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mercoledì 23 febbraio 2022

Recensione n°21: l’ultimo lavoro di Anna Troso …in crescendo – di Mauro Ragosta

 

            È da pochi giorni in libreria l’ultima pubblicazione di Anna Troso, già nota ai lettori di Maison Ragosta per i suoi temi così intriganti e che incuriosiscono soprattutto i più esigenti. Questa volta il focus dell’azione letteraria della Troso si sposta sulle origini del mondo dell’Alta Moda del Novecento, dettagliando la vita e le problematiche delle due principali stiliste, dalle quali “tutto parte” per dare luogo alla moda di oggi, alla nostra.

            Il prezioso volume della Troso, edito da Salento d’Esportazione, già nel titolo mette in luce il gran fermento nel mondo dell’Haute Couture dei primi del Novecento, tempo di grande rivoluzione nel sistema socio-economico dell’Occidente, il cui epicentro nell’ambito del comparto tessile e dell’abbigliamento, vede Parigi, quale capitale e metropoli indiscussa e trainante in tutto il Mondo.

            E così, Anna Troso, dopo aver esordito nel 2020, e nel 2021 aver portato a termine due splendidi lavori, in un crescendo di qualità, quest’anno propone Coco e Schiap – due splendide rivali di un’irripetibile Epoca. Qui si sottopongono al lettore, ripercorrendone le tappe fondamentali, le vite delle protagoniste indiscusse per la moda femminile, del Novecento: Gabrielle Chanel detta Coco ed Elsa Schiaparelli detta Schiap.

            Alla prima sono da ricondursi il famosissimo “tubino” e le magliette alla marinara nonché l’intramontabile profumo “Chanel n°5” come anche l’introduzione del pantalone svasato per la donna. Ad Elsa vanno altri primati, tra i quali il golf con scollatura a V, ma anche l’ingresso nell’alta moda del “Rosa Shocking”. Va da sé che la produzione delle due stiliste fu enorme e segnante, tale da svecchiare i costumi ottocenteschi delle donne, per adeguarli alla moderna cultura metropolitana ed internazionale della donna dell’upper class europea, fatta di ritmi più veloci e di un ventaglio di interessi decisamente più ampio rispetto al passato.

            Si potrebbe pensare che il prezioso lavoro della Troso sia tutto al femminile e solamente per le donne. Ed invece no! La lettura di Coco e Schiap costituisce uno spaccato indispensabile da conoscere sotto i profili non solo del costume, ma anche del grande meccanismo della moda, ed in particolare dell’Alta Moda, che oggi in Italia è uno degli assi portanti della sua economia.

            Ma c’è di più. Nel bel volume della nostra scrittrice leccese, particolare risalto viene dato al complesso degli artisti, dei poeti e letterati, dei musicisti, degli aristocratici, ma anche agli uomini di potere e di Stato che intersecarono le vite delle due stiliste a vario titolo. Due protagoniste, che in qualche modo furono rivali, ma che nella buona sostanza interpretarono la donna moderna sotto angolazioni completamente diverse e non  necessariamente concorrenti: Coco puntava alla linearità, la Sciap si proponeva in chiave molto più artistica ed elaborata, rimanendo tutte e due sul piano delle esigenze della donna moderna.

Due donne di estrazione sociale molto diversa (Elsa era un’aristocratica italiana) che hanno lasciato un segno e un’eredità imponenti. Va infatti sottolineato che Maison Chanel è oggi, dopo il rilancio negli anni ’80, con Carl Lagerfeld prima e Virginie Viard, poi, la più importante casa di moda nell’ambito del Luxury a livello mondiale, mentre in fase di fortissima ascesa è la “Maison” Schiaparelli, ad opera di Diego della Valle, che nel 2014 ha rilevato le strutture produttive e il marchio.

Insomma, la Nostra Anna in quasi duecento pagine, oltre che descrivere più aspetti, anche quelli più intimistici, delle due note stiliste, che gravitavano attorno a Place Vendome a Parigi, riesce a far immergere il lettore in atmosfere “da sogno” ed in particolare di quelle della prima metà del Novecento, tra i respiri e i fermenti del Liberty, la nuova arte, con in testa Salvator Dalì, gli intrecci politici e nobiliari, che caratterizzarono l’upper class europea.

 

Mauro Ragosta

giovedì 17 febbraio 2022

Saper fotografare (parte terza): storia di un fotografo …continua – di Mauro Ragosta

         Spesso la vita ti prende tanto dolcemente che tu non te ne accorgi se non molto tempo dopo, a volte anni, quando oramai non ti è consentito più tornare indietro dal mondo nel quale lei ti ha inserito. Così fu per me che non compresi subito il valore e la portata di quel piovoso martedì del marzo 1983. Non ebbi alcun sospetto, e per lungo tempo, che quell’incontro, quello con l’attrezzo fotografico e dunque col mondo della fotografia, fu il primo di una serie interminabile di giornate passate con lui e tutti i suoi accessori. Certamente, come le grandi storie d’amore, la relazione con la parte amata è come ad un elastico che a tratti si accorcia e a tratti si allunga, a volte si tende, altre si addolcisce, non mancando lunghe pause e silenzi e assenze, che si contrappongono a notti infuocate di passione.

         Ad ogni modo, due settimane dopo quel fatidico incontro, Raffaele, il mio compagno di camera, lì a Napoli dove frequentavo la Facoltà di Economia, un lunedì si palesò con una “vera” macchina fotografica, una fiammante reflex che suo zio gli aveva imprestato per qualche tempo. Non era un attrezzo di grido, come una Nikon o una Canon, o meglio ancora come una Leica o una Contax, o addirittura come una Rolleiflex o una Hasselblad, ma neanche un tipo di marche più abbordabili ed economiche, come la Yashica o la Olimpus. Era una Zenit, una fiammante Zenit di produzione russa, che costava circa ottantamila Lire. Molto economica rispetto alle altre, ma l’aspetto -almeno così m’apparve- era proprio quello di una reflex importante. Il suo prezzo era di molto al di sotto rispetto a quello di una ordinaria, che variava partendo da trecentomila Lire per superare il milione di Lire e a volte i milioni di Lire, ma aveva tutto quello che mi interessava: il mirino col pentaprisma e il pulsante di scatto. E questo bastava!!!

            Nei giorni seguenti, nel tempo libero, mente mi divertivo a guardare la Realtà dalla finestrella della fotocamera, mi feci spiegare i rudimenti tecnici per realizzare una fotografia. Così seppi che bisognava sempre misurare la luce e decidere la coppia di diaframma e di tempo dello scatto. Nelle settimane che seguirono cominciai ad acquistare i giornali specializzati, come Fotografare, Reflex, Il Fotografo, e leggendoli appresi che esistevano diversi obiettivi, che si identificavano con la distanza tra la lente e la pellicola. Ognuno di essi offriva una versione diversa della Realtà, e la “questione” mi intrigò ancora di più: diverso era osservarla con un obiettivo da 50 mm, rispetto a quella offerta da un 135 mm o un 28 mm e via dicendo.

Non tardò molto tempo quando acquistai un rullino da 36 fotogrammi per fare i primi esperimenti. Qui, immediatamente si palesò la grande delusione, quella che segue l'innamoramento e ti permette di entrare nel mondo dell'amore! Quello che vedevo dal mirino non coincideva con la foto stampata su carta fotografica. Insomma, le emozioni che mi dava la Realtà vista dal mirino della Zenit non coincidevano con quelle che dava la stampa dell’immagine impressa sulla pellicola e trasportata su carta fotografica.

E la cosa si complicava: di fatto ero impedito a poter conservare quelle emozioni che mi aveva provocato la Realtà vista dal mirino. Ecco, ero impossibilitato a proiettare per lungo tempo quello che la Realtà mi concedeva tramite la Zenit.

Insomma, con sempre più insistenza, mi interessava proprio questo, ovvero congelare, fissare, rendere “immortali” certi momenti vissuti con la Zenit e per mezzo della Zenit, ma ciò non pareva possibile. E così le illusioni che produceva e concedeva l’attrezzo fotografico, come nascevano così morivano, avevano una vita effimera…istanti, solo istanti, che dovevo lasciare andare: cercavano e ottenevano la loro libertà!

            La vita dietro la fotocamera, poi, in breve tempo si era trasformata in una vita parallela, che, come quella reale, non poteva essere fissata, ma al contrario di questa, la vita “alternativa”, la vita delle illusioni aveva qualche spiraglio operativo e d’azione per la sua fissità e fissazione, in virtù delle opportunità tecnologiche che il grande mondo della fotografia offriva.

            La possibilità di fissare e riprodurre un’illusione mi apparve subito una questione di capitale importanza nella mia vita.  La Realtà, d’altro canto, non filtrata dalla fotocamera era in parte oramai noiosa, in parte troppo dolorosa. E poi, l’università a quel tempo non dava più alcuna emozione: studiavo meccanicamente come ad un operaio con un salario garantito: sapevo lavorare, lavoravo e guadagnavo poco rispetto alle mie aspettative: il 30/30 non mi bastava più, mentre l’attrezzo fotografico, col suo mirino dava emozioni, anche importanti, e a ripetizione.

            Sicché, il vero problema che si pose in quel tempo della mia vita napoletana ed universitaria, fu quello di eternare, ed in definitiva dominare, le illusioni di pregio che offriva la Realtà vista dal mirino della Zenit. Vivere di illusioni, dunque? Volevo questo? Ebbene, sì! …e capii subito che quella era una possibilità per farla franca rispetto alla Vita…

Mauro Ragosta (2310)

giovedì 3 febbraio 2022

Saper Fotografare (parte seconda): storia di un fotografo… – di Mauro Ragosta

 

            Prima di addentrarci nelle questioni rilevanti dell’arte del fotografare, vale la pena raccontare in maniera problematica la storia di un fotografo, la mia per l’appunto, per osservare e comprendere le principali situazioni e vicende che ci si può trovare davanti durante l’esperienza con gli attrezzi fotografici. Certamente, la storia di cui si narrerà non sarà esaustiva di tutti i nodi dell’arte, ma sicuramente ne metterà in luce alcuni di particolare rilievo, soprattutto per chi si accinge alla carriera di fotografo nella prospettiva più squisitamente artistica, o comunque senza pretese professionali o commerciali, richiedendo queste ultime considerazioni diverse e ulteriori.

            Narrerò la storia in prima persona, affinché il lettore di Maison Ragosta possa immedesimarsi con più pregnanza in quelli che sono i problemi, il sentire, le aspettative, le difficoltà, le gioie e le sconfitte, legate all’arte fotografica, dove le contingenze storiche mai devono mancare, giocando sovente un ruolo decisivo.

            Correva il marzo del 1983 e nel primo pomeriggio di un martedì uggioso, ricolmo di nubi e una sottile pioggerellina, noi universitari leccesi trasfertisti a Napoli, chiacchieravamo dopo aver pranzato in orario molto tardo, intrattenendoci seduti tutti attorno al tavolo della cucina. Ad un tratto, comparve il quarto inquilino di quella casa in via Altamura, sita al Vomero: Massimiliano. Lui era l’unico napoletano in casa, era avanti con l’età in qualità di studente -aveva forse 29 anni- e frequentava ancora la Facoltà di Architettura. Più che l’impegno universitario, il caro Massimiliano, in verità, amava molto le donne e la bella vita, approfittando a piene mani della benevolenza del padre, un ricco imprenditore partenopeo.

Si presentò in cucina con in mano una bellissima macchina fotografica: una Canon. Da persona benestante e alla ricerca delle più disparate esperienze di vita non poteva non praticare la fotografia, esercizio a quei tempi prerogativa di chi disponeva di danaro in maniera più che sufficienza. Di certo, molti, ma non tutti, al tempo avevano piccoli attrezzi fotografici da utilizzare nelle “feste comandate” o per qualche gita fuoriporta. Lui, Massimiliano, invece, usava la macchina fotografica, la reflex, in tutte le occasioni, con la scusa che per fare progetti e quant’altro legato ai suoi “lunghi studi”, bisognava essere molto abili nel suo utilizzo. Sicché, si esercitava.

            L’atmosfera, in quella cucina al terzo piano di un anonimo palazzo napoletano, era molto distesa e la conversazione fluiva agilmente e in maniera soddisfacente, quando la mia attenzione cadde prepotente sul quella Canon. E fu naturale chiedere a Massimiliano di farmi dare un’occhiata più da vicino a quella che al tempo era tecnologia avanzata e simbolo del benessere e del lusso. Lui, il baronetto napoletano -così lo appellavamo- acconsentì ed io ebbi per la prima volta tra le mani una reflex. Avevo 23 anni e non nascondo che quando l’apparecchio fu in mio possesso sentii una forte emozione e, assieme, un certo imbarazzo: era una novità nella mia esistenza, che mi spinse ad un fare circostanziato, prudente e -perché no?- anche di grande reverenza… verso l’attrezzo, ovviamente.

            Da lì il passo di guardare nel mirino fu breve. Fu un attimo quando posai l’occhio sul bordo della piccola finestrella. E così, mi avvicinai all’attrezzo e caddi nell’affascinante quanto seducente e meraviglioso mondo della fotografia. Resistervi? E chi ero io per vocarmi a simile santità?

         Guardare la Realtà dal mirino della fotocamera mi ammaliò immediatamente. Da quel mirino la Realtà era qualcosa di diverso, era più bella, compatta, confortante, dava all’essere una certa forza in termini esistenziali. Tutto attraverso quel mirino appariva molto più entusiasmante. La Realtà, quella circoscritta, proprio come accade guardando attraverso la “finestrella” della fotocamera, si presenta, infatti, sempre come un universo compiuto, perfetto in sé, dando così all’osservatore l’idea di possederla pienamente, la sensazione di forza e dominio della stessa. Insomma, dietro la fotocamera ci si sente, allo stesso tempo, vivi e potenti, come io in effetti mi sentii.

            Guardare dal quel mirino significava far quadrare un cerchio che viceversa non quadra mai, rendere qualcosa imperfetta ed ineffabile in qualcosa totalmente definito… Ecco, quella Canon mi diede l’impressione di possedere la Realtà, che sino ad allora era stata per me sfuggente, imprendibile, non contenibile, equivoca. Un’illusione? Sicuramente, come sicuro apparve subito la decisione di abbandonarmi alla tentazione, alla lusinga, alla velleità che offriva l’attrezzo fotografico.

Di lì a poco restituii la Canon, marchingegno che per me fu sin da subito vettore di magie, e la riunione pomeridiana …di quel pomeriggio bigio, nuvoloso, ma che segnò irreversibilmente la mia esistenza… si sciolse in maniera disinvolta.

            Andammo a letto presto quella sera e, mentre scambiavamo le ultime battute col mio compagno di camera, un certo Raffaele, posi il quesito di come fare ad avere una reflex per fotografare. Volevo fotografare. Volevo avere una relazione più profonda con quell’attrezzo, il cui sortilegio mi aveva irrimediabilmente stregato. Ad ogni modo, dopo qualche minuto chiusi gli occhi e mi addormentai…

 

…a fra 15 giorni

 

Mauro Ragosta (2310)

 

Ph: F.M.