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giovedì 30 gennaio 2020

Stile e buongusto (parte ottava): Appunti sull’uso dei titoli… - di Mauro Ragosta

         In un’epoca di transizione come la nostra, anche l’uso dei titoli accademici, di studio e di status deve essere soggetto a rivisitazione. A tal riguardo, l’ultima riqualificazione è stata fatta circa 70 anni fa, con la fine del Regno d’Italia e l’insediamento della Repubblica. E ciò sia per motivi politici, ma anche per questioni sociali. Infatti, l’Italia di cento, centovent’anni fa, ancora profondamente legata al mondo agricolo e in una fase di decollo dell’industria. non era quella di oggi, postindustriale ed opulenta. E, al cambiamento socio-economico e politico, si associa anche il mutamento dei costumi, e da qui, anche quello dell’uso dei titoli, dove quest'ultimo, attualmente, pare stia mostrando i suoi primi segni evidenti.
A tal proposito, è bene marcare sin da principio che, oggi, l’appellativo di dottore va nella maggior parte dei casi eliminato, Il titolo di studio, pur avendo valore legale, non rappresenta più una nota distintiva, indicativa del proprio grado culturale né tantomeno del proprio status e retroterra familiare. A ciò, basti considerare ed elaborare che, se fino agli anni ’80 del secolo scorso il numero dei laureati in Italia non superava il 3% della popolazione, oggi questi ascendono ad oltre il 20%. Mentre prima il laureato era destinato alla dirigenza, oggi non più, avendo l’università quasi esclusivamente il compito di alfabetizzare la popolazione. In più, va tenuto conto che, circa l’80% della popolazione italiana è analfabeta sotto il profilo funzionale e cioè sa leggere, scrivere e far di conto, ma non capisce con esattezza quello che dice e si dice, quello che legge. Gran parte della popolazione, in più, non utilizza e conosce più di mille, millecinquecento parole, quando va bene. Da qui è facile capire che il titolo di dottore non è distintivo e non è garanzia di un certo status socio-culturale e professionale, e rappresenta di fatto ben poca cosa. Al riguardo, sono altri gli indicatori circa la propria professionalità e la propria cultura, ma anche il proprio status sociale. Va da sé, che quanto sottolineato non implica che non siano necessari gli studi universitari, anzi…….tutt’altro, anche se oggi hanno un significato diverso rispetto agli anni ’30 o ’60 del secolo scorso.
         Analoghe considerazioni si possono fare per quanto riguarda i titoli di avvocato, farmacista, giornalista, medico, i quali sono da utilizzarsi nelle varie circostanze lavorative, ma non oltre, data la grande inflazione, che ne annulla ogni valenza sul piano sociale e relazionale. Diversa è la situazione per i notai, rappresentando questi una ristretta casta, tutti con redditi elevatissimi e un background familiare quasi sempre di primissimo livello. In questo caso, il titolo è effettivamente distintivo ed indicativo, anche se come vedremo, la persona di buon gusto, di grande stile, nelle situazioni informali e conviviali ama più nascondersi che mettersi in mostra, più farsi scoprire anziché dichiararsi.
         In tale prospettiva, fuori da ogni contesto è il tentativo rimettere in ballo gli antichi titoli nobiliari, peraltro senza alcun valore legale, in Italia, con la nascita della Repubblica. Nella stessa direzione bisogna considerare i titoli di appartenenza ad ordini cavallereschi, massonici e laico-religiosi (come quelli di appartenenza all’Opus Dei ed assimilati) da utilizzare in ristrettissimi ambiti e con estrema parsimonia e discrezione. Circa i titoli religiosi e le cariche dello Stato si consiglia la massima attenzione, per motivi facilmente comprensibili. Diversa è la questione per la qualifica di presidente. Al riguardo, va considerato che molti posteggiatori abusivi, accattoni e questuanti vari, qualificano il proprio “benefattore” col titolo di presidente, dal momento che di questo titolo se ne fa un uso indiscriminato ed vi è un proliferare spropositato di tale attribuzione, talché oggi non evidenzia più alcunché.
         Per finire va considerato il titolo di professore, che aveva un alto valore distintivo fino agli anni ’70 del secolo scorso, ma che dopo l’innalzamento dell’obbligo scolastico e la grande e popolare espansione dell’università negli anni ’90, in termini di incarichi e formazioni di cattedre, ha perso molto della sua carica di significati distintivi e non è più indicativo di uno status sociale, culturale ed economico.
         Sull’argomento v’è ancora molto da dire. Qui ci si limitata all’essenziale, e per il resto viene demandato alle capacità deduttive del lettore, che potranno esercitarsi durante la lettura di questo testo, per definire le ovvie implicazioni.
         A quanto esposto, conviene aggiungere che, con riferimento alle circostanze lavorative, qui va solo detto che è decisamente utile e funzionale nelle presentazioni, una volta “scansato” il proprio titolo, qualificarsi facendo riferimento esclusivamente alle funzioni aziendali o professionali o ancora istituzionali. Nel caso, invece, si presenti un terzo, evitare sempre di citare il titolo e quanto più possibile possibile le note curriculari, mentre sarebbe auspicabile esplicitare il vostro legame con la persona che state presentando e i motivi dell’incontro. Al riguardo, le note curriculari sono molto spesso controproducenti, perché l’attento interlocutore sa che sovente sono annacquate e quindi scarsamente indicative. In ogni caso rappresentano una forma di sfoggio decisamente sgradevole. Altamente indicativo sono, invece, il linguaggio utilizzato, e di seguito, le sequenze logiche del proprio dire, la scelta dei contenuti, l’estro e la creatività, che definiscono le vostre e le altrui posizioni in termini economici, culturali e sociali. In tale direzione evitate un linguaggio artatamente aulico e cercate di essere quanto più logici possibile: semplicità e profondità sono le carte vincenti.
L’assenza di caratterizzazione nelle prime battute di una relazione, non solo è chic, ma consente alla relazione stessa di costruirsi in maniera concreta ed efficace, ed anche significativa e soddisfacente per tutti.
Andando avanti negli accorgimenti da adottarsi, particolare attenzione bisogna porre al bigliettino da visita, che in genere va dato o scambiato alla fine dell’incontro, dopo che ci si è conosciuti. Qui, la persona di buon gusto si doterà di due bigliettini da visita, uno per gli incontri di lavoro, sul quale dovrà indicare, oltre al nome e cognome, anche la sua professione o il suo ruolo aziendale o istituzionale, nell’altro, quello per le occasioni conviviali, solo nome e cognome. In entrambi i casi, evitare di adottare i titoli, mentre invece, è di buon gusto, indicare sul bigliettino, in alto a destra, l’università presso la quale si sono compiuto gli studi.
    Di pessimo gusto è, al contrario, dotarsi di un bigliettino da visita costellato di troppe informazioni e magari presentarlo all’inizio dell’incontro, quasi ad avvertire l’interlocutore della propria grander……….
   E per concludere, anche succinte devono essere le informazioni circa i propri recapiti, che devono essere quelli strettamente essenziali. Se una persona vuole mettersi in contatto con voi, troverà il modo di farlo anche senza il vostro bigliettino, che è un fatto solo di pura cortesia e forma.
 
Mauro Ragosta

domenica 26 gennaio 2020

Recensione n°9: Il Caffè delle Rose, forse il lavoro più prezioso di Piero Grima – di Mauro Ragosta

             E mentre nel capoluogo salentino trionfano in particolar modo la narrativa e la saggistica orientate all’esaltazione degli esercizi erotico-sessuali, in tutte le salse, e dall’altra quelli pedagogici sui rimedi per le anime smarrite, perse, Il Caffè delle Rose di Piero Grima, originario di Bari, ma leccese di fatto, declina, in sartriana prospettiva, la condizione umana, quella di sempre, quella irrimediabilmente sempre uguale a se stessa.
   
 
             E’ un racconto, quello di Grima, Il Caffè delle Rose appunto, orfano del tempo, infatti. In nessuna parte del testo è possibile rintracciare quale sia il momento storico in cui si muovono i suoi personaggi. Assente si presenta non solo qualsiasi datazione, ma anche eventuali ed utili indizi tecnologici o riguardanti la moda e quant’altro, che possano riportare ad un tempo. E persino il bel volume edito da Salento Books di Nardò (titolare anche del marchio Besa) è avaro di riferimenti temporali circa la sua pubblicazione, che si riescono ad intercettare nel primo risvolto, con caratteri vicini al microscopico, in cui a malapena si riesce a leggere: 7/2018. Ma c’è di più. Non avendo un tempo, il racconto di Grima pare privo addirittura di un principio e di una fine.
            Per di più, anche le coordinate spaziali del racconto paiono ignote, prossime al mistero. Da alcuni indizi si intravede che i luoghi del racconto, con molta probabilità, siano in Italia, ma non si riesce a capire se al Sud o al Nord, e nello specifico se nel fiorentino o nel Salento. L’unica cosa che si sa è che tutte le scene del racconto si sviluppano in un piccolo centro abitato, dove però non sono assenti figure tipiche della città.
            Ed ecco che, mancante di spazio e di tempo, il racconto di Grima rimane sospeso, e come sospeso, senza perché, aleggia in questo il dolore della vita e per la vita. D’altro canto, Piero Grima, da attento osservatore coglie, in ciò, soprattutto la sospensione del popolo italiano, che dimentico del suo passato, galleggia, rimane in bilico in un presente, che proprio per questo è privo di un reale senso.
            E' dunque, in questo scenario sconosciuto, metareale, che Grima, con sapiente e raffinata scrittura, per nulla riconducibile alla tradizione salentina, né alle sue alchimie contemporanee, narra le vicende di Geremia, la figura principale e portante, e dei suoi compagni di viaggio, sotto il profilo esistenziale, dove tutti si muovono attorno al Caffè delle Rose, che, a dire dell’autore, esiste nella realtà.
            Se questo lavoro di Grima si dovesse paragonare ad un brano musicale, non si farebbe fatica ad accostarlo ad Adagio For Strings di Samuel Barber. Il Caffè delle Rose offre una lettura che scorre veloce sino alla fine, perché terribilmente affascinante e, allo stesso tempo, decisamente melanconica, senza mai tracimare, tuttavia, nella tristezza. E ciò possibile, in parte per lo stile letterario che utilizza qui il Nostro Grima, decisamente sapiente e che, in ogni caso, si richiama ai più noti scrittori francesi ed americani dei primi decenni del Novecento, in parte perché dietro ogni soggetto del racconto si cela una parte del lettore, di noi. Ma Grima va oltre, e, nel suo Il Caffè delle Rose, lascia intravedere, sebbene solo all’occhio attento e all’intelletto raffinato e colto, i grandi e sconosciuti meccanismi portanti del Mondo Occidentale, peraltro riassunti, qui e lì, in poche battute, favorendo il più delle volte, una speculazione che con facilità porta a trascenderli.
            Le varie vicende nelle quali si muovono Geremia e i suoi “compagni” non vengono mai trattate come il risultato del gioco della vita. Il gioco, infatti, è questione ludica, infantile, al massimo, adolescenziale. La loro prospettiva invece, è quella dello scherzo, attinente questo al mondo degli adulti, che ha all’interno non solo il comico, ma anche il tragico.
            Al di là di ciò, Piero Grima è uomo con simpatie sinistrorse, che pur trasudando nella narrazione de Il caffè delle Rose, questa tuttavia trascende la colorazione politica tout court, per entrare in una visione della società, o forse meglio dire dell’umanità, dove la realtà, una volta tradotte tutte le metafore e le allegorie, appare per quella che è, e dove l’unico rimedio possibile pare ritrovarsi all’interno anziché all’esterno. Potrebbe arguirsi che il racconto di Grima sia quello dei nostri tempi, nei quali, in maniera oltremodo evidente, ci si aggira in una società oramai mancante di un perimetro ed in cui è assente qualsiasi perno, dove l’unica spiaggia cui approdare pare essere se stessi.
            Tra i volumi pubblicati dall’editoria salentina, questo lavoro di Grima si accosta facilmente a quello pubblicato da Musicaos e scritto da Lea Barletti (recensito da Maison Ragosta in luglio dello scorso anno). Due lavori, insomma, di altissima qualità culturale e letteraria, nello specifico, destinati ad un pubblico particolarmente esigente, capace di cogliere le delicatezze e le nuances pastellate, che questi due autori offrono e sanno produrre con eloquente destrezza.
            E per concludere, sebbene superfluo, Il Caffè delle Rose -il cui valore non è una questione casuale, ma frutto di diuturni esercizi di riflessione, studio e pratica scrittoria-  è uno dei tantissimi lavori di Piero Grima, pubblicati durante il corso della sua lunga ed intensa vita, trascorsa negli anni degli studi universitari tra Bari, Firenze e Parigi, e per il resto nel capoluogo salentino, dove s’è intrattenuto come medico.

Mauro Ragosta

giovedì 23 gennaio 2020

Segre: logica stringente, ma incompleta e poco ragionevole – di Mauro Ragosta

         Oramai è da tempo (forse troppo?) che la Senatrice Segre è sulla ribalta giornalistica e televisiva italiana, con risonanze importanti da molti mesi sia sul piano politico sia su quello sociale. Ci si chiede se ciò debba essere apprezzabile e condivisibile. Eh sì, perché la Nostra Senatrice (che dovrebbe avere senno) è donna dalla logica, sì stringente, ma incompiuta e non ragionevole, dove per ragionevole si intende ciò che è logico e razionale abbinato tuttavia alla saggezza, che è qualcosa che li trascende, va oltre.
            Ci pare opportuno ricordare alla Nostra Senatrice che, emeriti studiosi a lei molto vicini e insigniti dallo Stato italiano, come Karl Popper e Ralf Dahrendorf, hanno dimostrato al Mondo Occidentale che la ragione, anche sulla scia di quanto dimostrato matematicamente anche dal suo “compaesano” Albert, Albert Einstain, non è in grado di esprimere verità assolute e che pertanto queste quando formulate vanno condannate e con esse tutti gli assolutismi (è questo anche un altro assolutismo?) perché aberranti sia nel quotidiano sia in politica, e, al contrario, va difesa a spada tratta la democrazia e la libertà di pensiero e parola, come forme di esistenza possibile e ingredienti di regimi ragionevoli, in quando dovrebbero dare voce a tutti, dove nessuno può accampare una posizione incontrovertibile. Insomma, vanno banditi tutti gli eccessi, in tutte le direzioni!
            Ciò premesso, la Nostra Senatrice, contravvenendo ai principi universalmente riconosciuti dal Mondo Occidentale e civile, pare ignorare dunque le principali regole ispiratrici e fondanti della democrazia. E bisognerebbe chiedersi se scientemente o per debolezza intellettiva. Ad ogni modo, lei dovrebbe di più ad uno Stato democratico, come quello italiano che l’ha nominata senatrice a vita dall’estabilshment nazionale del Secondo Dopoguerra, senza mai esser stata selezionata dal popolo italiano, senza esser stata mai sottoposta a questo moderno rito iniziatico, quale appunto quello delle elezioni, sebbene popolare e discutibile. Una privilegiata, forse troppo, se anche i suoi ragionamenti sono al limite dell’accettabilità democratica, se non attraverso poderose forme di tolleranza nei confronti del suo pensiero.
            A riprova di ciò basti considerare le sue ultime asserzioni sulla questione Almirante, circa l’intitolazione a questo statista italiano di una via veronese. Uno statista, peraltro, che al contrario della nostra Segre, è stato selezionato dal popolo italiano, e non una volta, ma per decenni, esprimendo tale sua condizione come una delle ragioni profonde del nostro Paese.
            Nella querelle veronese la Segre vede incompatibilità delle sue onorificenze e dei suoi riconoscimenti operati dal Comune di Verona, con l’intitolazione di una via del centro veneto al suo decennale collega Almirante, che ha di fatto pari dignità.
            In ciò e con ragionamenti ragionevoli, semplici si può facilmente arguire che la Nostra senatrice esclude qualsiasi logica democratica e, sbrigativamente, la ignora e, forse, la oscura pure. Va da sé, infatti, che la democrazia è tale quando riesce a far convivere idee inconciliabili, opposte, contraddittorie, proprio perché l’esistenza di una verità assoluta il Mondo Occidentale, ed anche l’Italia, l’ha esclusa come opzione di ogni ragionamento. Da qui, se tutti gli eccessi vanno banditi,  è facile arguire che se la democrazia non è in grado di far convivere le contraddizioni umane, politiche e sociali, si trasforma rapidamente e automaticamente in assolutismo, o come certi usano dire, ma poi bisognerebbe vedere, in fascismo o nazismo.
            E così la nostra Segre cavalca l’onda dell’antisemitismo, riproducendolo in qualcosa di assoluto, da affermare contro tutti e su tutto, senza tenere in considerazione della complessità della realtà. La Nostra Senatrice, infatti, non si è mai prodigata e adoperata per altri olocausti a noi più vicini, molto più vicini a noi italiani e che sono stati perpetrati nello stesso periodo in cui ci fu la persecuzione raziale nazista. Anzi, forse s’è pure adoperata per adombrarli, usando un eufemismo. Si allude alla faccenda delle Foibe, dove centinaia di migliaia di italiani, e forse anche di più, furono massacrati e uccisi senza un evidente e chiaro motivo. Almeno l’olocausto degli Ebrei degli anni ’30 del Novecento ebbe un motivo, una possibilità di riflessione. Per noi italiani neanche quello: uccisi a migliaia e basta. E non solo, ma anche tutto “coperto”, e pure con perizia, quasi scientifica.
            Ma si dirà che la posizione dello scrivente è razzista. La posizione dello scrivente è invece democratica, perché il razzismo è una delle tante opzioni, le quali in democrazia tutte dovrebbero avere dignità politica, escludendo, ovviamente, ogni eccesso. Il razzismo infatti è l’opposto delle politiche che si adoperano per il “meticciato”. Chi mai ha provato che uno sia più esatto dell’altro, escludendo dall’analisi ovviamente, ogni forma demagogica?
            La democrazia per definizione non può condannare il razzismo come non si può condannare la politica volta a favorire il meticciato. E’ chiaro che prodigarsi per questa o quella posizione è lecito democraticamente fino al punto in cui il tutto non diventa esclusivo ed assoluto. E la nostra Segre ignora questi elementari ragionamenti ragionevoli, incalzando con l’antisemitismo, che oltre ad aver prodotto vittime, da tutte le parti e posizioni, ha avuto tuttavia come risultato finale la circostanza che gli uomini più potenti del Globo, capaci di condizionarne in maniera significativa la sua esistenza, sono proprio Ebrei, che non ammetto, nel loro caso, diritto di cittadinanza, adoperandosi però che gli italiani in ciò siano molto prodighi, e né per loro ammetto il “meticciato”. E se l’antisemitismo ed il razzismo hanno simili prodotti, di cosa si lamenta la Nostra Segre, effettivamente? Mica gli Ebrei sono stati ridotti come i Sioux, la cui unica possibilità di esistenza concessa è stata ed è quella della Riserva, per usare un travestimento verbale: meglio e più appropriato sarebbe il termine, musealizzazione.
Insomma, non si capiscono i reali obiettivi della Nostra Senatrice, né tantomeno le sue logiche di fondo. O forse, sebbene più evoluto, il suo è pur sempre un populismo alla Salvini? Un populismo che richiede, come gli altri, una sana commiserazione?

Mauro Ragosta
…chi di relativismo colpisce, di relativismo perisce!

martedì 21 gennaio 2020

Destra, sinistra e gli intellettuali - di Mauro Ragosta

         In prima battuta, vè da chiedersi se sia attuale e di qualche utilità proporre un modello di riferimento che inquadri gli intellettuali, ovvero coloro che svolgono attività di letterati e filosofi, nonché gli affini a questi, quali appunto gli economisti, i sociologi, gli antropologi e via dicendo, sulla base delle coordinate destra-sinistra.
Sicuramente, va detto che lintellettuale, per forza di cose, svolge attività politica attraverso la pubblicazione delle sue opere, i convegni, che, di fatto, propongono valori e visioni sociali del mondo o di un mondo. Ed è assolutamente falso che il prodotto delluomo di cultura, dell’intellettuale appunto, sia neutro, rispetto alla dicotomia destra-sinistra. E un prodotto, il suo, che mette laccento su certi aspetti dellesistenza umana e ne nasconde molti altri, che non condivide ed esclude, che avvalora dei principi e non altri. Dietro ad ognuno di questi esiste un sistema di pensiero, che può essere e deve essere classificato.
Oggi, tutto ciò è meno evidente, ma non così fino alla Prima Repubblica, dove la politica era infarcita di intellettuali di calibro rilevante, anzi ne era il prodotto, perché una società orientata alla produzione e non al consumo come quella di oggi. E tuttavia anche la Civiltà dei Consumi ha la sua destra e la sua sinistra. I nostri tempi, tuttavia, sono caratterizzati da intellettuali che si muovono dietro le quinte, senza grande clamore, lasciando la vita pubblica e politica a chi sa fare sostanzialmente spettacolo, il vero protagonista dei tempi attuali, essendo infatti queste spettacolari, dove il colpo di scena è quello che non esiste destra e sinistra: tutti uguali! ……….ma solo apparentemente.
       Dagli anni ’90, limperante e popolare relativismo ha condotto alla confusione delle lingue e delle idee in una gigantesca babele, portando a definire la cultura senza colorazione politica. Qui la libertà di pensiero e la libertà di parola hanno prodotto la nuova schiavitù, quella senza catene, fatta di solitudini ed incapacità di collegarsi e raccordarsi al prossimo, se non sul piano consumistico e dei feticci. In tutto questo bailamme, in tutto questo chiacchiericcio, in tutto questo rumore, tuttavia, la cultura rimane e conserva ancora una valenza politica, anche se le masse di ciò ne sono totalmente inconsapevoli. Un distinguo politico cè e per varie ragioni. La confusione nella quale siamo avvolti ha condotto ad un mondo sostanzialmente cieco e violento, di una violenza più sottile e letale di quella fisica, una violenza che si nasconde dietro le idee, dietro le parole, dietro i concetti di libertà e di uguaglianza. E ciò a tal punto che se sul piano consumistico siamo evolutissimi, sul piano più strettamente culturale è facile constatare una preoccupante e drammatica involuzione: neanche luomo del Medioevo era così ignorante e violento come luomo doggi, dove lo strumento politico s’è trasformato solo come funzionale ad una generica violenza.
 Ed ecco che, mancando di un piano di riferimento formale, di una definizione dei termini sociali e dunque anche di quelli politici (sistematicamente distrutti negli ultimi tre decenni dagli stessi filosofi e sociologi) la comunicazione, infatti, è informata solo dagli istinti primordiali, anche se travestiti con un lessico ricco e forbito.
        E appare più che mai urgente, anche se rifiutato e osteggiato dai filosofi asserviti ai poteri forti, un ritorno alle classificazioni, al procedere per modelli di riferimento, onde riaccendere il dibattito sociale ed impedire che vengano meno i presupposti basilari della democrazia, incalzata dalla violenza tout court. Questo perché allinterno di un contesto indifferenziato il confronto, il dialogo, lo scambio diventano impossibili, soprattutto a livello di comunicazione.
       Come per il linguaggio esiste un vocabolario, che definisce e perimetra il significato delle parole, anche per i fenomeni sociali e politici occorrono dei perimetri, delle sagome di riferimento, per il ritorno ad un vivere civile e non solo tecnologico.
      Qui e lì ogni tanto appare qualche articolo, ed anche qualche saggio, sullarcana questione, circa la cultura e l’intellettuale di destra e di sinistra. Molte le opinioni, pochi gli sforzi che tendono ad una sintesi, bloccati da una critica fine a se stessa, volutamente mendace ed ingannevole, che fomenta false rivoluzioni e finti riscatti popolari.
        Certamente, il compito non è di facile soluzione. Al di là di ciò, tuttavia, è possibile individuare dei minimi comuni denominatori nella cultura di sinistra e nella cultura di destra che qui si propongono su tre coordinate sulle quali riflettere e trovare i relativi riscontri.
       Un primo punto va costruito sullassunto hegeliano dove ciò che è razionale è reale e ciò che è reale è razionale. Qui è facilmente riscontrabile che per la sinistra ciò che è razionale è reale, mentre per la destra vale esattamente il contrario. Vari gli esempi in politica, in economia, in sociologia, in psicologia dove per gli intellettuali di sinistra la progettazione dellesistenza è alla base dellagire, mentre di contrario avviso tutta la letteratura di destra, dove i fatti, interpretati, pongono le prospettive da perseguire. Un secondo asse riflessivo va individuato nelle specificità degli intellettuali, dove quelli di sinistra sono prevalentemente pedagogici e intellettivo-razionali, amano e devono fare i professori (o i nuovi chierici?), muovendosi prevalentemente in gruppo, mentre quelli di destra hanno un orientamento spirituale, con slanci che vanno verso lesoterismo e lisolazionismo. Anzi, aggiungerei, questi ultimi spesso si producono nello sparizionismo. Molti sono gli artisti, gli scienziati, i letterati di destra, che ad un certo punto della loro vita, spariscono dalla scena sociale.  Un terzo punto, forse il più importante, va individuato nei momenti di riferimento sui quali gli intellettuali edificano i loro costrutti culturali. Mentre, infatti, la sinistra si rifà a coordinate prodotte dal pensiero, legate alla natura, nella componente di destra, invece, i modelli di riferimento sono ultraumani e sovrannaturali. Da qui la povertà e la ricchezza presentano valori e significati diversi tra destra e sinistra.
    E per concludere, irrilevanti si presentano i distinguo facendo riferimento alla violenza, la forza, la pace, l'uguaglianza, poiché sono connotazioni e argomentazioni di tutti gli schieramente politici portati avanti in maniera quasi identica, sul piano sostanziale....

Mauro Ragosta
                 

domenica 19 gennaio 2020

Terra d’Otranto e le attività dell’Arte, lo Spettacolo e la Cultura – di Mauro Ragosta

            Superato il primo anno di attività, focalizzata prevalentemente a Lecce ed in provincia, Maison Ragosta, nel 2020, amplia il suo raggio d’azione per portarsi a formare ed informare il più ampio territorio di Terra d’Otranto, richiamandosi, così, ad una entità geografico-amministrativa, che fino a poco meno di cento anni fa rappresentava uno dei perni dell’economia meridionale, dove Lecce costituiva un centro finanziario ed economico di primaria rilevanza. Un primato, quello di Lecce, che non le è stato tolto, malgrado l’amputazione territoriale, essendo ancora oggi la città, tra i capoluoghi di Puglia, col più alto PIL pro-capite.
            Una questione delicata quella relativa allo smembramento di Terra d’Otranto, che fu realizzato per far perdere a questo territorio soprattutto forza economica e finanziaria: fu forse l’ultimo atto per farlo capitolare, con lo smembramento appunto, alla nefasta e devastate conquista del Meridione del 1860. Benché oscurato dalla storiografia settentrionale e del Secondo Dopoguerra, il potenziale economico ed imprenditoriale di Terra d’Otranto, tuttavia rimase pressoché intatto sino agli anni ’50 del Novecento: sono negli anni ’60 il divario economico tra Nord e Sud diventa concreto ed evidente. Una statistica per tutte: nel 1870 Terra d’Otranto risultava un territorio più industrializzata della provincia di Torino e pari solo alla provincia di Milano (fonte: Istituto Tagliacarne - Roma). Ma c’è di più. In tali anni, oltre il 20% della moneta estera che entrava in Italia, derivava dalle attività produttive di Terra d’Otranto. E ci si ferma qui!
            Dal 2020, dunque, Maison Ragosta, guarda e si rivolge finalmente ad un territorio, che forse continua a mantenere nel suo “animo antico” una particolare unità, che per oltre 2500 anni l’ha caratterizzata. E l’incipit a questo nuovo corso lo fa trattando di uno dei settori chiave per lo sviluppo economico dei prossimi decenni.
            Al riguardo, qualche tempo fa, un noto politico italiano asserì che “con la cultura non si mangia!”, mettendo in evidenza tutta la sua povertà, non solo sul piano storico, economico e sociologico, ma anche esistenziale e di vita. Ora, lasciando da parte questa asserzione, che non è azzardato affermare che non si presenta comica, perché -come soleva dire “un certo” Carmelo Bene- eccede la comicità stessa, va subito puntualizzato che lo sviluppo economico induce ad uno spostamento della popolazione dai settori meno evoluti a quelli più evoluti. Chi pensa che l’industria sia l’ultimo stadio di sviluppo di un’economia, non solo sbaglia, ma deve assolutamente mettersi da parte nella progettazione socio-economica di un territorio. A ciò basti considerare che la superiorità militare ed economica di uno Stato è nulla se non affiancata dalla superiorità culturale. E da qui, v’è da chiedersi: quanta parte ha giocato, nella conquista del Meridione d’Italia da parte dei Settentrionali, la cultura? Quanta parte ha giocato l’eliminazione dei maggiori centri culturali nel Mezzogiorno e la decuplicazione di questi nelle regioni Settentrionali? Va da sé che, un ignorante non saprà e non potrà mai difendersi………….e la supremazia culturale è l’elemento chiave per la subordinazione definitiva e stabile di un territorio.
            E veniamo allo specifico di quanto si vuol trattare. In Terra d’Otranto, il comparto dell’Arte, lo Spettacolo e la Cultura presenta uno sviluppo relativamente recente, risalendo ai primi degli anni ’90 del secolo scorso. E tuttavia, se nel tarantino e nel brindisino questo si connota da un fortissimo ritardo, nel leccese, invece, oggi riesce a produrre un PIL che va oltre il 7-8% di quello provinciale. Questa asimmetria che connota Terra d’Otranto è dipesa dalle scelte di fondo in materia economica operate dalle tre province, negli anni ’60 del secolo scorso: il tarantino preferì l’industrializzazione spinta e nel brindisino si privilegiò lo sviluppo delle attività portuali e di alcune mega attività industriali, nel leccese si scelse, invece, l’insediamento dell’Università, di alcune scuole artistiche e solo di rimando ci si adoperò sul piano industriale. Nel lungo periodo queste scelte di politica economica hanno gravato sugli sviluppi dei tre territori. Oggi, il brindisino ed il tarantino sono alle prese con la profonda necessità di riqualificare la propria economia, che non può più sorreggersi solo sulle attività industriali, nei processi di sviluppo economico e sociale, mentre Lecce è in una fase, post industriale, in cui i due settori portanti della sua economia, ovvero il turismo e l’arte, lo spettacolo e la cultura (ASC per brevità) sono nelle fasi di pieno take off, e rappresentano attività estremamente moderne, che connotano le economie più evolute.
            Negli ultimi sette, otto anni, tuttavia, sia nel brindisino sia nel tarantino il settore dell’ASC ha registrato fermenti importanti. Non solo è cresciuto il numero degli operatori di base, quali scrittori, poeti e artisti di vario genere, ma si evidenzia anche una certa tensione a voler procedere ad operazioni di sintesi. Peraltro, molti degli operatori brindisini e tarantini hanno avuto esperienze e respirato le atmosfere leccesi, molto più avanti nello sviluppo delle problematiche del settore, e che di rimando cominciano a costituire una riserva di saperi necessari per la crescita del settore in questi territori per il prossimo futuro. Certamente, le fasi d’avvio, di startup di un processo produttivo, soprattutto quando ha contenuti culturali complessi, si presentano lunghe e irte di difficoltà. Ed in effetti, nel leccese, il settore ha avuto un’incubazione di circa vent’anni e solo a partire dal 2010 ha mostrato un’evoluzione in termini sistemici ed esponenziali. E si figuri che negli ultimi due anni nel leccese sono emersi anche i presentatori seriali di libri e serate mondane, che, sebbene di qualità professionale ancora non molto modesta, lasciano intravedere un grado di sviluppo importante del settore.
            In ogni caso, in tutto questo, una spinta rilevante è venuta dalla crisi del 2008-9, che ha generato un livello di disoccupazione importante, soprattutto giovanile. E’ stata la causa per cui molti giovani e persone di mezza età hanno cercato di risolvere la loro condizione difficile giocandosi “le carte” nel mondo dell’ASC. Da qui, una crescita esponenziale di scrittori, nuovi editori, musicisti, pittori, attori, giornalisti e via dicendo, che hanno di fatto rivoluzionato l’asseto culturale del territorio e dato una spinta allo sviluppo dell’ASC. Una tensione questa ancora a livello embrionale nel brindisino e nel tarantino, ma che nel leccese ha portato ad un primo stadio di maturità del settore e a dinamiche dirompenti e tumultuose, che lasciano intravedere che daranno una spinta allo sviluppo anche sui territori confinanti, che, per questi, si sommerà a quella già esistente, autoctona, con beneficio per tutta Terra d’Otranto.
           
Mauro Ragosta

martedì 14 gennaio 2020

Stile e Buongusto (parte settima): Intorno all’arte del conversare – di Mauro Ragosta

         E’ facilmente riscontrabile da tutti che il nostro tempo è caratterizzato in maniera vieppiù specifica dalle attività comunicative. Rispetto al mondo contadino o a quello industriale, non certo “rumorosi” come il nostro, a Noi sono richieste appunto strette e frequenti interazioni con le persone. D’altro canto, poi, anche attraverso l’avvento dei social, uno dei più frequenti esercizi dell’uomo comune, se non proprio il principale, è quello di esprimersi davanti ad un pubblico, anche se virtuale. Se tutto ciò sia cosa buona e giusta o un male, una condanna, in definitiva, e se il comunicare in maniera intensiva sia attività che genera più confusione che chiarezza, sono questioni da trattarsi separatamente e richiedono un’attenta riflessione e, soprattutto, il non dare nulla per scontato.
            Ad ogni modo, all’interno di questo quadro si colloca la conversazione, esercizio, ad avviso di chi scrive, poco praticato e diffuso, se non in chi ha superato le impellenze consumistiche e le necessità di ostentazione di status symbol e feticci di vario genere, ma soprattutto per chi ha un’identità forte ed una salda sicurezza in se stesso, che lo risolvono nell’uso della parola come agente di comunione, anziché come arma per scaricare tutta la propria violenza, il proprio furore, quello inespresso, soprattutto con  scuse pedagogiche e con le necessità che bisogni a tutti i costi acculturare e acculturarsi o allontanarsi dall’ignoranza. Ignoranza, poi, che ancora non s’è capito in cosa consista, se nella conoscenza del vocabolario e della grammatica e di qualche nozione di storia e materie affini o nell’assenza del “sapersi regolare”, del conoscere i meccanismi più profondi dell’esistenza. Eh sì, perché le due cose sono scarsamente correlate, a ben riflettere, ma anche a gran dispetto di chi pensa che la Conoscenza sia possibile solo in presenza di un ricco pensiero e dunque di una buona cultura. E poi, non si può pretendere che un comune operaio, con tutto il rispetto per gli operai, abbia le capacità espressive di un professore: i due hanno bisogni e funzioni diverse. Si immagini ad esempio un tubista che si esprime come un letterato e che magari è anche un profondo conoscitore della Divina Commedia………in tal caso, povero professore!
            Tutto ciò premesso, la conversazione attiene al piacere di parlare, formulando l’idea giusta al momento giusto e al posto giusto, intercettando la locuzione più efficace ed efficiente, il vocabolo più appropriato alla circostanza. E’ momento creativo per eccellenza. Va da sé che, a ciò si associa il piacere di intrattenersi con un’altra persona, con la quale, la conversazione è occasione di gioco, ma anche di leale confronto, come tra poco si dirà.
            Ed ecco che, nella conversazione è bandita qualsiasi ostentazione, ogni sfoggio del proprio vocabolario, della propria cultura, di qualsiasi intento e pratica pedagogica da pedante maestro, ogni scopo volto a conoscere la profondità culturale dell’interlocutore, da utilizzare poi per altri fini e altre faccende, ma anche per appropriarsi delle sue conoscenze, delle sue determinazioni ed informazioni. Quanti caffè si prendono al bar con lo scopo esclusivo di cercare di conoscere e scoprire le faccende e l’economia del nostro “amico”, per poi in conseguenza prendere le nostre decisioni, o rubacchiare qualche idea?
            Nella conversazione, anche quando è decisa in anticipo sia con riferimento al luogo, all’ora e all’argomento in cui intrattenersi, la prima regola è quella di evitare rigorosamente le verticalizzazioni intellettuali, spinte, sia verso l’alto sia verso il basso. In altre parole, non bisogna mai intrattenersi in questioni di principio, fondanti questi per l’identità, o estremamente volgari e imbarazzanti. E siccome la conversazione è un gioco, non è quasi mai prevista in essa una posta così alta come uno o più dei mattoni importanti e fondanti della propria identità o sobbarcarsi di inquietanti, e a volte anche angoscianti, scene argomentative triviali e rozze.
            Nella conversazione non deve mai mancare il colpo di scena e l’ironia, e soprattutto l’autoironia. A volte, molto efficace è far passare ciò che è normale per folle e ciò che è folle per normale, o ciò che è naturale per ciò che non è naturale e viceversa, ma anche ciò che è logico per non logico e ciò che è illogico per ciò che è logico. In tale arte, un Maestro è stato Pirandello! Va da sé che, l’utilizzo di metafore, allegorie, translati rendono il conversare molto più ricco e sorprendente.
            Da qui, nella conversazione si può giocare a percorre dei sentieri intellettuali dove si aggiunge la propria proposizione a quella del proprio interlocutore, ma ci si può anche confrontare. In tal caso ci vuole l’accortezza di dichiarare la propria resa, quando non si hanno più argomentazioni a supporto del proprio dire. E’ dunque da evitare rigorosamente in caso di sconfitta qualsiasi manifestazione di nervosismo o l’abbandonare il campo fisicamente…scappando… Bisogna sempre ricordarsi che si sta giocando, e il buon giocatore sa riconoscere lo “scacco matto”. E poi, ci sarà sempre l’occasione di una nuova “partita”, un nuovo sentiero da percorrere. E’ ovvio che non bisogna prendere ad esempio i talk show televisivi soprattutto quelli tra politici: qui, il più delle volte, la questione è decisamente volgare e di basso profilo. La conversazione è ben altra cosa: si avvicina molto ad un atto amoroso, ad una danza, magari ad un tango…ad un duello a punta di fioretto.
            E per concludere occorre marcare qualche indizio circa il luogo e il tempo da deputare alla conversazione: è preferibile che l’ambiente sia quello di un salotto privato; mentre l’ora giusta è quella del tè, in inverno, e del tramonto, in estate. Ad ognuno poi la scelta di come proporre e accessoriare gli ambienti destinati all’ameno momento.

Mauro Ragosta

sabato 11 gennaio 2020

Salento Economia (parte prima) – Abbigliamento e Calzature: una rinascita lenta o impedita? …..guardando a Laura Petracca – di Mauro Ragosta

            Come è ampiamente noto, dopo l’entrata in vigore dell’Euro, per effetto delle politiche monetarie della BCE, i settori dell’abbigliamento e delle calzature nella provincia di Lecce ebbero un repentino declino, dopo che per più di quaranta anni avevano sorretto una buona parte dell’economia locale. Un crollo, quello di questi due settori, peraltro, che non fu inatteso, anzi, in ambienti qualificati, già dal 1994-95 si conoscevano quali sarebbero state le sorti e gli sviluppi degli anni a venire di questa componente dell’economia leccese, che addensava più di 20.000 addetti, secondo le statistiche ufficiali.
            E così a partire dal 2003-2004 centinaia di imprese impegnate in questi settori ridussero il personale in maniera drastica, avviando un processo di meccanizzazione più spinto, mentre molte chiusero i battenti, soprattutto le unità più importanti. Si pensi alla Filanto di Casarano, all’Adelchi di Tricase. Si ebbe dunque un drastico ridimensionamento in tutte le direzioni delle attività aziendali, che produsse uno shock nel sistema imprenditoriale e di accumulazione, aggiungendo ulteriori tratti di forte discontinuità allo sviluppo economico locale, che dal 1870 caratterizzano l’economia leccese.
            Oggi del comparto produttivo rimane ben poca cosa, sia in termini sociali sia economico e produttivi, fatta eccezione per alcune attività quali quelle della Romano di Matino, che produce il brand Meltin’pot, creato e realizzato qui nel Salento e noto in tutto il Mondo, e Barbetta di Nardò, che tuttavia in estrema sintesi è una propagine dell’industria e dei grandi brand milanesi qui da noi, non avendo nella governance alcun reale aggancio e tradizione locale.
            Ma come è stato per la produzione del vino, che dopo la crisi degli anni ’80, negli anni ’90 è stata progressivamente riqualificata, passando da una produzione di vini da taglio ad una produzione di vini da tavola -di ottima qualità e riconosciuti in Italia e all’estero- associandosi a ciò anche una significativa evoluzione imprenditoriale e manageriale, anche nei settori delle calzature e dell’abbigliamento si sta registrando una reimpostazione di tutte le attività, partendo dalla progettazione e lentamente anche dalla realizzazione di prodotti, i quali hanno qui da noi l’intero ciclo imprenditoriale, evolvendolo così dal contoterzismo.
E così da un decennio, a partire cioè dal 2010, assorbito il colpo della crisi del primo decennio del 2000, sono comparsi nel nostro territorio non pochi stilisti autoctoni, che si sono impegnati in tutto ciò che riguarda l’abbigliamento e gli accessori, sino a giungere alla progettazione e alla realizzazione di profumi, gioielleria e bigiotteria. Il tutto in una formula Made in Salento.
Va da sé che, la chiave di volta per il rilancio dei comparti citati sta nei processi formativi dei giovani, dove la scuola superiore gioca e giocherà un ruolo determinante. Ma al riguardo ancora poche in quest’ambito si presentano le forze propulsive. Tra queste, rare, un posto principe riveste la professoressa Laura Petracca, stilista e pittrice e decoratrice, che insegna presso l’I.I.S.S “Don Tonino Bello” di Tricase.   
          Un personaggio strategico, oltre che importante, non solo per la sua forza ed impatto nei processi formativi, la grande energia, ma anche per la sua creatività tellurica. Negli ultimi tempi, con i suoi studenti, sono stati realizzati, in prototipo, abiti da sera di alta qualità, tutti dipinti sapientemente a mano, secondo la sua sapiente direzione. Ma da decenni, oramai, la sua dedizione alla formazione è nota in ambito stilistico.


            Insomma, con la Petracca stiamo parlando delle eccellenze del nostro territorio, che di fatto danno una spinta reale all’intero sistema moda locale, sebbene questo sia ancora alle prime battute della sua nuova vita, dopo il contoterzismo.  E’ chiaro che, al di là del curriculum della nostra Petracca, peraltro di primo livello e con riconoscimenti decisamente significativi, stiamo parlando di risorse altamente qualificate ed indispensabili per lo sviluppo del nostro territorio in termini culturali e produttivi, perché per questo non sono importanti i titoli, ma l’azione, il contributo, il prodotto frutto della nostra terra e per la nostra terra in un’ottica di autodeterminazione.

            Ecco, la Petracca e le donne e gli uomini come lei, sebbene ancora rare, sono le leve decisive per il riscatto e la riscoperta del nostro territorio in termini di saperi, in termini di patrimonio tangibile ed intangibile, che, soprattutto a partire dal Secondo Dopo Guerra, è stato depauperato e bisogna ricostruire, riedificare. E tutto ciò, ispirandosi anche alle donne come Laura Petracca, ovviamente, e non solo guardando ai processi meramente produttivi e di progettazione, che, seppur indispensabili, vanno inseriti in un “ragionamento a tutto tondo”, includendo in maniera importante anche i processi formativi, soprattutto delle giovani generazioni, per vivere ed avere un futuro.

Mauro Ragosta