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sabato 29 febbraio 2020

Cultura laica e cultura accademica nel leccese: un percorso andata e ritorno - di Mauro Ragosta

         Va subito riferito, in questo scampolo giornalistico, che intendiamo per cultura laica tutta quella produzione libraria legata alla narrativa, alla poesia, alla saggistica, facente capo a chi non è accademico. In tale prospettiva, con grossi margini di approssimazione, rientra in tale ambito anche il mondo della musica, sganciato dal Conservatorio Musicale.
         Come è noto, la cultura laica e popolare nell’accezione segnata, si è sviluppata intorno alla metà degli anni ’90 del secolo scorso, e dopo il 2010 ha registrato una accelerazione così tumultuosa, che pare non conosca precedenti in termini quantitativi, mostrando dall’altra, procedure, prassi e ritualità molto spesso nuove.
         Negli ultimi sette anni, in effetti, si è assistito in provincia di Lecce oltre che ad una enorme produzione libraria e l’ingresso sul mercato di una miriade di scrittori, anche lo sviluppo di eventi, manifestazioni e premi, che si susseguono a ritmi incalzanti tutto l’anno. Dopo il 2010 compaiono, inoltre, le presentazioni di libri in maniera seriale da parte di molti autori, e negli ultimi anni, le presentazioni corali. Nascono nuove case editrici con strategie più innovative e aderenti al momento, in ciò favorite anche dallo sviluppo di certe tecnologie. In contemporanea, si sono create reti di location e rassegne per accogliere l’intensa attività pubblica degli autori laici. Molte poi sono le rassegne e l’organizzazione seriale degli eventi non solo promosse da associazioni culturali e librerie, ma anche dai Comuni e dai loro assessorati alla cultura.
         Insomma, si è venuto a delineare un vero e proprio sistema di produzione, pubblicizazione e scambio di libri e affini, di tutti i generi. Anche il mondo della musica ha conosciuto dinamiche simili e pare che si muova in sintonia e in parallelo col mondo dei libri di autori locali.
         Tutto ciò ascrivibile, come s’è detto, alla cultura laica, che ha costruito un’arena competitiva sulla quale poi, negli ultimi anni si è innestata la cultura accademica, che, sfruttando il proprio status, ha trovato in questo terreno sistemico delle risposte alla crisi che sta attraversando l’università, nuovi ruoli all’interno del territorio di riferimento. A tal riguardo, si parla di Terza Missione.
         Si sa, l’università, negli ultimi trent’anni, ha registrato una profonda metamorfosi e da agente formatore della classe dirigente si è trasformata in struttura delegata a rimanere nel mondo della prima alfabetizzazione della popolazione. Certamente, conserva ancora buona parte dei saperi alti, che tuttavia continuano progressivamente a rifluire in altri ambiti e strutture istituzionali.
         Ed ecco che, i luoghi della cultura laica, sorta spontaneamente venticinque anni fa, sono diventati, soprattutto nell’ultimo lustro, anche i luoghi della cultura accademica, in cerca di nuove funzionalità, nuovi stimoli, nuovi compiti, nuove opportunità di sviluppo.
         Ma la relazione tra cultura laica e cultura accademica non è unidirezionale. Esiste tra i due mondi un processo osmotico, una reciprocità, una sorta di equilibrio alchemico.
         In tale direzione, la cultura universitaria, infatti, si pone come modello estetico per la cultura laica, che, subendone il fascino, tenta di riprodurre i suoi modelli formali. Insomma, l'aplomb del docente universitario ha ancora il suo fascino. E ciò anche se il mondo laico negli ultimi anni pare stia elaborando soluzioni estetiche sue proprie, tipizzanti, più al passo con i tempi e vicine al mercato. Un mercato dove il consumatore finale comincia a reagire a tutte queste sollecitazioni rivenienti dagli attori culturali autoctoni, indirizzandone così i loro processi decisionali. Certamente, ciò si manifesta a livello embrionale, ma è sicuro che tale tendenza prenderà corpo in maniera evidente da qui a qualche lustro, incidendo così sull’offerta culturale e avviando con questa un processo dialogico.
Mauro Ragosta

venerdì 28 febbraio 2020

Post-evento n°11: Ieri a Cavallino la presentazione dell’ultima creazione letteraria di Giuseppe Pascali – di Mauro Ragosta


         Più che un evento culturale, la prima dei lavori letterari di Giuseppe Pascali, sempre ospite della bellissima Galleria del Palazzo Ducale di Cavallino, è di fatto un avvenimento, e non solo per il noto centro salentino, che sempre si distingue come vera e pullulante città d’arte, ma anche per il mondo del libro nel Nostro distretto culturale, quello leccese appunto. 
            Ed ecco che, ieri sera, in una sala gremite di fans di Giuseppe Pascali, per la presentazione del suo ultimo lavoro, La Confraternita del Re, molte sono state le presenze di noti scrittori salentini, tra i quali vanno ovviamente citati Maria Pia Romano, Carlo Stasi, Rossella Maggio, mentre tra gli esordienti va segnalato Antonio Cotardo e tra gli artisti il M°Arnaldo Miccoli. Presenti erano anche le bellissime e note presentatrici specializzate in eventi letterari, ovvero Marcella Negro e Fiorella Mastria.
         L’abbrivo alla serata è stato dato dal Primo Cittadino di Cavallino, l’avvocato Bruno Ciccarese. Con destrezza oratoria, oltre ai saluti istituzionali, ha tracciato la figura letteraria di Giuseppe Pascali: noto non solo per essere un valente giornalista della Gazzetta del Mezzogiorno, ma anche uno tra i più rinomati scrittori specializzato in romanzi storici, non mancando ovviamente nella sua produzione altri generi, tra i quali spiccano quelli sulle Bande Musicali.
            A seguire, particolarmente pregiato è stato l’intervento di Alessandro Laporta, Direttore Emerito della Biblioteca Provinciale “Bernardini, una delle colonne portanti della cultura leccese e salentina. Il professor Laporta, in poche battute, ha offerto al gremito parterre gli snodi chiave del romanzo di Giuseppe Pascali, non solo sotto il profilo meramente narrativo-letterario, ma anche negli aspetti tipicamente storico-culturale. Inoltre, partendo dallo scenario storico de La Confraternita del Re, quale quello della Venezia di metà ‘500, all’epoca il più importante centro finanziario d’Europa, ha rimarcato i legami esistenti con nostra terra, che Pascali ha saputo sfumare e aspergere in alcuni particolari ed indizi posti nella trama del suo romanzo. Ma il Nostro Laporta, in maniera stimolante ha messo in luce anche gli aspetti “esoterici” del romanzo, che lui definisce a tutti gli effetti un Noir, al quale ovviamente non manca la canonica e al tempo stesso affascinante storia d’amore, e dove nulla è casuale. Qui, i colpi scena che Pascali ha saputo architettare, per Laporta rendono la lettura briosa ed entusiasmante, snodandosi nello specifico tra spie, segreti e servizi segreti, sette e…misteri.
            Protagonista dell’ultimo intervento è stato del Redattore Capo de La Gazzetta del Mezzogiorno, Vincenzo Sparviero, il quale, oltre che a definire La Confraternita del Re una spy story, ha voluto insistere sul valore della lettura, quale strumento non solo di arricchimento culturale, ma, come nel caso del romanzo di Pascali, quale attività che funziona come una Macchina del Tempo.
            Nel suo dialogo col Nostro autore, il dottor Sparviero è stato abile nel far  portare alla luce gli aspetti più nascosti e reconditi del lavoro. Tra questi, la grande passione del Pascali per la ricerca storia, mossa da una “inguaribile” curiosità per tutto ciò che rappresenta il passato e che muove, quasi in automatico, la sua penna e alimenta le sue, già abbondanti, virtù letterarie.
            Ad intermezzare la serata, l’avvincente lettura da parte di Carla Guido, capace di “salti di sesta” nel porgere il testo di Pascali ai presenti. In ciò, accompagnata dai motivi musicali proposti dal Maestro Gianluca Milanese, sempre virtuoso e “magico” con i suoi flauti.

Mauro Ragosta

martedì 25 febbraio 2020

I leccesi sognano? - di mauro ragosta

         I leccesi sognano? Pare di no! Naturalmente, è bene precisare che per leccesi si intendono gli abitanti della provincia di Lecce e non solo i residenti nel capoluogo. Ciò detto, va subito evidenziato che, sotto il profilo sociale a partire dagli anni ’70 dello scorso secolo, nell’immaginario collettivo leccese il posto statale, magari nell’Università o, va benissimo anche, in un istituto bancario appaiono l’Eldorado dell’esistenza: e qui la corsa è frenetica e compulsiva. La moltitudine vuole e voleva appartenere alla fascia di protezione dello Stato, perché l’impiego pubblico appunto garantisce la stabilità e l’invulnerabilità. E non importa al comune leccese l’amore per la propria terra, il riscatto individuale e collettivo. Forse, perché deturpato nella memoria, ignora che Terra d’Otranto è stata una delle aree tra le più ricche ed internazionalizzate della nascente Italia; che alcuni prodotti salentini in tale epoca venivano quotati nella Borsa di Londra; e che proprio Lecce veniva definita dai grandturisti una delle città più evolute d’Italia. E dopo un secolo, a partire dagli anni ’70 appunto, i leccesi cominciano a sognare la sistemazione, realizzando così il passaggio da capitani d’impresa a dipendenti a vario titolo. Una sistemazione che oggi, nella upper class salentina si è trasformata nell’emigrazione di lusso, di giovani agiati appunto, in cerca di lavori gratificanti ed evoluti a Roma, Milano, Parigi, Londra, continuando sulla scia della dipendenza, ovviamente.
         E nessuno sa perché nella nostra provincia il tasso di disoccupazione sia tra i più alti del Paese ed i contenuti culturali della nostra economia molto modesti. Il luogo comune è che la nostra si presenta come una terra povera. Una convinzione che stride forte con le dinamiche socio-economiche occidentali, dove proprio la terra non è un fattore rilevante per lo sviluppo economico ed il riscatto culturale. Un’idea che ignora completamente che siamo inseriti in un’economia, quella Occidentale, che ha per capitale funzionale la conoscenza e il sapere; che hanno per dictat il life long learning. La “sistemazione leccese”, cui si affianca la corsa e rincorsa ai Fondi Pubblici di vario tipo, invece, sono intesi spesso come riposo e svago, garanzia economica e di felicità nella prospettiva ludica. Nelle fasce popolari, poi, tale quadro si tramuta nella penosa lotteria del “gratta e vinci” in cerca anche qui di riposo e svago appunto, garanzie economiche e di felicità per i fortunati.
         Da questo quadro, naturalmente, vanno distinti e si distinguono alcune individualità leccesi di grande spicco, alcuni capitani d’impresa. Per il passato, riferendosi ai primi del Novecento, valgono gli esempi di due sognatori come Guacci e Peluso: il primo, con le bambole e la cartapesta esportate sino a New York; il secondo con i suoi manufatti in cemento esportati in tutto il Mediterraneo. Per gli anni ’70 non si può non menzionare la Sirio: nascente industria automobilistica, facente capo ad un certo Candido di Maglie, che produceva vetture di lusso in competizione con la Ferrari e la Lamborghini. Un’industria che, per oscuri motivi, non decollò mai e cadde nella più becera dimenticanza, sebbene esistano ancora oggi i prototipi di quelle auto in una vecchia fattoria abbandonata del torinese (chissà perché lì?). Ma di capitani d’impresa di primo rilievo, il mondo leccese è costellato nelle varie epoche, scemando lo scenario negli ultimi decenni, dove "spicca", però Filograna di Casarano, con la Filanto, la più grande industria europea di scarpe fino al 2002, data dell’adozione dell’Euro, che ne sancisce la fine. A lui si aggiunge Romano con il noto marchio Meltim'Pot.
         Nel suo complesso è una società, quella leccese, che, amputata dei "capitani" non sogna il suo riscatto, pur essendo orgogliosa del suo barocco, dei suoi monumenti, del suo mare. Non sogna perché priva del suo reale passato di area ricca e potente, capace e laboriosa; perché indolente di intercettare nelle sue intellighènzie i motivi, probabilmente ingiusti, attraverso i quali lo Stato con forza e forzatamente l’ha relegata a regione di supporto economico allo sviluppo delle regioni settentrionali, soprattutto, in passato, come area fornitrice di risparmi e braccia per l’industria del Nord. E non solo. Uno Stato che ha pure instillato un drammatico senso di minorità, quasi sempre a detrimento dell’identità, anche a livello individuale. Ed oggi, le sofferenze ancora più acute si insinuano drammatiche nelle fasce di disoccupati, oramai preponderanti per la società leccese. E i salentini non vogliono vedere le storture di una politica che è in maniera surrettizia ha remato contro lo sviluppo locale. Da qui un meridionalismo ignorato, fatuo per i leccesi: gli è estraneo e gli intellettuali tacciono sotto il peso dell’impiego statale; uno Stato enorme e potente, schiacciante! I leccesi non sognano?  Probabilmente non vogliono sognare, preferiscono la vita ludica,  l'andare a combattere, sì, ma in un territorio dove si pratica il softair, con tutto rispetto per il softair. E ciò, appare l’unico filo conduttore per il futuro, di una vita sociale soddisfacente sia sotto il profilo individuale sia sotto tutti gli aspetti sociali.

Mauro Ragosta

domenica 23 febbraio 2020

Pensatori Contemporanei (parte quarta): Norberto Bobbio – di Mauro Ragosta

 
                                                                                                                           Ph. Lucio De Salvatore
         E veniamo, seppur nei tratti salienti, a dipingere una panoramica del terzo pensatore proposto dalla Nostra rubrica. Dopo Karl Popper e Ralf Dahrendorf, qui è la volta di Norberto Bobbio, che come i primi dà un contributo importante all’affermarsi del relativismo -per alcuni aspetti ribattezzato dal comunista Gianni Vattimo “pensiero debole”- e da qui anche al consumismo. Bobbio è forse il più importante pensatore italiano in tale direzione e per quanto riguarda il contesto e la dimensione politica. Ciò è evidente se si mette in secondo piano la sua intera opera filosofica, che certamente presenta una valenza di non poco conto, ma rispetto al suo impatto sulle masse in Italia è stata ed è sicuramente minore, almeno direttamente, rispetto alle sfaccettature più tipicamente aderenti al mondo politico.
        Norberto Bobbio nasce a Torino nel 1909 in una famiglia decisamente benestante e facente parte della upper class italiana. Nel 1931 si laureò in giurisprudenza, nel 1933 in filosofia e nel 1934 ottenne la Libera Docenza in Filosofia del Diritto, che avviò la sua brillantissima carriera universitaria, seppur, per lunghi tratti, contraddittoria. Fu infatti un antifascista, nonostante “godette” del Regime e spesso colmò i vuoti generati dalle leggi raziali, che portarono all’allontanamento di numerosi docenti universitari di origine ebraica. Fu anche arrestato due volte, ma l’intervento della sua famiglia decisamente votata al fascismo fu decisivo per la prosecuzione della sua vita accademica. E ciò a tal punto che proprio su sollecitazione di Mussolini, Gentile ottenne la Cattedra di Filosofia del Diritto all’Università di Camerino e da qui una progressione importante riuscendo ad insegnare poi a Siena e a Pavia. Dal 1948, infine, insegnerà a Torino fino a diventarne Professore Emerito nel 1979. Nel 1984 fu elevato Senatore a Vita dal Presidente della Repubblica, Sandro Pertini, iscrivendosi al Gruppo Misto e poi schierandosi prima nei Democratici di Sinistra e poi nel Partito Democratico.
            In Particolare, sul piano politico, durante la Prima Repubblica, fu un socialista con impronta fortemente liberale, non a caso il massimo successo come pensatore lo raggiunse durante la Seconda Repubblica, che lo accompagnò sino alla sua morte, avvenuta nel 2004. Di sicuro, tuttavia, già nei decenni precedenti agli ’90 fu un punto di riferimento per la sinistra italiana, rappresentando, infatti, un intellettuale di primissimo livello nella costruzione del percorso politico di socialisti e comunisti. Si deve a lui il passaggio dai principi egualitaristici e fondamentalisti della sinistra italiana ad una prospettiva decisamente più morbida, ragionevole, si potrebbe affermare.
            E’ un intellettuale, che sebbene di sinistra ed in favore di un uso spinto della Ragione nell’accezione illuministica, mai perde il contatto con la realtà e con l’evolversi della storia, nella sua composizione e nelle sue dinamiche. Non è azzardato affermare che Bobbio sia sempre stato espressione del suo tempo. E non a caso, fu lui che aprì la strada al pensiero e alla cultura di sinistra nella Seconda Repubblica, abbattendo tutti i pregressi rivoluzionari e statalisti, tipici del comunismo nella sua proiezione intellettuale.
            In quest’ultima direzione, punto di partenza del pensiero di Bobbio fu l’abbattimento della diade destra-sinistra, ritenuta inadeguata ai nuovi tempi (e forse al Nuovo Ordine?), per costruire un nuovo dictat sociale, quale il disciogliere i benefici e i vantaggi della grande borghesia a livello popolare, e certamente questo in termini esclusivamente materialistici. Solo partendo da tale assunto rielabora il concetto di uguaglianza, tanto amato dalla vecchia nomenclatura di sinistra italiana, e ricostruisce il quadro di riferimento politico generale del nostro Paese. Un concetto di uguaglianza che mostra accenti più spinti nella nuova sinistra, pur non essendo assoluto e rivoluzionario, e meno marcati nella destra, la cui permanenza nelle sue formazioni rimane comunque importante.
            Numerose sono state le sue pubblicazioni nel corso della sua esistenza, ma tra queste quella che ha lasciato una traccia profonda nella società italiana deve essere ricondotta a Destra e Sinistra del 1994, ovvero proprio quando si avviava in Italia la Nuova Repubblica. E’ uno dei volumi più venduti negli ultimi trenta anni non solo nel Bel Paese, ma anche all’estero. In Italia, ad oggi, si stima una tiratura superiore a 500.000 copie. Un lavoro che ha inciso profondamente nella nostra società, in quanto, in accordo con quanto sottolineato circa il suo pensiero, ha dissolto con forza tutte le rigidità dell’incedere politico soprattutto di sinistra, rendendolo certamente meno tensivo e avviandolo verso scenari più pertinenti al capitalismo e al consumismo. Insomma, con Destra e Sinistra del 1994, in Italia cessa di esistere una reale e profonda distinzione della centenaria diade e in breve termine darà luogo, soprattutto sul piano pratico e fattuale a una nuova forma di intendere la politica, che di destra e sinistra conserva solo il nome, ma anche questo non per molto tempo ancora……

Mauro Ragosta
           
           

martedì 18 febbraio 2020

L’invidia? Potente motore economico - di mauro ragosta


         E’ manifestazione generalizzata quella di voler un mondo migliore, dove alberghino la pace, l’umiltà e la fratellanza…la serenità e la tranquillità. Fondamentali i dettati del cristianesimo sul Paradiso, che facilmente sono entrati nei desiderata di tutti, nel miglior immaginario popolare. E molti sono i detrattori e i critici degli aspetti negativi dell’essere umano, peraltro naturalissimi, ma banditi dalle chiese e dalla morale pubblica. Pochi quelli che hanno colto paradossalmente gli aspetti positivi della cattiveria, dell’istintività, anche se sublimate. Tra questi Adam Smith, filosofo ed economista, il quale sottolineò che l’Uomo fosse irrimediabilmente malvagio, ma da tale constatazione ne derivò che le caratteristiche umane, naturali (e dunque inopportune?) messe a sistema avrebbero prodotto benefici più grandi dei malefici. Ed in effetti, le sue teorie, alla base della moderna economia, hanno portato ad un benessere mai raggiunto prima dall’umanità, compreso l’allungamento della vita, basandosi il tutto infatti su individualismo spinto e su alta competizione, il cui perno è la cattiveria. Insomma, non è azzardato affermare che la nostra civiltà ha messo a sistema anche il male, per raggiungere gli obiettivi fissati dagli illuministi (illuminati?) nel ‘700, quali la ricchezza materiale diffusa ed, entro certi limiti, l’immortalità.
         In tale direzione va sottolineato che, nel mondo Occidentale sono più di settanta anni che non vi si presentano guerre di rilievo, ma nella terminologia economica è entrato a pieno titolo molto del lessico militare e bellico: è finita la guerra, ma parliamo come se fossimo in guerra! Il confronto, nel mondo sviluppato, Occidentale, di fatto si disputa e si sviluppa sul mercato, tra aziende, tra banche e tra consumatori, nonché tra aziende, banche e consumatori e non più a colpi di cannone o di mitragliatori. Ma c’è di più. Uno dei libri più venduti in Italia, negli ultimi anni, è ascrivibile a Sun Tzu – L’Arte Della Guerra - che invita all’inganno, quale strumento principale, se non proprio esclusivo, in una competizione.
         In tutto questo, in questo competere, un posto principe lo occupa l’invidia, che è quel sentimento che porta un individuo a voler superare e demolire chi ha una posizione di successo, o che lui reputi desiderabile. L’invidia, uno devi veri motori della nostra società, è un peccato, uno tra i primi –si ricordi Caino- che alla base porta e parte dal non riconoscimento della propria diversità e del proprio destino. Insomma, è un ignorare nel profondo la propria persona e voler essere o superarne un’altra, che si reputa in una situazione auspicabile, un modello. Nel contempo e automaticamente, l’invidia porta, però, a sentirsi insufficienti, minoritari rispetto a certe situazioni o soggetti, porta in definitiva ad una vita da frustrati. Da qui, dall’invidia appunto, l’azione e una vita dedicate al superamento, alla scalata sociale ed economica. Si aggancia all’invidia, ovviamente, la voglia dello stupire, che spiega la spettacolarizzazione di quasi tutte le attività umane.
         Naturalmente, l’invidioso ha tutta una sua filosofia, generata per coprire e travestire questo suo sentimento socialmente bandito, la quale si traduce in proposizioni e giustificazioni che lo rendano accettabile e, per giunta, meritevole di stima e riconoscimento. Ne conseguono così certe filosofie sull’utilità, sulla necessità, sull’emulazione, sull’uguaglianza, sulle necessità di condivisione, dell’espressione intima come panacea di tutti i mali e via dicendo, che tuttavia celano sotto (o dietro le quinte?) ben altri intenti.
         D’altro canto, c’è chi, in posizione di potere e dunque anche di successo, si trova a dover rispondere a tutti gli attacchi che gli vengono dagli arrivisti, gli invidiosi che vogliono abbattere e sostituirsi alle loro posizioni. Anzi, chi è in posizione di potere comprende l’invidioso con una mossa d’anticipo. Ovvia è la conseguente sottile competizione sociale, che conduce a costruire armi esistenziali ed economiche sempre più sofisticate, sempre più evolute, sempre più incisive, per chi gioca in attacco e per chi gioca in difesa.
         Superata la soglia di sopravvivenza, l’uomo comune, infatti, produce e consuma in quantità sempre crescenti prodotti simbolici. Non a caso oggi, gran parte dei prodotti hanno un valore di mercato infinitamente più alto rispetto a quello reale. Tra le altre un prodotto di successo è un prodotto che ha un contenuto ideologico di valore: realmente non valgono niente. Ciò che si acquista è il significato, l’idea, e quelle idee e quei significati che sono efficaci ed efficienti nella competizione sociale, basata sull’emulazione e il superamento di chi reputiamo superiore a noi. Prodotti che, in definitiva, lo rappresentano e lo lanciano in questo confronto forsennato e senza una conclusione (al riguardo, è utile consultare Alexis de Tocqueville, La Democrazia in America - 1835). E così, da una parte si desiderano la pace ed il Paradiso, la tranquillità, ma dall’altro non si rinunzia alla competizione, costi qualsiasi dolore e sofferenza. Insomma, c’è chi vorrebbe un sistema diverso, ma tuttavia non è disposto rinunciare alla propria invidia o ad accettare le proprie debolezze. Oggi, solo così è possibile spiegare un certo lessico: non ci si alimenta, ma si degusta, non ci si veste, ma si indossa, non si abita, ma si risiede, non si lavora, ma ci s’impegna. Ecco, le residenze, i look, le alchimie edule e le varie orpellerie da ostentare o commentare con vanto, dove il lavoro, quello vero non esiste, risolvendosi anche questo in una questione esclusivamente simbolica.
         E così la spinta dell’insufficienza generata dall’invidia apre le porte allo sviluppo e dunque, al consumo crescente, alla produzione senza limiti, ed in definitiva, all’occupazione ed al lavoro, il tutto in una spirale crescente e centrata sul senso dell’insufficienza e della voglia di superare il prossimo. Ed in questo scenario, alimentano una certa tenerezza e simpatia, le utopie degli assistenti dell’anima, di quelle anime che in questa folle battaglia economica e sociale riportano ferite a volte inguaribili.
         Per concludere, alcuni, sin da tempi insospettabile, parlano di sana competizione per evitare le degenerazioni, ma nessuno sa tracciarne i confini da non valicare. Forse, l’unica alternativa che si pone all’avere una “sana competizione”, che potrebbe essere centrale nella politica di oggi, è il rispetto delle regole condivise, siano esse leggi siano esse prassi comuni. Ed in questo l’Occidente, forse, ha perso il senso dello sviluppo e il senso della crescita, che stanno avvenendo in maniera disordinata e convulsa, con effetti probabilmente devastanti sul piano dell’ecosistema e dell’esistenza in sé.

mauro ragosta



venerdì 14 febbraio 2020

Recensione n°11: Emozioni, giochi di specchi ed un treno nella poesia di Maria Grazia Pispico – di Mauro Ragosta

            Com’è ampiamente noto, nel distretto culturale leccese la poesia e il suo mondo svolgono oggi una parte da leone. Nel giro di appena tre lustri da fenomeni d’élite si sono trasformati in manifestazioni sociali di ampio respiro, insinuandosi in ogni anfratto del conglomerato umano del Basso Salento. La poesia, infatti, anima diecine di serate nei più disparati contenitori culturali: un vero fenomeno, che per densità e profondità non è azzardato ipotizzare sia tra i più rilevanti del Bel Paese. In tale contesto, moltissimi i poeti degni di rilievo, a più livelli e sotto vari aspetti. Ad ogni modo, tra questi una nota particolare meritano Maria Pia Romano e Stefano Zuccalà per segnanti e non comuni specificità stilistiche ed espressive.
            Nel più ampio scenario salentino, e sebbene esordiente, particolare attenzione merita Maria Grazia Pispico, che l’anno scorso ha pubblicato con Milella la sua prima raccolta di versi, ovvero Viaggiando Oltre. Un volume che si distingue non poco nello scenario generale, per il gioco di specchi che Maria Grazia usa per narrare della sua anima, delle sue parti più recondite, dei suoi recessi più nascosti e arcani, certamente ammalianti pur rimanendo espressione generale di un’umanità sempre uguale a se stessa. Un gioco nel quale la Nostra si avvale di simboli, metafore, metonimie, sinestesie capaci di tracciare le emozioni e le componenti del suo essere nelle loro dinamiche diadiche, contradditorie e allo stesso tempo irriducibili, orfane di qualsiasi sintesi e convergenza. Anche l’eros, molto presente e ben congegnato, nei suoi versi si presenta come qualcosa che rimanda ad altro, funzionale al gioco degli specchi e all’esplicitazione del suo animo.
            La Pispico certamente si esercita nella poesia per venire in chiaro con se stessa, senza alcuna intenzione di arrivare ad una qualche conclusione di sorta, ma scegliendo questa, il verso appunto, come “treno” per viaggiare nelle sconfinate plaghe del suo animo, in un incedere che la cambia irreversibilmente e non le dà la possibilità di tornare indietro, di riavvolgere coscientemente la vita. Insomma, la poesia è vettore e assieme viatico per sviluppare stati di coscienza sempre più evoluti, e forieri di un piacere che dà pienezza, compiutezza, rotondità, essendo per eccellenza novità incerta e travolgente sul piano dei sentimenti.
            Ma non finisce qui, perché occorre sottolineare lo specifico della Nostra poetessa, che sceglie nel suo Viaggiando Oltre un linguaggio semplice, quotidiano e non letterario, non colto dunque, riuscendo però sempre a scuotere il lettore, in quanto lo pone con forza di fronte a questa inconciliabilità delle incoerenti mozioni e richieste dell’essere, con destrezza compositiva e rara sensibilità. Insomma, Mariagrazia conosce in profondità il valore delle parole, che non scrive e pronuncia  per caso e a caso.
            Con Viaggiando Oltre, Maria Grazia ha voluto aprire uno spazio per il dialogo con il suo lettore, trovando anche questa opzione decisamente interessante per il suo percorso di vita. Nata nel 1967 da genitori salentini, Mariagrazia ha vissuto alcuni anni della sua vita, quelli giovanili, a Monteruga, luogo che ha segnato profondamente la sua spiritualità. Oggi risiede a San Pancrazio, dove è Maestra e titolare di una scuola di equitazione, molto innovativa e avanti rispetto al contesto pugliese. D’altronde ci si trova di fronte ad una personalità particolarmente evoluta, capace appunto di concepire Viaggiando Oltre, un libro di poesie singolare per profondità e dal punto di vista stilistico. Un libro che nasce dal suo rapporto osmotico e dunque privilegiato con la Natura, madre e fonte di vita eterna.

Mauro Ragosta

giovedì 13 febbraio 2020

Salento Economia (parte seconda): …verso il riequilibrio demografico - di Mauro Ragosta

         Dopo la seconda guerra mondiale, le economie delle province del Grande Salento presero strade diverse sino a costituire universi a se stanti, senza alcuna connessione. Dopo più di sessant’anni di storia e di lavoro, oggi queste trovano ancora pochi punti di connessione, al fine di alimentare un circuito interconnesso virtuoso e autopropulsivo. Ed in effetti, i mercati delle tre province riuniti sono insufficienti per fare decollare attività che dal mercato locale si possano poi proiettare sul mercato nazionale o internazionale, a parte e per alcuni tratti, il caso leccese. Questo, infatti, è molto più in avanti in termini di sviluppo equilibrato, rispetto agli altri due, dove molti progressi si sono ottenuti soprattutto nell’industria: dopo essersi consolidata sul mercato locale, l’industria leccese, infatti, ha mosso passi significativi verso scenari regionali, nazionali ed anche oltre. Non così per le province di Brindisi e Taranto, dove le rispettive industrie sono collegate esclusivamente ai grandi mercati e modeste sono le connessioni a livello locale. E questo, se da un lato garantisce il da vivere alla popolazione, dall’altro si presenta come un forte elemento di instabilità, al contrario del caso leccese, che soprattutto nell’ultimo quindicennio si è affrancata da simili dinamiche, producendosi in un assetto e in incedere più equilibrati, senza inficiare i suoi dati reddituali, che si presentano tra i migliori delle tre province, dove fanalino di coda è rappresentato dalla provincia di Brindisi. Non a caso, nel 2016, la città di Lecce si connota come la città capoluogo più ricca di Puglia.
            Certamente, il potenziale economico leccese, tuttavia, è per lo più non sfruttato: il tasso di disoccupazione della provincia di Lecce è vicino al 22%, mentre quello tarantino è intorno al 15% e quello brindisino è circa il 17%. Da qui, inoltre, se ne può dedurre che la produttività leccese è di gran lunga superiore a quella delle altre province del Grande Salento.
         Sotto altro profilo, v’è da dire che, il leccese soffre di sovrappopolamento, registrando una densità di abitanti per Kmq pari a 286 contro i 213 di Brindisi e i 236 di Taranto.
In particolare, va subito messo in luce che la popolazione delle tre province salentine sta rapidamente invecchiando. Nello specifico, mentre gli ultrasessantacinquenni fino a vent’anni fa costituivano pressoché il 15% della popolazione complessiva, oggi tale percentuale supera abbondantemente il 20%, dove tale valore arriva al 22% nella provincia di Brindisi e al 23% nella provincia di Lecce, quella col maggior carico di persone anziane.
            E la popolazione salentina invecchia, ma non si riproduce. A tal riguardo, mentre vent’anni fa i giovanissimi (quelli da 0 a 19 anni) rappresentavano il 25% della popolazione, oggi la situazione si presenta drammatica e ribaltata. Questi non superano il 20%. E qui, sempre la provincia di Lecce ha il primato negativo, registrando un appena 18%. Fanno meglio le province di Brindisi e Taranto, ma con scarti del tutto irrilevanti.
            In linea con quanto detto, anche la famiglia ha perso la sua funzione riproduttiva in maniera importante. Infatti, mentre nel 2001 le tre province registravano un nucleo familiare intorno a valori di 2,8 persone, questo dato oggi è precipitato a 2,4, dove anche qui la provincia di Lecce registra la peggiore performance, con 2,31.
            In sintesi, sotto il profilo demografico, la situazione si presenta preoccupante soprattutto per la provincia di Lecce, mentre le province di Brindisi e soprattutto di Taranto presentano dinamiche un po’ più decelerate, all’interno di un quadro ovviamente depressivo.
            Al riguardo va considerato che la riduzione delle nascite nel Grande Salento è una soluzione che la popolazione ha dato spontaneamente al problema della disoccupazione. La nostra economia infatti non è in grado di assorbire tutte le giovani risorse. Noto è il tasso a due cifre della disoccupazione, soprattutto giovanile. E non è azzardato dire che il nostro territorio è sovrappopolato e che naturalmente si sta orientando verso scenari più consoni alla sottostante economia. Restando così la situazione demografica, infatti, nel giro di vent’anni il nostro territorio, per effetto della riduzione delle nascite, dovrebbe presentare tassi di disoccupazione più accettabili e tali che il sistema produttivo li possa sostenere, con beneficio per tutti.
            In tale direzione, le operazioni di ripopolamento attuate dal governo sono assolutamente dannose, perché manterrebbero alto il tasso di disoccupazione e dunque di disagio sociale. E ciò perché il sistema produttivo del Grande Salento non presenta tendenze espansive, ma stabili e tali da assorbire solo una quota fissa di popolazione.
            Qui, dunque, in prima battuta va detto che sarebbe auspicabile un’integrazione economica dell’ex Terra d’Otranto in direzione dell’esempio leccese, dove forse la vivacità imprenditoriale, in un quadro tuttavia di sostanziale pigrizia, mostra una maggiore vivacità, rispetto al caso delle province di Brindisi e Taranto, dove i grandi poli industriali di origine non autoctona, generano l’indotto e permeano la loro economia, rendendola possibile, ma non stabile e centrata sulle reali forze locali.
            In definitiva, l’economia leccese, rispetto a quelle tarantina e brindisina, ha mostrato una maggiore consapevolezza delle sue possibilità, muovendosi in maniera autonoma, dove invece negli altri casi ci si è aspettato l’intervento esterno senza mettere in moto le proprie risorse creative ed intuitive. Certamente, la provincia leccese ha risentito meno dell’intervento statale e della grande industria multinazionale, che se da un lato ha dato lavoro, dall’altro ha creato economie deboli e non centrate sulle volontà locali.
            Tutto ciò ha portato ad un ritardo nelle principali forze economiche di gran parte del Grande Salento, un tempo non lontano area tra le più internazionalizzate e dinamiche del Paese, che si auspica ri-trovino la forza di ricongiungersi nel canale leccese, che si presenta il più evoluto, il più focalizzato sulle proprie risorse e sulla propria inventiva, in un contesto di maggiore autonomia e autopropulsivo.

Mauro Ragosta

giovedì 6 febbraio 2020

Post-evento n°10: Sabato scorso, presso il Palazzo di Giustizia di Lecce, l’inaugurazione dell’Anno Giudiziario 2020 – di Mauro Ragosta

              Sabato scorso, 1° febbraio, nell’aula magna del Palazzo di Giustizia di viale De Pietro a Lecce, s’è tenuta l’inaugurazione dell’Anno Giudiziario del Distretto della Corte d’Appello di Lecce, per il 2020. Anche quest’anno il momento fondante per la vita della Magistratura: il momento da dove tutto parte e dove tutto ri-torna nel suo diuturno ordine. Non a caso è il frangente rituale più importante dell’anno per il sistema Togato, perché di momento rituale si parla, essendo una circostanza preordinata e con procedure fortemente codificate. Un frangente d’ordine ed ordinatore, rituale dunque, apollineo in cui si dà l’avvio ai lavori del Mondo della Giustizia, dove l’implementazione dell’attività sfilaccia questa quadratura del cerchio, fino a sfiorare dinamiche dionisiache, per ritornare l’anno seguente al nuovo rito, all’ordine di sempre, dove tutto converge verso l’unità e la coesione, dove  ciascuno cita e re-cita la propria parte, in armonia con questo Mondo, quello della giustizia appunto, volto ad applicare al caso concreto la legge, soprattutto quando ciò viene richiesto.
            Sabato scorso, negli ambienti del Palazzo di Giustizia di Lecce si respirava un’aria solenne e, assieme, di grande attenzione, non solo da parte delle 12 toghe rosse di cui una bordata di ermellino, ma anche nel parterre dell’aula magna, dove spiccavano le massime autorità civili e militari del nostro territorio, compreso anche l’Arcivescovo, monsignor Michele Seccia, assieme a rappresentanze di molte delle componenti della società leccese e salentina, in genere. Un momento organizzato nei minimi dettagli e dove i “cerimonieri”, con encomiabile abilità hanno permesso che l’evento si svolgesse nel massimo ordine e con professionale sincronicità.
            Tra gli interventi, quello che più è da segnalare al grande pubblico è da ascriversi al Presidente della Corte di Appello di Lecce dott. Lanfranco Vetrone, il quale, oltre a presiedere l’assise, ne ha avviato i lavori. Nella sua relazione d’apertura, moltissimi i dettagli tecnici, volti a mettere in luce, sia gli aspetti critici della gestione della giustizia, sia quelli meritevoli di attenzione e plauso, non mancando di sottolineare, e ciò con estrema prudenza e ponderazione, alcune eccellenze del Tribunale di Lecce, dipingendone un quadro degno d’attenzione e di riflessione, anche corale.
            Al di là di ciò, nel suo eloquio, particolarmente interessante è stata la formulazione del concetto di giustizia, definita dal Presidente Vetrone come “ad ognuno il suo”, richiamando così il terzo Ordine Romano, uniquique suum, che si accompagna ai primi due, ovvero honeste vivere e alterum non laedere. Principi questi, anche citati da un noto matematico francese, Blasie Pascal, figlio peraltro di un magistrato, nel suo geniale libro Scommessa su Gesù.
            Sebbene l’affermazione del Presidente Vetrone sia stata minima ed estremamente particolare, rispetto al suo contesto narrativo, si è presentata tuttavia decisiva e fondante. Una affermazione basata su un significante, che tuttavia è azzardabile ipotizzare che abbia trovato il suo significato proprio nell’intera relazione da lui tenuta e che in sintesi potrebbe arguirsi nella circostanza che vede la posizione dello Stato, e dunque di rimando della Magistratura, soprattutto come mediatore nelle criticità sociali ed economiche. Talché “ad ognuno il suo” potrebbe tradursi come il risultato di un confronto civile tra le parti sociali basato sul dialogo e in special modo sull’uso intensivo dell’intelletto e della cultura tout court.

Mauro Ragosta



martedì 4 febbraio 2020

Recensione n° 10: Paladini e le nuove cromie dell’Islam – di Mauro Ragosta

          In un “Mondo” che procede per luoghi comuni, preconfezionati, da fast food culturale, dove l’individuo Occidentale è imbozzolito in un infernale gioco di specchi, l’ultimo lavoro narrativo di Giampiero Khaled Paladini si pone come cibo “indigesto e mortifero”, di rottura, perché il suo raccontare non porta a nessuna presa di posizione, pur disvelando alcune realtà di cui non può non tenersi conto. Paladini somministra al lettore, infatti, le dualità e le contraddizioni dell’esistenza, sia dell’universo musulmano sia di quello Occidentale ed “evoluto”, imponendo al lettore, così e di fatto, un lavoro di riflessione e da qui un esercizio sulle attività decisorie circa il proprio sistema valoriale in merito alle relazioni non solo interculturali, ma tutto sommato anche rispetto all’alterità. Insomma, Paladini, col suo ultimo lavoro dal titolo “…e adesso tutto cambia!”, pubblicato nelle ultime settimane dell’anno appena trascorso, scompone un ordine, quello del lettore appunto, per poi condurre a riproporne autonomamente uno nuovo e rinnovato ….più attuale, vivo. Nelle parole di Hugo von Hofmannsthal in Canto di Vita, si sottolinea d’altro canto che “…ogni conoscenza determina scomposizione e reintegrazione…”
            Ad ogni modo, qui va subito sottolineato che “…..e adesso tutto cambia!” è il quarto sforzo narrativo di Khaled, con riferimento agli ultimi dieci anni, e rispetto al quale, nonostante la strategia scrittoria del lavoro sia in linea con quella prevalente in Italia negli ultimi trent’anni, ovvero piana e con una terminologia poco ricercata e dunque accessibile a tutti, occorre enfatizzare sulla circostanza che presenta una densità emotiva e concettuale veramente importanti, rendendone la lettura particolarmente gradevole ed appassionante. Nel suo raccontare Paladini tiene ferma la penna sulla trama e, parimenti, tiene fermo il lettore sulle sue pagine. Gli accenti della narrazione, poi, sono posti sulle questioni importanti dell’esistenza, che dal volume si dispongono e si trasferiscono nella vita del lettore, rendendolo complice delle conclusioni………
            In quest’ultimo lavoro Paladini narra delle vicende di una coppia “mista” culturalmente: lei, Rosetta, leccese, lui, Mansoor, iraniano. Pare porre così al centro dell’attenzione le problematiche interculturali e di genere, ma il suo è un bluff, per far passare invece un’altra questione, ovvero il senso del vivere civile, che alligna in tutte le culture e prevale su qualsiasi distorsione e aberrazione del genere umano. Nel racconto Gianpiero si sfata la visione popolare che si ha dell’Islam, quale mondo violento e privo di ragione e soprattutto di ragionevolezza, per sottolinearne invece, in un gioco di chiari e scuri, le dinamiche, che nella sostanza sono uguali a quelle Occidentali. Insomma, per Paladini l’uomo è l’uomo, che pure nelle sue varianti culturali e religiose, alla fine, nei tratti essenziali, è sempre uguale a se stesso. Ecco che, i buoni e i cattivi non sono tali rispetto alle varianti religiose e di regime, ma rispetto al loro interagire col prossimo nella prospettiva del rispetto e dell’intelligenza di mediare le differenze culturali. Insomma, Paladini nel suo volume vuole tout court porre l’accento su un Uomo senza frontiere.
            Ma veniamo al quid. Rosetta, la protagonista, è donna che sin dalla più tenera infanzia convive con una sessualità vivacissima, cui si accompagna la sua capacità di “arrivare” all’orgasmo in un “batter di ciglio”. E se tutto ciò, per il lettore è motivo di ripetuti ed inusitati entusiasmi, assieme a profonde vergogne e riprovazioni, la questione di fatto costituisce il punto debole della donna, che viene ripetutamente strumentalizzata, non solo dal suo compagno iraniano, ma anche da i suoi concittadini, soprattutto quelli di ambienti molto alti. Su queste note, poi, si dipanano e si verificano gli effettivi valori sia della cultura Occidentale sia di quella Orientale-Musulmana, che alla fine paiono fondersi e confondersi e dove trionfa sicuramente la giustizia, intesa come armonia ed equilibrio nelle relazioni di qualsiasi specie.
            Giampiero, originario di Magliano, in provincia di Lecce, s’è convertito all’Islam circa sette anni fa, ma non ha voluto scrivere e pubblicare questo racconto per sdoganare il suo credo musulmano, almeno rispetto al suo entourage di lettori, che è veramente ampio, ma per porre l’accento sull’Uomo inteso in senso ampio e del vivere. Lui, d’altro canto, è un esperto di relazioni internazionali e forse ha voluto sottoporre ai suoi fans questo volume, per smistare delle sollecitazioni che portino ad una visione più ragionata e ragionevole non solo della nostra società, ma anche dell’esistenza. Se è vero, infatti, che siamo orientati verso il multiculturalismo, il quale tuttavia è ancora giovane e, come normale, è alla base di molte delle tensioni non solo sociali, ma anche individuali, dall’altra oggi più che mai occorre tenere sempre presente tutte le problematiche attinenti all’alterità. Insomma, il lavoro di Khaled è un invito a rivedere le nostre cognizioni rispetto a questa nuova società, ma anche a questo nuovo uomo che si sta edificando anno dopo anno.
            Ecco, dunque, che “…e adesso cambia tutto!” è un libro da leggere soprattutto per la portata culturale, che si presenta di estrema attualità e ampiezza. Un libro da leggere per intercettare quali dovrebbero essere le migliori coordinate del nostro agire quotidiano, dove questo oramai non è più “monocromatico”. Un libro da consigliare, per aprire importanti dialoghi e nuove sentieri relazionali con chi ci è caro e con chi si vuol conoscere più da vicino. Un libro da esperire anche per liberarsi da quegli specchi, che ci rendono schiavi di noi stessi, per aprirci, insomma, un varco foriero di esperienze che conducano alla pienezza e alla sazietà del vivere.

Mauro Ragosta

sabato 1 febbraio 2020

La donna di destra e di sinistra – di Mauro Ragosta


            In prima battuta va messo in evidenza che, la nostra società, soprattutto quella italiana, si va caratterizzando sempre più per essere liquida, in maniera più secca il termine giusto è: babelica. Ma non solo, è anche sterile, perché poco propensa al suo perpetrarsi, alla sua riproduzione tout court. E ciò dovuto in gran parte all’affermarsi del “pensiero debole” ovvero del relativismo, soprattutto a partire dal 1992, anno dal quale si è palesato in maniera sempre più spinto, e che ha generato uno stato di completa confusione nelle masse, la parte più debole della nostra società. Il relativismo, nella upper class è questione, invece, antichissima, compensata però, ed egregiamente anche, dal potere economico, che le conferisce spessore e valenza.
            E così il relativismo è entrato in tutti i campi del vivere quotidiano e sociale, contagiando anche il mondo della politica, dove la diade destra-sinistra è stata pressoché azzerata, nella sostanza. Il mondo politico così si è liquidificato, rendendo l’elettorato come “le onde del mare, in balia delle condizioni atmosferiche”. Molti degli aspetti del processo di “ammorbidimento” delle masse sono stati trattati da Maison Ragosta. Ed in tali processi una parte decisiva è stata recitata da grandi filosofi e sociologi a noi contemporanei, come Popper, Dahrendorf, Obsbaum, Deleuze, ed in Italia, Bobbio, Vattimo, ripresi poi dall’arte, dal teatro e dalla musica, come Gaber e tanti altri poi.
            Ora, va da sé che ogni classificazione e definizione o perimetrazione di un termine, di un fatto o di un fenomeno, presenta sempre confini sbiaditi e molto sfumati. Ad esempio, se si prendesse il termine economia, ma va bene anche amore, libertà, Stato e via dicendo, non ne esiste una puntuale definizione e quando se ne approfondisce lo studio dal punto di vista etimologico ed ermeneutico, si giunge in un non nulla, nell’indefinito. E così, anche per i nostri termini si usano definizioni date per fede: sono degli assunti, dei dogmi, volendo usare un linguaggio cattolico, degli assiomi, ricorrendo alla matematica. E come per le parole, che si basano su un modello concettuale, anche per i fenomeni è lecito procedere nella stessa maniera.
            Ed ecco che, qui si provvederà alla classificazione, o definizione o concettualizzazione del pianeta donna secondo coordinate politiche. Cosa possibile e legittima, anche se per la classe dirigente italiana ciò non si presenterà gradevole, essendo avversa, infatti, a qualsiasi tipo di classificazione, se non sotto il profilo materiale-consumistico, e comunque tale che non intacchi i principi relativistici sul piano soprattutto sociale.
            Ciò detto, osserveremo la donna all’ombra del femminismo o della crociata femminile, che come è facilmente intuibile ha una portata tipicamente politica, anche se tracima in quasi tutte le sfere della nostra Civiltà. Ed ecco che all’occhio attento, pare che esista un femminismo di destra e uno di sinistra, dove entrambi si sostanziano in un processo che dovrebbe portare la donna ad una sostanziale autonomia dall’uomo e da qui al suo dominio. Il femminismo, infatti, e fenomeno rivoluzionario. E non solo! E’ questione esclusivamente popolare, come la classificazione destra-sinistra. Nella storia, infatti, le donne della upper class non hanno mai avuto simili impellenze. Tali urgenze per le donne d’alto rango sono prive di senso, sin dal Medioevo. Qui, al riguardo, vanno ricordate Fatima Al Fihriya, fondatrice della prima università al mondo, nell’859 d.c., Teodora, Matilde di Canossa, Anna Bolena. E andando oltre, smisurati sono gli esempi di donne che hanno gestito il potere o hanno avuto una posizione predominante. Così, passando da Virginia Oldoini, più nota come la Contessa di Castiglione, Jeanne Antoinette Poisson, più nota come Madame di Pompadour, Margarera Geertruida Zelle, nota come Mata Hari,  e nel nostro tempo troviamo la Regina Elisabetta, assieme a Madre Teresa di Calcutta, al cui funerale parteciparono e si inchinarono tutti i Capi di Stato dell’intero pianeta Terra, ma vi sono anche Coco Chanel, Jacqueline Kennedy, solo per citare alcuni casi famosi, e che non escludono che a livello popolare vene siano di questi quantità smisurate.
            Uno dei punti di forza della donna rivoluzionaria, templare, quella comune insomma, è che, invece, nella storia, soprattutto nel Medioevo, essa veniva considerata alla stregua dell’animale e utilizzata solo come struttura o laboratorio chimico atto quasi unicamente alla riproduzione della specie, senza tener di conto che dall’altra, gli uomini, quelli comuni ovviamente, venivano considerati “carne da cannone” e che, in più, a migliaia, sino ai primi decenni del XX secolo, furono quelli evirati, per varie ragioni, dove quelle principali sono legate alle dinamiche del mondo musicale e militare, ma anche religioso.
            Ad ogni modo, la rivoluzione della donna, che pare centrata sul togliere ogni potere all’uomo, attribuendolo a se stessa, presenta due strategie fondamentali, che si sostanziano in altrettanti modelli di riferimento. Da una parte troviamo la donna di sinistra, marcatamente mascolinizzata, dove nei ceti meno abbienti, si presenta sovente severa e spiccatamente formale e, prediligendo i tailleurs con taglio maschile, vuole vistosamente imporre la sua volontà all’uomo, reclamando per lui modelli specificamente femminili. Al riguardo, tipica è la scusa della collaborazione in casa. Ed ecco che, in tale caso, lei disprezza il ruolo di Regina della Casa, e pretende che tale scena sia ricoperta dall’uomo. In genere, sono culturalmente molto preparate, aggressive, pungenti e vogliono palesemente piegare a loro il cosiddetto “sesso forte”, nella cui forza vedono la violenza, il pericolo, giustamente.
            Dall’altra troviamo le donne di destra, che per sottomettere l’uomo adottano strategie diverse, non meno efficaci ovviamente, le quali prevedono una prostrazione spontanea maschile al loro cospetto, rappresentando esse, quasi una divinità. E’ questo il caso della femme fatale, che strega l’uomo per la sua eleganza e la sua sensualità: per lui non vi è scampo! Qui, importantissimi e abbondanti sono i richiami sessuali adottati.
            Tra il modello prettamente mascolino, che si ispira al modello maschile per l’appunto, ed il modello della femme fatale, tipicamente di destra, esiste un modello intermedio e moderato di donna, che si rifà invece al dialogo con l’uomo, non negando la tradizione e il ruolo naturale del maschile e del femminile, anzi facendo di questi dei veri punti di forza, in una prospettiva tipicamente volta alla costruzione, anche sul piano esistenziale.
            Come ogni classificazione o modellizzazione della realtà, anche quella qui proposta vuole solo sostenere dei criteri di orientamento, dovendosi valutare, poi, ogni donna caso per caso. I modelli di riferimento, per definizione sono approssimativi e presentano molte eccezioni, ma questo non toglie la loro validità, che rimane ancorata e lascia intravedere le logiche di fondo di un fenomeno, al quale poi bisogna avvicinarsi e, se possibile, esperirlo.
            E così, come si trovano sulla scena molti luoghi comuni, o modelli interpretativi, sull’uomo, eccone qui alcuni sulla donna, non meno validi dei primi, i quali, tutti assieme, richiedono una verifica puntuale e un allontanamento deciso dai pregiudizi, fonte di molti dolori esistenziali, di uomini e donne.

Mauro Ragosta