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martedì 18 giugno 2019

Saper comunicare (parte terza): il taylorismo culturale - di Danilo De Luca



Va subito precisato cosa si intende per taylorismo, prima di trattare, seppur brevemente, la sua applicazione in ambito culturale, ed in particolare nel mondo della formazione di alto profilo, come l’università, o in ambito sanitario, per altro verso. Ma sono moltissimi gli ambiti di applicazione del taylorismo, che tradotto in parole semplici può trovare il termine principe nella specializzazione. Specializzazione che è uno dei motivi che sono causa di una cattiva comunicazione.
         Al di là di ciò, il taylorismo nasce, dunque, per rispondere ad una precisa esigenza, ovvero quella di produrre in grandi quantità un prodotto complesso. Va da sé che l’uso intensivo di operatori/addetti non può essere perseguita se non frammentando il processo produttivo in frazioni piccolissime di fattibilità, accessibile così anche a risorse umane di basso livello. Infatti, un prodotto complesso può realizzarlo interamente solo personale particolarmente qualificato, che sul mercato del lavoro e dei servizi è molto raro e da qui un’impossibilità ad una produzione di massa. Ecco, dunque, le soluzioni di F.Taylor, che formalizzò la sua teoria nel 1911, pubblicando un volume dal titolo Principles of Scientific Management (L’organizzazione scientifica del lavoro), con il quale, da lì a poco, messo in pratica, diede avvio concretamente al fordismo e alla produzione di massa e successivamente applicato in moltissimi ambiti produttivi di più svariata natura, anche nel campo della ricerca scientifica,  consentendo il raggiungimento di risultati importanti. Più nello specifico, il taylorismo consentì l’industrializzazione della scienza, ma anche per quel che riguarda frazioni importantissime anche in ambito culturale e formativo: si pensi all’università. Mai questa avrebbe potuto procedere negli ultimi trent’anni all’alfabetizzazione di una massa enorme di popolazione, se non si fosse proceduto secondo le regole teyloristiche.
Tale modello, che trovò, come s’è sottolineato, applicazione pratica con il Fordismo, non ha mai smesso di evolversi. Oggi, la necessità di figure specializzate ha raggiunto il proprio acme e il principio della professionalizzazione va ormai dettagliandosi verso micro-settori; in una società globale così satura e concorrenziale, il mondo del lavoro premia i professionisti capaci di diventare eccellenti in determinate nicchie di mercato o processo produttivo/servizio, nicchie che si sono fatte via via sempre più specifiche, sempre più piccole, producendo esseri umani, però, incapaci di concepire la complessità, l’intero.
Cosa c’entra tutto ciò con l’incapacità di comunicare, ovvero di comprendere e di farci comprendere? C’entra, eccome. Perché il nuovo assetto non ha a che fare solo con il mondo del lavoro. La società va ora incontro a un processo di specificazione che è anche culturale, estetico, linguistico. Il taylorismo culturale nasce da qui, ed ha come risvolto negativo l’incapacità di scindere il sé professionale dal sé relazionale, anche perché è difficile che un soggetto incanalato in determinato ambito del sapere da solo riesce ad andare oltre il proprio confine di riferimento; il gergo del proprio lavoro diventa il gergo della propria quotidianità, dove l’incomunicabilità trova un alleato in più nel tecnicismo morfo-sintattico. Due soggetti, entrambi acculturati, ambedue professionisti di alto rango e rispettabilissimo status sociale, spesso non sono in grado di interagire, non sono dotati di un bacino lessicale condiviso e comprensibile, univocamente, da entrambi.
Specializzazione e gergalismo si pongono poi in naturale antitesi con l’essenza stessa della cultura di massa, in cui tutti noi siamo imbevuti, operiamo e, tanto per cambiare, comunichiamo, pur trovando origine dal medesimo processo. Da una parte l’egemonia culturale viene esercitata in modo industriale mediante i mass media, abili a propinare modalità comunicative accessibili a tutti, immagini replicabili e comprensibili ad ogni livello sociale e culturale; dall’altra, la stessa società odierna impone, però, una specificazione sempre più sottile, sempre più ghettizzante, che smantella la massa e la confina in liquefazioni di sorta. E in siffatta dinamica, viene meno un linguaggio comune, e così siamo estranei rispetto ai nostri vicini, pur interagendo nei medesimi spazi.
Come risolvere le contraddizioni interne alla società di oggi, all’uomo di oggi? In che modo possiamo riappropriarci di una dimensione comune in cui comunicare e attraverso cui comprenderci? Va da sé che l’elemento centrale che abbiamo perso per strada lungo l’ultimo secolo e passa è proprio un lessico che sia realmente condiviso, trasversale. Il senso di comunità si genera e si cementifica intorno al linguaggio. E se la società è (a quanto si direbbe oggi) irreversibilmente lanciata verso una settorializzazione sempre più differenziante, sta a noi riscoprire un vocabolario comune, attraverso un processo personale di ri-acquisizione delle giuste abilità linguistiche: scindere il nostro lavoro dalla nostra identità e, attraverso tale scissione, recuperare un approccio comune, un linguaggio condiviso, un bacino di significati associante.

Danilo De Luca

domenica 16 giugno 2019

Archivio Ragosta - Cultura e mondanità nel leccese: un po' di Storia.- di Mauro Ragosta


         Un “pezzo” giornalistico questo che mira ad essere un primo contributo volto a fare il punto della situazione sulla recente storia culturale del leccese, intesa questa nell’accezione centrata su tutto ciò che gravita attorno al mondo delle produzioni della narrativa e della poesia, soprattutto nelle prospettive degli attori e della ritualità. Tentativo, peraltro, non nuovo, e che, infatti, ha episodi relativamente recenti. Ci si riferisce ai contributi di Ennio Bonea, dei primi anni ’90.
         Si tratta, questa, di un’operazione doverosa e necessaria in considerazioni delle dimensioni, della profondità e della penetrazione sociale che il fenomeno in questione ha assunto negli ultimi cinque anni, e che ha contribuito in maniera decisiva a far definire il nostro territorio come un distretto culturale di primaria rilevanza, non solo a livello meridionale, ma anche nel più ampio scenario nazionale.
         Qui abbiamo tracciato le fasi relativamente recenti che la letteratura salentina ha registrato. E un primo dato rilevante attiene al 1995, che abbiamo posto come anno spartiacque fra lo scenario tradizionale e quello contemporaneo. A partire dal 1995, infatti, il mondo culturale leccese si trasforma e si arricchisce di nuovi aspetti: si articola. Fino a quest’anno la cultura nel leccese, nell’accezione segnata in precedenza, è prerogativa accademica ed istituzionale: l’università e gli universitari giocavano un ruolo decisivo per lo sviluppo delle sue dinamiche. Qui, tra gli altri,  un ruolo importante giocano Carlo Alberto Augeri, Walter Vergallo, Arrigo Colombo, Ennio Bonea. A partire dalla metà degli anni ’90, però, la cultura a Lecce da fenomeno d’élite si muove progressivamente verso soluzioni di massa.
         Ma chi sono gli attori cardine che muovono le fila del “nuovo”? Tra questi un ruolo principe lo svolge Maurizio Nocera, ed assieme a lui, Ambra Biscuso, Mauro Marino -col Fondo Verri- e Pompea Vergaro – con l’associazione Mimose. Attori questi ancora oggi attivi. Sono loro che portano alla luce “nuovi” scrittori e “nuovi” poeti, con presentazioni in luoghi di ritrovo non istituzionali, nei bar, nei salotti e laddove c’è uno spazio per parlare sul piano culturale. Sono loro che in quel periodo avviano una prima fase di sviluppo, che durerà sino al 2002/2003, dove tra gli scrittori emergenti vanno citati Antonio Errico, Annalisa Bari e Livio Romano col suo libro Mindivò, edito da Einaudi, nel 2001.
         Dal 2003, segue un’altra fase di sviluppo, che si contraddistingue per la crescita di questo mondo, soprattutto sul piano quantitativo, in termini di ritualità e protagonisti. Qui vanno citati Stefano Cristante, poeta, e Luciano Pagano. E tuttavia solo dal 2010 che si avvia l’odierna impostazione –la terza fase- che si sovrappone alle precedenti: il fenomeno registra un’esplosione di protagonisti e si avviano i tour, “la cavalcate” letterarie: i libri cominciano a presentarsi in maniera seriale e corale. L’esempio più lampante oggi è costituito da Antonella Tamiano, la più seriale e commerciale, che ha realizzato in provincia più di cinquanta presentazioni in un anno. Ma tale incedere, fu avviato da Maria Pia Romano, già nel 2010-2011, altra autrice cha connota questa terza fase di sviluppo del mondo culturale leccese. A lei si associano Paolo Vincenti, Giovanna Politi, Angelo Donno.
         Un excursus questo, che meriterebbe ulteriori approfondimenti e una disamina più articolata, ma che nella prospettiva tracciata, dà contezza della nostra storia, del nostro incedere e della nostra identità, che va rinvigorita, affinché possa questo mondo avere ulteriori slanci e progressioni.

Mauro Ragosta

giovedì 13 giugno 2019

Dalla Seconda alla Terza Repubblica (parte ottava): La concentrazione del potere bancario - di Massimiliano Lorenzo


Dopo aver trattato la concentrazione del potere all’interno del quadro politico, che è avvenuto al di là delle colorazioni politiche dei vari governi, in questo pezzo per Maison Ragosta verrà proposto e trattato nelle linee essenziali un altro processo di concentrazione del potere, e cioè quello delle banche. Anche questo trascende la politica e la sua colorazione. In atto ormai dagli anni ’90, soprattutto negli ultimi 10 anni in Italia ed in Europa gruppi bancari più o meno grandi, infatti, hanno intrapreso processi di fusione e acquisizione di banche di dimensioni più contenute.
Chiariamo da subito che qui verranno esposte due versioni di queste dinamiche: una ufficiale, l’altra valutabile attraverso facili deduzioni. Entrambe verranno considerate su scala nazionale, anche se la matrice dei cambiamenti stanno nella riorganizzazione del potere bancario sul piano internazionale.
Secondo la versione ufficiale, a favorire i processi di concentrazione bancaria sono stati soprattutto tre fattori, ovvero una deregolamentazione finanziaria, il continuo progresso tecnologico e la crescente integrazione tra i mercati. Una prospettiva tecnico-economica, che solo in minima parte spiega, però, il fenomeno. Ma c’è di più. Secondo la teoria ufficiale, le aggregazioni tra banche creerebbero l’opportunità per migliorare l’efficienza nella gestione degli istituti e dei servizi per i clienti. Ecco quindi che gran parte della teoria spiega i vantaggi del cliente del processo concentrazione bancaria. Ed ancora sul piano della tranquillità del cliente, molta teoria spiega. che, nella creazione di questi grossi gruppi bancari ad aumentare è la probabilità che le banche non falliscano e di essere salvate dal sistema nei momenti di difficoltà, proprio perché “too big to fail” – troppo grande per fallire.
Dopo aver esposto brevemente la teoria di queste fusioni e acquisizioni, bisogna soffermarsi un attimo su cosa sia poi accaduto realmente. Ovvero? L’effetto finanziario positivo delle aggregazioni si è prodotto solo nel breve periodo. La motivazione è semplice: a queste operazioni non sono seguite ristrutturazioni produttive dei nuovi istituti bancari, non vi è stato un serio processo che modificasse realmente la struttura del capitale e dei servizi. Da questo, è risultato che nel medio periodo la banca si è addirittura indebolita. Ciò è rinvenibile proprio nei gruppi bancari italiani, che, nonostante il loro discreto dinamismo, sono peggiorati negli indicatori di capitalizzazione e liquidità. Un po’ come è accaduto per lo Stato italiano: sempre più indebitato e sempre più potente e controllore.
Ad una attenta riflessione, infatti, in un’altra prospettiva, si converrà che col processo di concentrazione della banche si è concentrato il potere di concedere credito e di finanziare più facilmente l’economia in una proiezione dirigista, riducendo in pochi centri direzionali chi e cosa finanziare, quale territorio far sviluppare e quale settore privilegiare. Ciò che prima era di pertinenza dello Stato, assistito da una miriade di banche, ora è tornato nella mani dei privati e in pochi centri di potere: il nuovo volto del capitalismo italiano ed europeo?
Per avere un’idea, ad esempio, la fortuna della Fiat deriva solo dal sistema bancario, in quanto l’azienda degli Agnelli ha operato ed opera con danaro prestato dalle banche per il 90%, e cioè opera quasi interamente con denaro preso a prestito. Ne viene spontaneo capire che se le banche decidessero di far chiudere la Fiat ci metterebbero pochissimo tempo. Ma ci si chiede ancora: e perché le Banche non hanno voluto finanziare una Fiat al Sud? Che per caso non s’è trovato al Sud l’Agnelli di turno? E ci si deve chiedere ancora quanta parte ha avuto il sistema bancario nel fermare lo sviluppo del Sud e favorire quello del Nord?  
Al riguardo va ancora osservato, infatti che, l’accelerazione dell’arretramento del Mezzogiorno d’Italia degli ultimi vent’anni si sviluppa in corrispondenza dell’accelerazione del processo di concentrazione del potere bancario, che ha annullato definitivamente i grossi gruppi bancari del Sud, come il Banco di Napoli e la Banca del Salento, la più grande banca privata nazionale: il nuovo volto della subordinazione Meridionale? E’ stata, dunque, eliminata ogni possibilità di rilancio del Sud?
In definitiva e al di là di ciò, il processo di concentrazione del potere nel sistema bancario ha solo prodotto una possibilità da parte di pochi soggetti di controllare e dirigere più agilmente il sistema economico-imprenditoriale sull’intero territorio nazionale, come analogamente è successo a livello europeo.                                          
Massimiliano Lorenzo

lunedì 10 giugno 2019

Post-evento n°2 - Gallipoli, Lido San Giovanni: concerto per Titti Pagliarini - di Mauro Ragosta

           E’ stato inaugurato ieri, 9 giugno, il programma estivo del Circolo La Fenice di Gallipoli, presieduto da Titti Pagliarini, attore culturale di primissimo piano a Gallipoli e non solo, che, a partire dagli anni ‘70, è protagonista di innumerevoli iniziative ed eventi di varia caratura. Una donna che, non è azzardato affermare, si specchia nella sua bella Gallipoli, come Gallipoli si specchia in lei.
            Il Circolo La Fenice, al suo sesto anno di attività, apre, dunque, la programmazione estiva 2019, che si terrà prevalentemente e come gli altri anni, presso lo storico Lido San Giovanni, con un concerto dedicato alla sua presidente, Titti Pagliarini appunto, in occasione dei festeggiamenti per il suo settantesimo compleanno. Sul palco della rotonda del noto lido gallipolino, il M° Enrico Tricarico, valente pianista originario della Città Bella, con importanti esperienze di caratura internazionale, e il M° Gianpiero Perrone, sassofonista salentino di grandi e riconosciute abilità musicali; a condurre magistralmente la serata, invece, troviamo il M° Ivan Raganato, una delle più belle voci di Puglia e leader della storica compagnia teatrale Scena Muta di Copertino.
            Il tocco virile, preciso e pulito del M° Tricarico al pianoforte e la tecnica matura e sapiente del M° Perrone col suo sax si sono articolate attraverso un canovaccio di pezzi prevalentemente centrati su brani tratti da colonne sonore dei più noti film prodotti tra gli anni ’50 e gli anni ’90. Ovviamente, non sono mancati i brani di Ennio Morricone, quelli più famosi, ad i quali si sono aggiunti, tra gli altri, i componimenti di Nino Rota e Luis Bacalov. Un potpourri musicale che ha visto l’esecuzione anche di New York, New York e Moon River, quando la serata ha toccato il suo momento più vibrate, tendendo al massimo il livello emotivo della platea, che mai ha perso la sua compostezza e che ha apprezzato in maniera molto sentita l’evento.
            Dopo un ricco bis, il momento musicale della serata si è chiuso alla 22:30 ed è stato seguito da un frangente più conviviale e sociale tra gli iscritti della Fenice, che oramai superano il centinaio di soci. Una struttura associativa, La fenice, che, ben diretta da Titti Pagliarini, è riuscita a dare alla vita culturale gallipolina una organizzazione più compiuta, mancante questa, infatti, degli spazi intermedi e della continuità, che per un centro di primaria importanza, quale quello gallipolino perlappunto, non poteva essere assente nella geografia leccese nella sua proiezione distrettuale sul piano culturale.
            E così, vale la pena sottolineare e per concludere, che se, con riferimento all’arco ionico della provincia di Lecce, a sud, verso il Capo di Leuca, troviamo come punto di sicuro riferimento culturale Luigina Paradiso, a nord, a Gallipoli, troviamo, invece, Titti Pagliarini, due donne di indiscusso valore circa il loro apporto nel senso del progresso del nostro territorio. 

Mauro Ragosta

sabato 8 giugno 2019

Saper comunicare (parte seconda): L'analfebetismo funzionale - di Danilo De Luca


Quante volte, nel corso di una giornata, siamo chiamati a utilizzare le parole? Tante, tantissime, e in modo non quantificabile. D’altro canto, siamo in una società dove la relazione è centrale nell’esistenza dell’individuo, da qui la necessità di interloquire con frequenze altissime. Alcuni interscambi sono superficiali, basati sui convenevoli; altri sono funzionali, orientati a ottenere qualcosa di specifico: “Un caffè, grazie” o “10 di diesel, per favore”. Ciò che rimane, ovvero la maggior parte delle nostre relazioni di tutti i giorni, è costituito, invece, da comunicazioni complesse; modalità di relazionarsi che richiedono una reale presa di consapevolezza dell’altro, delle sue ragioni, del suo punto di vista, del suo vissuto, nonché dei propri obiettivi, delle proprie intenzioni e da qui la scelta del linguaggio da usare e modulare, non solo nella prospettiva lessicale, ma anche delle formule comunicative. E si tratta, in definitiva, di comunicazioni che, il più delle volte, si presenta altamente problematica, dove non tutti riescono a raggiungere risultati ottimali, efficaci, significativi. Il motivo? La risposta, probabilmente, si intercetta comprendendo e riflettendo sulla questione legata all’analfabetismo funzionale.
In Italia, un cittadino su due è analfabeta. Non pensate all’analfabetismo stricto sensu, proprio di chi è incapace di leggere e di scrivere correttamente in italiano. Qui si parla di un altro fenomeno, conosciuto come analfabetismo funzionale, o illetteralismo: sappiamo parlare e scrivere correttamente - chi più, chi meno - ma non siamo in grado di capire né quello che ci viene detto né quello che leggiamo, come, molto spesso, non siamo coscienti di ciò che diciamo o scriviamo. Sovente non si è in grado di comprendere periodi complessi, costretti a interpretare una frase per volta. Le ultime stime Ocse rivelano che, in Italia, la percentuale di analfabeti disfunzionali è pari al 37,7% della popolazione nella fascia d’età compresa tra i 16 e i 65 anni (dati del 2016). 
Ci illudiamo che comunicare molto sia lo stesso che comunicare bene. La società entro cui espletiamo noi stessi impone un flusso relazionale di una portata mai vista in precedenza e l’uomo comune prova a barcamenarsi in qualche modo in questo mare magnum della comunicazione. Da qui, ecco che per lo scambio verbale con l’esterno si ricorre sempre più spesso a forme paraverbali che scorrono quasi sempre via smartphone; usiamo emoticon che ci riconducono in una forma di tribalismo moderno, che banalizza in modo grossolano una realtà troppo complessa per essere codificata, prima ancora che essere espressa. Molto spesso ci si riduce ad un linguaggio macchina, per usare una metafora informatica, fatto di soli due segni, talché la comunicazione diventa un vero e proprio gioco d’azzardo, una sorta di zecchinetta letteraria. Non sappiamo configurare noi stessi e da qui il prossimo non sa recuperarci in ciò che vogliamo dire e comunicare. E così ci allontaniamo, pur non essendo mai stati così vicini.
Secondo i dati Istat, ad esempio, le separazioni si sono più che raddoppiate nell’ultimo ventennio e, oggi, oltre un matrimonio su cinque dura meno di diciassette anni. Le ragioni, molteplici e complesse, in ogni caso vedono come centrale l’incomunicabilità. Essere analfabeti funzionali, all’atto pratico, vuol dire non essere in grado di dare forma ai propri sentimenti e ragionamenti; vuol dire scontrarsi con il disagio di sentirsi incompresi e di non saper comprendere.
Su altro fronte, poi, va considerato che, il numero di parole a disposizione dell’individuo comune, almeno in Italia, è bassissimo, aggirandosi intorno alle cinquecento, mille. E’ facile comprendere così che tale circostanza chiude il cerchi dell’analfabetismo, dove non solo non si capisce e ci si capisce, ma si hanno a disposizione pochissimi termini per esprimersi ed esprimere una realtà, una circostanza.
         Ecco quindi che, mentre da una parte la nostra società si evolve inel senso della complessità, che di fatto richiede una formazione sempre più spinta, dall’altra il livello di alfabetismo funzionale presenta frequenze sempre più basse, dove è dilagante il fenomeno che si sostanzia nell’incapacità-impossibilità di comunicare, rendendo così le relazioni, centrali nella vita dell’individuo comune, altamente imprecise, inefficaci, sfociando così queste in vari tipi di disagio, dove quello psicologico è solo quello più evidente.

Danilo De Luca

mercoledì 5 giugno 2019

Centrodestra a Lecce: le ultime smazzate? – di Mauro Ragosta

       Dopo l’ultimo ammutinamento di truppe ed alti graduati, il centrodestra leccese si intrattiene ancora in un contraddittorio solitario dei suoi generali, in cerca dei colpevoli, perdendo così ancora più forze ed energie. Si tratta, in definitiva, di una vera e propria “guerra civile” tra i sopravvissuti ad un processo di abbandono massificato e collettivo e che trova la sua causa efficiente nell’autoreferenzialità proprio dei vertici del centrodestra e da postulanti ignorati e maltrattati.
         Una situazione questa che sta portando ad un’ulteriore, graduale e progressiva presa di distanza del cittadino comune, come di quelle risorse che potrebbero forse rianimare l’intero sistema di centrodestra.
         Situazione, comunque, già vista e che con molta probabilità porterà ad un intervento di forze politiche ed economiche esterne alla provincia, che si tradurranno in perdita di autonomia decisionale locale, a tutto vantaggio di quelle di caratura nazionale, con netto peggioramento dell’intero sistema sociale leccese.
         Tutto lascia intravedere un certo cambiamento dello scenario con ottobre. E ciò, in parte perché le contraddizioni interne del centrosinistra, già tutt’ora operanti, arriveranno ad un certo grado di maturazione e creeranno crepe in quel sistema che durante le elezioni si era compattato, in parte perché gran parte delle battaglie politiche esplodono puntuali dopo la pausa estiva, nella quale si maturano gli intenti e le strategie del nuovo anno.
         Certamente, l’efficacia del centrodestra in ottobre, le sue capacità di penetrare nelle crepe del centrosinistra, che cominceranno a generarsi con la nomina degli assessori, dipenderanno molto dagli esiti dell’attuale “guerra civile” non solo in termini di risultati, ma anche in termini di tempi, che se dovessero allungarsi oltre misura rinvierebbero di molto le azioni offensive.
         In tutto questo, il baronaggio di Emiliano, uomo che ha ben saldo il senso del potere, sarà determinante, avendo avuto lui un ruolo “di tutto riguardo” per la vittoria del centrosinistra, e molto probabilmente sposterà l’asse delle dispute e delle trattative leccesi sul piano nazionale, dove ovviamente il ruolo dei politici locali, da una parte e dall’altra, sarà del tutto molto limitato e circoscritto ad operazioni di piccolo cabotaggio. Insomma, Lecce sarà una delle carte da giocare in possesso di Emiliano e che rientrerà in sue precise strategie, che verranno maturate a Bari.
         E a quanto pare, il risultato complessivo del confronto politico leccese degli ultimi due anni, porterà ad una accelerazione del processo di meridionalizzazione del capoluogo salentino ed il completo rientro nella sfera barese, dopo che nel 2015 la città di Lecce ha registrato una posizione apicale, facendo rilevare il reddito pro-capite più alto dei capoluoghi di Puglia.

Mauro Ragosta

Archivio Ragosta: Gli intellettuali, falsi e cortesi? - di Mauro Ragosta


           I pensatori, gli intellettuali, i maitre à penser fanno soprattutto esercizi di logica e razionalità, rifacendosi a realtà astratte, oppure sono i principali attori sociali che ascoltano il cuore, la propria intelligenza istintiva e propongono una vita dove le profondità dell’essere sono le protagoniste dell’esistenza? La loro coscienza è agganciata a principi mentali o alla realtà, quella inevitabile, ineluttabile, da sempre presente nella vita dell’uomo e della società?
         Moltissimi sono gli intellettuali che credono che ciò che è razionale sia anche reale. Pochi invece quelli che muovono dal principio opposto, per cui ciò che è reale è razionale. Nei primi prevale la mente nei secondi il cuore! I primi più diffusi e accettati, i secondi solo per chi ha molto riflettuto sull’esistenza e sulla propria natura.
         Ed ancora, tra i primi, molti gli intellettuali che sollecitano l’invidia, la lussuria, l’albagia, l’avarizia del cittadino, facendo vedere felicità che in sostanza non esistono. E questo perché, ad esempio, l’invidia altro non è -all’attento osservatore- che una negazione dell’essere e fonte di molte infelicità. Una società invidiosa e sollecitata nei sentimenti negativi non ha futuro, sebbene nel breve periodo possa produrre risultati esaltanti. E terribile è la propaganda politica e giornalistica, che sollecita e stimola il comune cittadino verso sentimenti negativi, i quali invece dovrebbero essere tenuti strettamente sotto controllo sia a livello individuale sia sociale.
         E’ da questi input che è nata la rivoluzione culturale in Cina e il socialismo sovietico, i quali sono stati i regimi più spietati e disumani che l’umanità abbia mai conosciuto. L’appiattimento materiale, culturale e sociale sono state le peggiori sciagure che la storia abbia registrato.
         In tale direzione, ancora oggi il benessere materiale è visto come la panacea di tutti i mali, e la ricchezza come meta agognata per tutti, senza considerare le reali vocazioni di un individuo, di una società che quasi mai coincidono con l’opulenza. E a tal proposito nei tempi che stiamo vivendo il più grosso problema dell’individuo medio è la ricerca del senso della propria esistenza: ricchi e disperati!
         La felicità è stata dipinta dagli intellettuali illuministi in ettari di ricchezza materiale, senza considerare le vere esigenze dell’essere. Questi i veri limiti del liberismo e del socialismo. Tutti e due non hanno considerato che la portata dell’individuo varia da luogo a luogo e da tempo a tempo, dove l’opulenza materiale è una delle tante variabili in gioco per il raggiungimento della felicità, del benessere e della pienezza.
         E poi si è spinti verso il raggiungimento delle sicurezze, ma mai s’è fatto qualcosa –se non nelle classi più agiate e per certe persone particolarmente avvedute- di dare corso alle esigenze profonde dell’individuo. Gli intellettuali assassini, promotori delle masse, hanno fatto vedere che l’uguaglianza materiale, un regime di sicurezze o una forte competizione avrebbero portato alla felicità. Senza dubbio le sicurezze, la giustizia e la competizione sono dei beni importanti, ma non hanno nulla a che vedere con la felicità, la realizzazione personale e la pienezza.
         Il disorientamento della società attuale risiede proprio nella non più efficace grammatica illuministica. Se questa ha distrutto l’ançien regime non si è posta però come soluzione per l’individuo oggi. Un individuo che oramai vive una vita fine a se stessa, da automa, senza un perché profondo e in definitiva senza una sostanziale giustizia e un’efficace azione per il suo prossimo, anche quello più vicino a lui.

Mauro Ragosta

Articolo pubblicato nel 2015 su Carriere Salentino

domenica 2 giugno 2019

Ritratto foto-letterario n°4: Maria Antonietta Vacca - di Mauro Ragosta


            E così, siamo al quarto appuntamento della rubrica di Maison Ragosta, ritratti foto-letterari, avviata sul finire dello scorso marzo e che fino ad oggi ha riscosso un significativo successo di critica e di pubblico.
            Questa  volta ci si è spostati da Lecce ed i suoi personaggi, per andare a Copertino ad incontrare e fotografare Maria Antonietta Vacca, e non solo perché lei è una nota e valente attrice della compagnia teatrale Scena Muta, ma anche per la sua evidente bellezza, che ça va sans dire,  e per il suo essere donna solare e dirompente.
Elegante, dai grandi slanci, fervida e scattante nei suoi entusiasmi, capace di convivialità dirompente, Maria Antonietta non manca di un singolare acume, che si intuisce subito, ma si fa fatica a concettualizzare, tanto è raffinato e sottile. E’ madre. Tuttavia, Maria Antonietta è qualcosa di più di tutto questo. C’è qualcos’altro! Infatti, mi ha incuriosito e mi incuriosisce di lei soprattutto il suo ruolo nel mondo dell’Arte, dello Spettacolo e della Cultura del Distretto Salentino, rispetto al quale quanto segnato, in larga parte, pare sia strumentale.
            Maria Antonietta è per sua natura donna sfidante ed il proscenio dovrebbe soddisfare le sue necessità competitive, far spuntare dalla sua anima il meglio di sé. Ed invece, no! La scena è per lei solo in parte lo spazio per realizzare il suo essere profondo: vuole di più dalla vita, sebbene a questa sia riconoscente per quello che le ha dato. Vuole dare un contributo più ampio al suo mondo, a quello del teatro appunto, a quello della cultura in senso più ampio.
            Mi preme evidenziare, in quest’occasione, che tutto mi conduce a considerare Maria Antonietta Vacca, infatti, uno dei motori più significativi che contribuiscono allo sviluppo del teatro in senso lato in provincia di Lecce, in una direzione moderna, imprenditoriale, al passo con i tempi, in una prospettiva che si stacca nettamente dal contesto locale, che pare ingessato su posizioni oramai datate, vecchie, capaci solo di far crescere e prosperare modelli tipici degli anni ’70 e ’80, e prive, dunque, di una reale dimensione di rinnovamento, creativa, di sviluppo insomma.
            In tale prospettiva, non è azzardato affermare che Maria Antonietta, supportata e sapientemente diretta da suo Maestro, Ivan Raganato, leader di Scena Muta, che ha un entourage di tutto riguardo sul piano della qualità, è una delle novità nel mondo del teatro salentino. E davanti a sé ha ancora molti anni di attività, essendo solo una quarantenne, e per questo non è fuor di luogo pensare che Maria Antonietta sarà tra coloro che contribuiranno a traghettare proprio il teatro salentino verso scenari inediti e tutti da scoprire. D’altronde ha l’energia, l’intelligenza e l’età giusta.
            Sulla scena, poi, la sua personalità vigorosa, a tratti graffiante, si nota subito. Riesce a canalizzare la sua grande vitalità e la sua grande passione per la recitazione in momenti vibranti, di rottura, che scuotono l’emotività del pubblico. Eppure, stiamo parlando di una neofita del teatro: ha cominciato a recitare da non molti anni, dal 2013 precisamente, ma la sua importante progressione pare solo agli inizi di un lunghissimo percorso, di una lunga scena, di un monologo capace di tenere il pubblico col fiato sospeso per un’intera serata.
            La sua impostazione tecnica sul piano della recitazione, che denota già una certa maturità, d’altro canto le consente sovente di costruire performance coinvolgenti e che fendono anche platee importanti. Memorabile resta, al riguardo, la sua esibizione, raffinata e possente, al Teatro Apollo di Lecce, lo scorso dicembre, nella nota piece La Dea Trans.
            Anche per lei degli scatti non commerciali, che tentano di mettere in risalto la sua posizione strategica in scenari ampi, dove sole spiccano la sua bellezza, il suo modo di interpretare la sua esperienza nel contesto che ama, quale appunto il teatro. Certamente, non si è mancato di realizzare dei primi piani spinti, dai quali trasudano tutta la sua femminilità, la sua capacità di essere disponibile, inclusiva verso il prossimo, soprattutto verso il pubblico.
Ad ogni  modo, raccontare Maria Antonietta Vacca non è impresa facile, ma si è sicuri di aver messo in luce alcuni aspetti tra quelli salienti del suo essere, della sua anima, ed alcune essenze, alcuni aromi che la contraddistinguono.

Mauro Ragosta