre, ovvero quello commerciale, quello professionale e quello personale. Il primo di fatto si sostanzia nell’offerta commerciale di beni e servizi dell’intestatario, mentre il secondo mette in evidenzia il proprio ruolo socio-lavorativo.

            E proprio in riferimento a quest’ultimo sarebbe auspicabile usare alcune raffinatezze, che di rimando definiscono il proprio status culturale e il background sociale. Così, è sicuramente significativo eliminare dal bigliettino da visita il titolo universitario, fatta eccezione per i medici. È questa una prassi che si usa in tutta Europa. Sul bigliettino da visita professionale, in effetti, andrebbero segnalate soltanto la funzione aziendale o il ruolo professionale o ancora il tipo di lavoro che si svolge. E tuttavia si può dare una traccia sul proprio tipo di formazione, indicando in alto a destra l’università frequentata, che definisce meglio soprattutto lo status sociale e la qualità dei propri studi. Ora, se proprio non si volesse rinunziare allla menzione del titolo universitario, bisognerebbe indicarlo nella lingua italiana con le abbreviazioni “dott. per gli uomini e dott.ssa per le donne”; se invece si dovesse scegliere la lingua inglese, qui l’abbreviazione è soltanto “dr.”, e sta per doctor, che vale sia per gli uomini sia per le donne. Gravissimo errore, al riguardo, sarebbe quello di trasformare l’abbreviazione inglese al femminile italiano, ovvero “dr.ssa”, prendendo così l’abbreviazione una parte in inglese e l’altra in italiano.

            Sin qui si sono trattati i bigliettini da visita più diffusi ed utilizzati. Ed in effetti pochissimi ricorrono al bigliettino da visita personale, il quale ha la funzione di rendere più discreto il trasferimento dei propri recapiti privati. In tale ambito va subito segnalato che si presenta decisamente poco elegante chiedere al proprio interlocutore i suoi recapiti telefonici o di residenza, soprattutto se con formule dirette. Ottenere ciò deve essere considerato una concessione. Una persona ben educata, solo in casi eccezionali chiederà il recapito telefonico o dell’abitazione del proprio interlocutore, il quale deve essere lasciato assolutamente libero di dare queste che sono informazioni riservate. Motivo per il quale se qualcuno volesse essere contattato da voi, vi darà le necessarie informazioni, e nella fattispecie vi lascerà il proprio bigliettino da visita, sul quale verranno indicati solo il nome ed il cognome, la via di residenza ed un recapito telefonico. Assolutamente fuori dal buon gusto è segnalare sul bigliettino da visita personale il titolo universitario, l’azienda per la quale si lavora o altra indicazione attinente al mondo del lavoro e professionale, anche nel caso si abbiano riferimenti accademici. Peraltro è totalmente privo di qualsiasi grazia comunicare a voce il proprio numero di telefono, mentre il destinatario compie tutte le operazioni di memorizzazione sul proprio palmare o su un taccuino o addirittura su un foglio di carta “volante”….

            Va da sé che, altro ancora si può dire sull’argomento, ma qui s’è solo lasciata una traccia tesa a chi ama il dettaglio ed il particolare, per speculare o informarsi meglio circa tutte le specifiche del caso.

 

Mauro Ragosta

 

Nota: chi fosse interessato alla produzione di saggi di Mauro Ragosta, può cliccare qui di seguito per le principali delucidazioni:
https://youtu.be/lhdKGKUfH6Q 

 

venerdì 23 aprile 2021

Maison Ragosta Spazio Live n°3 : Intervista a Pompea Vergaro - di Mauro Ragosta

 

 

    Qui un altro pezzo della nuova rubrica, Maison Ragosta Spazio Live, condotta da Mauro Ragosta, spesso assieme ad attori privilegiati del mondo culturale leccese. Si tratta di uno spazio in video dedicato ad interviste, recensioni, conversazioni, considerazioni specifiche. Tutto sul Mondo dell'Arte e della Letteratura non solo leccese, ma anche nazionale ed internazionale. Questa Terza Parte è dedicata a Pompea Vergaro, critica d'arte e direttore responsabile del quotidiano on line Venti di Ponente, che qui ci illustrerà alcuni tratti del suo modo di fare giornalismo, dei suoi rapporti con la società che la circonda e col mondo culturale leccese.

Di seguito il link della video intervista:

https://youtu.be/_24Ib38nXlQ

 

 

 

martedì 20 aprile 2021

Saperi & Sapori (parte quinta): Le erbe selvatiche – di Antonella Ventura

          E siamo alla quinta puntata della Nostra rubrica Saperi & Sapori, dove, dopo aver offerto ai lettori di Maison Ragosta le principali chiavi di lettura con le quali si affrontano la trattazione di cibi e alimenti, abbiamo reputato addentrarci in argomentazioni un po’ più pregnanti sul piano dei principi, sia su quelli che governano il nostro/vostro Mondo Occidentale sia su quelli che potrebbero costituire un nuovo modo di concepire l’esistenza sia su quelli che sono stati fondanti nel passato. E così si è scelto di argomentare sulle erbe selvatiche…….

C’era una volta in un prato ricco di colori e odori selvatici una strega un po’ fata buona, inseguita da giudici cattivi, e c’erano villaggi fatti di casine con camini accesi, sui quali ardevano paioli di ottima minestra… così si potrebbe cominciare ad argomentare di erbe selvatiche e i protagonisti ci sarebbero tutti, perché dire erbe selvatiche è raccontare di un’antica cucina e di sane medicine, toccando, qui e lì e per completezza, anche brutte situazioni, tradizioni oscure, pregiudizi e morte.

Le erbe selvatiche, chiamate anche “piante alimurgiche”, sono state per secoli l’alimentazione delle necessità. Infatti, queste piante -conosciute il più delle volte con i propri nomi dialettali, che variano da regione a regione- sono a disposizione dell’Uomo in ogni mese dell’anno e non hanno bisogno di alcuna cura particolare: sono dono spontaneo di Madre Natura, sin dalla notte dei tempi.

È con un afflato fiabesco che sovente si vanno a raccogliere i fiori di campo e le erbette selvatiche, muniti di sacchetto e taglierino, necessario quest’ultimo per non sradicare l’intera pianta e permettere la rinascita successiva. In simile attività potremmo imbatterci nei simpatici fiori gialli dell’Iperico, nel Finocchietto Selvatico, dal sapore dolce e intenso, nell’Insalatina di Plantago Lanceolato e Sangina, e ancora nella vellutata Salvia, dai fiori viola, nel Timo, nell’elegante Aglio, nella Ruchetta, nel Fiore di Cappero, con i suoi frutti dal sapore deciso e penetrante, nella Mentuccia, nella Malva o nelle oltre 800 varietà di piante commestibili e terapeutiche esistenti in natura.

Molte delle erbe e dei fiori selvatici sono stati rivalutati da grandi chef, che li hanno inseriti in preziosi piatti di alta ristorazione, contribuendo a esaltare sapori antichi, di secoli passati. Si riscopre cosi, l’orto classico di una volta, quello che non mancava mai dietro la casa, con le sue verdure vive, perché prive di concimi chimici. Un’agricoltura che, dunque, non punta alla quantità ma alla qualità, alle tradizioni, ai sapori antichi, originari di una cultura contadina. E così si è ritornati alle preziose Minestrelle di Erbe, zuppe mai una volta uguali all’altra, perché prive di ricetta scritta che ne indichi dosi ed ingredienti, tramandate oralmente per secoli. Ed ancora, la Minestrella di Galligano, la Zuppa di Cascio, oggi molto apprezzate, sono due dei tanti validi esempi che si potrebbero fare.

Riscoprire le piante selvatiche è riappropriarsi di una sorta di grammatica propria del territorio, di una vocazione tramandata per secoli ed oggi fortemente compromessa. Infatti non tutti vedono le piante come suggestioni di bellezza della terra, saggezza e intelligenza di comunità, perché non è facile legare una economia consumistica, basata sulla produttività, al destino della terra e alla ciclicità delle stagioni, dove nulla si può avere di più del necessario. Ecco che, amare le erbe selvatiche significa appunto, ridare valore all’ambiente naturale e ai suoi percorsi spontanei. Anzi, pare che lo spontaneo non ci interessi più, non ci interessa più uno sviluppo assieme alla Natura, all’ordine naturale delle cose, ma si vuole forse un altro Uomo e un’altra Terra, reinventati non si sa sulla base di quali principii.

Per altro verso, molte sono le proprietà terapeutiche delle erbe selvatiche, delle quali l’uomo si è avvalso sin dall’ origine dei tempi, e i guaritori naturali, rappresentano un pezzo importante della medicina dei semplici. Essere curati attraverso le piante vale a dire staccarsi da una medicina allopatica, basata sulla sintomatologia e sull’ assunzione di principi attivi chimici, atti ad eliminare tali sintomi, per prendere in considerazione una prevenzione più ampia, basata su un apporto costante di elementi, che si attivano a proteggersi, attraverso una naturale complementarietà con le piante, le quali sintetizzano, per la loro protezione, le stesse sostanze che proteggono noi.

Già nella medicina antica la malattia era vista come una mancanza di sintonia del corpo con la natura e ricorrendo, a volte ad aspetti ritenuti magici, si cercava di restaurare la comunicazione. Qui, le erbe selvatiche erano un mezzo importante per ritornare in questa “simpatheia”, dal greco sentirsi insieme, all’unisono, concordi cioè in armonia con gli elementi attraverso gli elementi stessi.

In tale prospettiva, originariamente erano le donne le depositarie della scienza delle erbe; conoscevano i tempi di raccolta, che di solito combaciavano, ad esempio, con la notte di San Giovanni, tra il 24 e il 25 giugno, o seguivano le fasi lunari, perché era pensiero comune che vi fossero momenti in cui le piante avessero maggiori poteri. In passato, infatti sarebbe stato facile, girando in queste notti particolari per selve e boscaglie, imbattersi in cerimonie con fuochi accesi, intorno ai quali si consumavano riti legati alla fertilità, con danze sfrenate e benedizioni di donne guaritrici, anche poco o per niente vestite, poiché la nudità delle raccoglitrici, si riteneva, aumentasse il potere della raccolta. E tutto era chiesto agli Dei, nulla poteva l’Uomo senza il loro benestare. Ogni forma di vita presa in sacrificio per l’uomo andava benedetta con gratitudine e rispetto, perché rappresentava un dono.

Questa bella fiaba fu per secoli quotidianitá, fino alla comparsa del cristianesimo che relegò un Dio in un cielo lontano e il rito divenne una prerogativa solo maschile e di pochi eletti. Il popolo perse così, il potere della comunione diretta con il divino e alla donna si tolse il simulacro della religiosità e l’idea della Dea Madre Terra. Tutto ciò per riempire monasteri prima e conventi dopo, di questa scienza, quella appunto delle erbe officinali. Da quel momento in poi saranno i monaci e i frati a detenere questa sapienza, e le donne che tentavano ancora di tramandare questa antica saggezza venivano arse vive sui roghi, accesi appositamente per sconfiggere questo retaggio ancestrale. Nasce la caccia alle streghe, alle quali vengono fatti confessare, attraverso inverosimili torture, poteri demoniaci impossibili e impensabili. Di fatto, dietro vi era un processo di trasferimento di saperi e poteri legati alle erbe selvatiche.

      Ma chi erano in realtà le streghe? Oggi lo sappiamo: erboriste, levatrici, guaritrici, specializzate in quelle affezioni tipiche del mondo femminile, quali mestruazioni, gravidanze, parti e aborti. Donne preparate in rimedi tratti dalla conoscenza, molto approfondita di erbe e fiori, che per questo, al bisogno, sapevano diventare anche assassine. Perché pensare che la magia come l’erboristeria fosse solo votata a pratiche pacifiche sarebbe sbagliato, poiché le pratiche magiche sono da sempre uno strumento utilizzato sia nella difesa quanto nell’attacco e le piante possono guarire quanto uccidere. Ma questo è un altro grande capitolo legato alle erbe selvatiche…..

 

Antonella Ventura

 

martedì 13 aprile 2021

Recensione n°19: …e continua lo slalom di Anna Troso – di Mauro Ragosta


         Da venerdì prossimo, 16 aprile, sarà in libreria l’ultimo lavoro di Anna Troso: Incontro Con Alcuni Autori del ‘900 – citazioni, epistolari, racconti edito in circa 120 pagine da Salento d’Esportazione, un’associazione sorta nel 2013 e nota, tra le altre, per la sua missione di avviare nel mondo dell’Arte, lo Spettacolo e la Cultura coloro che in qualche modo sono alle prime battute della propria attività di letterati, saggisti, pittori, musicisti.

            In effetti, la “Nostra” Troso dopo aver pubblicato nel 2020 quattro libri per una ristretta cerchia di lettori, non solo amici e conoscenti, ma anche appassionati della lettura in genere, nel 2021 esce con questo nuovo testo, Incontro Con Alcuni Autori Del ‘900 appunto, in una prospettiva di più ampio respiro e in soluzioni più ricercate, non solo sotto il profilo grafico, ma anche sul piano contenutistico della sua proposta.

            Non è fuor di proposito qui citare i suoi precedenti lavori, al fine di inquadrare meglio il progetto complessivo di Anna, che ha avviato questa serie di pubblicazioni con la “scusa” del lockdown, il quale, se ufficialmente le avrebbe consentito di dedicarsi nel metter ordine alle sue riflessioni e alla sua attività di lettrice accanita, attraverso infatti una serie organica di appunti ed elaborazioni fissate su carta, in sostanza le ha permesso invece di approdare ad una vera e propria nonché compiuta proposta culturale e di lettura di sicuro rilievo, almeno con riferimento al panorama salentino.

            Ed ecco che i soli titoli della precedente produzione offrono d’emblée una visione chiara di come s’è posta la “nostra” Troso nei confronti del suo pubblico:

-       Frammenti e suggestioni d’arte (giugno 2020);

-       Quando l’arte è donna (agosto 2020);

-       Amori e passioni nella Parigi del Novecento (settembre 2020);

-       Dialogo con me stessa: ricordi, pensieri, osservazioni, riflessioni (dicembre 2020)

            In effetti, tutta la sua produzione verte su un complesso di mozioni, idee, istanze e proiezioni, che mettono al centro dell’attenzione del lettore il mondo culturale in ambito nazionale ed internazionale di metà Novecento, proprio quando si registra il massimo splendore della cultura d’élite, quando i personaggi che la costellarono furono tali da instillare negli italiani il “sogno” di essere un intellettuale o un letterato. Sogno oggi realizzato essendo il mondo della letteratura e dell’arte prerogativa di una parte importante della nostra società. E in tale operazione, la “Nostra” Troso non si pone in chiave nostalgica, ma ne dettaglia meglio i contorni e le sfumature della vita di coloro che segnarono la storia di quegli anni, e che per molti ancora non hanno contorni definiti, nitidi e chiari, da una parte, e dall’altra hanno poca contezza del vero spessore di quelle vite.

            E se quindi nei suoi primi quattro libri, Anna Troso appare incerta in questo progetto complessivo, con quest’ultimo procede alla quadratura del cerchio. Appare chiarissimo che dal titolo scelto dalla nostra autrice, ovvero Incontro Con Alcuni Autori del ‘900 – citazioni, epistolari, racconti, ella definisce con esattezza il suo campo d’interesse, la sua proposta di lettura, e nello specifico, il suo contributo al mondo letterario salentino.

            E proprio in riferimento a quest’ultimo punto, va marcato con forza che la “nostra” Troso si pone come una vera novità della letteratura locale, che sul piano saggistico poca considerazione ha avuto nei confronti del contesto letterario nazionale ed internazionale, ovviamente escludendosi l’ambito degli accademici.

            E così Anna in quest’ultimo lavoro, con stile letterario sobrio, non banale ed escludendo i superflui virtuosismi, ci narra, tra gli altri, degli amori tra Italo Calvino ed Elsa De Giorgi, tra Giorgio Manganelli e Viola Papetti, tra Oscar Wilde e Alfred Douglas. E tutto ciò attraverso i loro epistolari, quelle tracce intime, personalissime, che questi e molti altri personaggi di quel tempo hanno lascato di sé.

           Molto interessanti poi sono gli Omaggi che nel bel volumetto rosso vermiglio la nostra autrice dedica ad Ennio Flaiano, Albert Camus, Natalia Ginsburg, non mancando nella descrizione della vita di questi colossi della cultura internazionale, di citare molti dei loro preziosi aforismi.

            Ecco, insomma, il bel volume della Troso ci fa immergere nelle atmosfere dei letterati di metà Novecento, tra lusso, gran gusto estetico per la parola, ricercatezza per la scrittura, storie d’amore travolgenti e travolte dalla passione, ma anche impegno politico e sociale. Si potrebbe definire un volume d’evasione, dati questi nostri tempi oscuri, ed invece è una proposta quella della “Nostra” Troso che porta a riflessioni importanti proprio per il superamento di questa congiuntura socio-sanitaria, ma anche economico-politica, che pare non avere attualmente via di sbocco.

 

Mauro Ragosta


venerdì 9 aprile 2021

Saper Comunicare (parte decima): il valore della parola – di Mauro Ragosta

 

            Nella parte sesta della presente rubrica, si sono già evidenziate molte delle problematiche connesse all’uso della parola, soprattutto per quanto riguarda la sua “gittata”, mettendo in guardia il lettore dall’utilizzare soprattutto i virtuosismi lessicali o le retoriche specialistiche spinte in contesti inadeguati. Uno per tutti è l’esempio di quando si discute con un medico, che non sa o non riesce a tradurre in termini semplici il suo dire, per ciò che concerne le problematiche del paziente, talché quest’ultimo poco comprende della patologia diagnosticata e dei relativi rimedi, che a questo punto più che consigliati sono suggeriti.

            In questa parte, invece, ci si intratterrà sulla pluralità di valenze che può avere un’unica parola, mentre si rinvia ad altra parte per trattare l’uso di parole, anche molto diverse tra loro, che indicano invece sempre la stessa cosa o situazione.

            Ora, la circostanza che una parola abbia significati diversi, frequentemente genera confusioni babeliche, a volta anche drammatiche, se non proprio tragiche. Infatti, accade che gli interlocutori pur utilizzando la stessa parola ne attribuiscono significati diversi, senza prendere atto di questa loro diversità di posizione. Il primo caso eclatante si ravvisa nell’uso della parola “amore”, che ha una declinazione molto ampia. Infatti, un religioso utilizza la parola amore in varie accezioni secondo il suo culto. In ambito cristiano essa ha talvolta il valore di donazione di sé, ovvero di completa rinunzia alla propria volontà, talvolta di aiuto e sostegno, talaltra di assunzione a guida dell’altro.

            Ecco che, una persona che si rifà alle valenze religiose della parola amore, in genere si scontra con una persona di cultura laica che utilizza sovente questa parola per mettere in luce le sue emozioni o le sue impellenze istintive. E ancora poco si comprenderà se nella conversazione si dovesse aggiunge una persona di buona borghesia, che con la parola amore evidenzia soprattutto la propria struttura di bisogni e necessità di varia specie.

            Ed ancora, anche in ambito politico bisogna stare molto attenti. Qui la retorica delle varie fazioni ricorre a certe parole, forse le più importanti e comuni, in una accezione e in una prospettiva completamente diverse e distanti. Così la parola “libertà” che per un liberale significa poter fare quello che si vuole per raggiungere la propria felicità, per un comunista libertà è la possibilità di azzerare la proprietà privata e dunque il padrone, mentre ancora per il fascista la libertà attiene al culto dello Stato. In tale ambito anche il termine “uguaglianza” ha valenze diverse, dove per i liberali è quella il godere degli stessi diritti, dove nella variante di sinistra si aggiunge che per il cittadino si debbano avere anche  le stesse basi di partenza o di arrivo, mentre per i comunisti più radicali l’uguaglianza attiene prevalentemente alle condizioni materiali e, in varianti spinte, all’uguaglianza di tutti i salari, senza distinzione tra chi comanda e chi è subordinato (famoso in ciò è stato Mao Tze Tung).

            Esempi se ne potrebbero fare a bizzeffe, ma concludiamo questa breve carrellata coi termini “medicina” e “medico”. Nell’accezione popolare queste parole attengono alla medicina allopatica, che si presenta diversa dalla medicina olistica o da quella naturalistica o ancora da quella orientale. Inutile nascondere che esiste segretamente una vera battaglia tra i vari sostenitori, di cui il cittadino medio poco comprende. E così i medici ufficiali, che praticano la medicina allopatica appunto, esaltano i loro risultati e il valore della scienza, anche se la medicina non è una scienza, dall’altra, invece, le altre fazioni di medici, mettono in luce i limiti “dell’avversario” ed esaltano i propri metodi e rimedi. In tutto questo, sovente, regna ovviamente la confusione e l’incapacità, dunque, di comunicare proficuamente tra le persone.

            Prima regola nella conversazione, dunque, è quella di accertarsi quale valore abbiano le parole più importanti di un dire, se queste ovviamente presentano più valenze ed accezioni. Solo così si può stabilire un piano di riferimento formale comune che permetta di comunicare in maniera efficace. È vero, forse con tale pratica la conversazione potrà subire dei rallentamenti, ma di sicuro si eviteranno molti malintesi, che spesso la rendono completamente nulla, anzi…….dannosa per la stessa relazione tra gli interlocutori.

            Va da sé che, come da tradizione, Maison Ragosta offre con i suoi “pezzi” ai lettori affezionati, solo degli spunti per una proficua riflessione e magari degli indizi per nuove e coinvolgenti letture, che tendano a dare completezza a quanto proposto e al proprio sistema culturale. Lungi dal voler essere esaustiva con i suoi componimenti, dunque, Maison Ragosta vuole porsi quale stimolo intellettuale, tanto utile in questo nostro Tempo, che richiede ragionamenti e idee sempre più raffinate.

 

Mauro Ragosta

 

Nota: chi fosse interessato alla produzione di saggi di Mauro Ragosta, può cliccare qui di seguito per le principali delucidazioni:
https://youtu.be/lhdKGKUfH6Q 

 


martedì 6 aprile 2021

Recensione n°18: John Gray e la sua “Filosofia felina - I gatti e il significato dell’esistenza” - di Paolo Rausa

 

Con questo saggio John Gray, scrittore e saggista statunitense, affronta il rapporto fra uomini e dei, sotto forma di gatti. Almeno così sembra, percorrendo la storia di domesticazione degli uomini da parte dei gatti, come egli sostiene. La loro presenza nell’antico Egitto risale al 4000 a.C. quando presero a frequentare gli insediamenti sul Nilo, cacciando e mangiando roditori e serpenti. A partire dal 2000 a.C. i gatti passarono in parte dallo stato selvatico a frequentare le abitazioni divenendo, scrive l’egittologo ceco Jaromir Malek in “The cat in Ancient Egypt”, animali domestici, anzi addomesticandosi da sé. Successivamente tra il 1000 e il 350 a.C. iniziarono ad essere venerati col nome della dea Bastet. Gli egiziani, di religione animista, ritenevano che gli umani non fossero stati creati per dominare la terra ma come esseri al pari di tutti gli altri viventi. Fra i compiti assegnati loro immaginavano che fossero psicopompi, ovvero che accompagnassero le anime dei defunti. In questo modo, dice l’autore, “erano un’affermazione di vita in un mondo ossessionato dalla morte”. Le cose cambiarono con il cristianesimo e con il medioevo, quando venivano associati alla notte come accompagnatori delle streghe nei sabba, convegni con il demonio. Perciò subirono spesso delle vere e proprie persecuzioni e crudeltà da parte del popolo timoroso di dio e del buio della morte, di cui si riteneva che i gatti fossero i custodi. 

 “Poiché incarnano una libertà e una felicità che gli umani non hanno mai conosciuto, i gatti sono entità estranee al nostro mondo”, ecco perché l’atteggiamento umano nei confronti dei gatti è stato di ammirazione per la loro autonomia e per la loro “atarassia” congenita. John Gray attraversa il pensiero filosofico alla ricerca di risposte alle domande esistenziali dell’umanità, sulla felicità, sull’amore verso gli altri e degli altri verso di noi, su cosa significhi comportarsi da uomo giusto, sulla nostra fragilità e instabilità, sulla sofferenza a causa della perdita delle persone care, indagando il pensiero occidente greco romano, l’epicureismo e lo stoicismo, Spinoza e Montaigne, Pascal e Schopenhauer, il tao e il buddismo, ma per lo più la nostra ansia di sopravvivenza dopo la morte che domina la nostra vita. E allora cerchiamo risposte nella affermazione personale, nel potere dispotico, pensando che riempirsi la vita di impegni serva a non pensare ad altro, a quello che succederà. “E se fossero i gatti i veri maestri di vita?”, si chiede John Gray. Analizzando la loro esistenza, troviamo modalità che potremmo con successo applicare alle nostre vite, perché i gatti non conoscono l’ansia e l’angoscia di vivere, gestiscono con saggezza i rapporti con gli altri esseri viventi e con gli umani, affrontano con dignità la morte. I gatti di molti scrittori, quello di Montaigne, Meo sopravvissuto al Vietnam, Saha ne “La gatta” in Romanzi e racconti della scrittrice Colette, Timo nel romanzo “Il viaggio di Sama e Timo” di Miriam Dubini, sono testimonianze di rapporti affettivi e intensi. Che cosa hanno intravisto gli scrittori nell’amore passionale per i gatti? Questi animali sono in grado di offrire ciò che gli umani non sanno dare.

 Per l’autrice americana di romanzi e racconti, Patricia Highsmith: “una compagnia senza pretese e senza intrusioni, riposante e mutevole come il movimento appena percettibile di un mare tranquillo.” Per i gatti il fatto di esistere è importante in sé, invece gli umani cercano un significato oltre la propria vita, per cui hanno inventato religioni e filosofie per dare significato alla loro vita oltre la loro scomparsa. La differenza fra noi e i gatti è che loro non hanno nulla da imparare da noi, invece noi “possiamo imparare ad alleggerire il peso che accompagna la condizione umana”. In questo senso possono farci da maestri, perché non rimpiangono le vite che non hanno vissuto. Il saggio si conclude con dieci suggerimenti che l’autore offre ai lettori condensando la saggezza felina in dieci punti da seguire con leggerezza e consapevolezza, senza fuggire il mondo ma fissandolo negli occhi e abbracciandone la follia e soprattutto lasciandosi andare all’aroma della vita, suggendone la bellezza fugace.  Filosofia felina, Mondadori Libri S.p.A, Milano, 2020, pp. 201.

 

San Giuliano Milanese, 04/04/2021

                                                                                              PAOLO RAUSA