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giovedì 23 giugno 2022

Saper Fotografare (parte decima): La fotografia naturalistica e di architettura – di Mauro Ragosta

 

         Può apparire banale intrattenersi sulla cosiddetta fotografia naturalistica e di architetture, soprattutto oggi, in presenza della disponibilità di una tecnologia che con poche mosse e poche conoscenze dell’Arte consente di raggiungere risultati insperati non appena trent’anni fa, ma così ovviamente non è. È vero che negli anni della fotografia analogica si avevano grandi problemi circa la latitudine di posa, la gestione delle dominanti, le cosiddette linee cadenti, la capacità di trovare i giusti equilibri tra microcontrasti e contrasto generale, senza entrare nelle problematiche del B&N, ma oggi come allora, in merito alla fotografia oggetto della nostra attenzione, le categorie di pensiero rimangono solo due.

         Prima di addentrarci nella disamina di questo ambito dell’Arte fotografica, va evidenziato che quasi sempre il percorso di sviluppo del fotografo presenta sovente le stesse caratteristiche nelle varie fasi, avendo ognuna di queste, tempi di maturazione ed elaborazione connessi solo al soggetto fotografante.

         In linea generale, le prime inquadrature del fotografo principiante sono il sole e da qui il tramonto, via via poi tutto quello che la Natura, sia essa selvaggia sia essa modificata, propone. Nella foto d’architettura, spesso, poi, il contesto ritratto è privo dell’elemento antropomorfo, molto vicino alla cartolina postale classica. In definitiva, si tratta di una mera riproduzione della realtà visibile, priva tuttavia di quella carica “sanguigna”, emotiva e, si potrebbe giungere ad arguire, erotica. Molti si sforzano di conferire una certa vibrazione alle proprie immagini, utilizzando gli obiettivi più disparati, dai fisheye ai tele più spinti. Tuttavia, queste immagini spesso “mancano del fotografo”.

Ad ogni modo qui interviene il grande problema o la grande bipartizione della fotografia naturalistica e di architettura.

         Va da sé che al nostro sistema capitalistico basato sul consumismo, interessa il consumo in sé e solo in maniera marginale il cosa si consuma. E anche per la fotografia a pochi interessa il come si fotografa. Qui quello che è decisivo attiene al quantitativo di “scatti”, che si “scatti” ad ogni piè sospinto, insomma. Pratica questa ovviamente necessaria per alimentare il consumo, e da qui sostenere il reddito e l’occupazione. Il tutto, ovviamente, come è facile arguire, sovente sfocia nella fotografia compulsiva, che spesso si manifesta nella ripetizione ossessiva di un oggetto fotografato.

         Al di là di questi aspetti socio-economici, e ritornando sulla via maestra tracciata, è possibile affermare che esiste, in ambito naturalistico e di architettura, una fotografia che descrive e induce al ricordo delle fattezze materiali e immanenti delle circostanze oggetto d’attenzione. È la tipica fotografia dei cataloghi di ogni specie, volti a documentare agli interessati, spesso i turisti, ma non solo, anche studiosi e curiosi, sulle fattezze di strutture architettoniche e paesaggistiche.

         Esiste tuttavia un’altra fotografia, naturalistica e architettonica, che ugualmente descrive, ma induce ad evocare le atmosfere, i respiri, le energie di un luogo. È una fotografia che tende ad esaltare gli elementi immateriali della circostanza, le situazioni trascendenti delle architetture e degli scenari.

         Nel primo caso è sufficiente fotocopiare ciò che si vede, ed oggi la tecnologia rende piuttosto agevole tale tipo di fotografia. Nel secondo caso, ovvero quello che tende a produrre un’immagine evocativa, il contesto va interpretato. Ma non basta, va sentito, vissuto, respirato… Qui l’odierna tecnologia aiuta sul piano della rapidità di esecuzione di certi processi, sia in fase di scatto sia nella postproduzione, senza tuttavia essere decisiva. In assenza di una capacità di leggersi in profondità, nei recessi più oscuri della propria anima e del proprio sentire, i risultati il più delle volte sono magri. Ovvio che, in questo caso, tra soggetto fotografante e oggetto fotografato si deve realizzare, attraverso un processo osmotico, una piena fusione sino alla confusione, in un tutt’uno che deve trasparire dall’immagine realizzata.

Ed ecco che, alcune immagine instillano distacco e un certo mentalismo, mentre altre, prendendo a prestito le parole di Rossella Maggio, sono più “erotiche”, sanguigne… contundenti! Da qui, le prime replicabili, le seconde uniche!

 

Mauro Ragosta

 

venerdì 17 giugno 2022

Avvio all'esoterismo (tredicesima parte): appunti su Angeli e Demoni - di Grazia Piscopo

 

La narrazione sulla nascita degli angeli è pressoché oscura e confusa e si perde nella notte dei tempi. Di certo nella letteratura biblica, Dio sovrano fece emergere la Luce dal “Tohu ve Bohu”, in una parola, da tutto ciò che è oscuro e intellegibile. Il buio, le ombre, avendo la possibilità di diventare il Male, perché contrario alla Luce, erano necessariamente antecedenti alla Creazione. Rabbi Shemuel bar Nachman, ritiene che ogni Parola che esce dalla bocca dell’Eterno si trasformi in ogni istante in un Angelo, dandogli così la possibilità di sfuggire al destino “di cenere e polvere” a cui sono destinate le creature della Terra. Pertanto nonostante l’amaro e temporaneo destino umano, agli uomini però Dio aveva dato il potere di una superiorità ontologica e morale, ovverossia, nella volontà gioiosa di crearli, aveva donato loro un bene impagabile: il libero arbitrio, potere questo negato agli angeli.

Nel Corano, sura 2 versetto 28, e nel Talmud, collezioni scritte di tutta la Legge ebraica, si racconta che gli Angeli maggiori indissero serie proteste di dissenso con limitati tafferugli, perché prevedendo la fallacità e le fragilità umane, avevano già chiara la visione di uomini che nella Storia sarebbero stati dediti a guerre e crudeltà di ogni genere, mentre loro sarebbero stati inermi e impediti a bloccarli perché dissennatamente impegnati a cerimoniali celebrativi ieratici.

La Tradizione narra che dopo questa protesta, si formarono due schiere di angeli, quelli fedeli a Dio e quelli rancorosi e invidiosi degli uomini che a torto avevano avuto troppo potere. Gli uomini quindi divennero il bersaglio preferito di ogni sorta di malefatta da parte di una folta e oscura schiera angelica a formazione piramidale che prevedeva in cima alla gerarchia un capo supremo e poi via

via in basso fino alla moltitudine soldatesca.

La fede nell’invisibile, pur non avendo una origine cronologicamente assegnabile, ha radici profonde nelle religioni babilonesi e assire, derivate a loro volta da quelle accadiche e sumere. La moltitudine ieratica era composta essenzialmente da spiriti maligni, eterni rancorosi stolker di impauriti e indifesi uomini, abbandonati in certe fasi della storia anche da Dio, probabilmente pentito del suo cattivo creativo operato. Nella cultura sumerica gli spiriti maligni o angeli del male potevano essere di due tipologie: spiriti di esseri umani defunti che potevano essere controllati e addomesticati proprio per la qualità della loro vita passata; e spiriti mai incarnati responsabili verso gli uomini di qualsiasi azione malvagia, tortura e tragedia atmosferica. Scendendo dalle montagne o trasudando dalle rovine delle tombe con sembianze animalesche, vagavano per le città ed entrando nelle abitazioni attraverso le serrature, depredavano tutto, fisicamente e psichicamente.

La divinità malvagia più temibile nei culti assiro-babilonese era Pazuzu con il suo entourage, dio dei venti di sud-ovest proveniente dall’Arabia, portatore di tempesta, siccità, carestia e malattia. Lilu e Lilitu erano una spaventosa coppia che, nella mitologia giudaica seguente, divennero Samael e Lilith, quest’ultima signora della notte, infanticida e adescatrice di ingenui uomini, compreso Adamo.

Questa narrazione è andata avanti per tutto il medioevo in un tessuto sociale più informato e smaliziato che vedeva wikke, esorcisti e sacerdoti studiosi impegnati in ogni tipo di incantesimo e di formule di scongiuro (inquisizione permettendo) per allontanare ogni tipo di male e di malattie.

Qualcuno si aspetterebbe, visto che siamo figli di Dio, il trionfo del Bene sul male, ma questa come ogni storia a finale aperto vede le schiere demoniache perennemente gelose, tuttavia molto spesso rese impotenti, e le schiere umane “l’un contro le altre armate”, che per una sorta di tregua salvifica nel XVI sec. trovano una sorta di compromesso.

 

Grazia Piscopo

lunedì 13 giugno 2022

Post Evento n°14 - Libera interpretazione fotografica del vernissage di Claudio Rizzo - di Mauro Ragosta

    Ieri sera, 12 giugno 2022, a Lecce presso la Fondazione Palmieri, si è tenuto il vernissage della personale dello scultore leccese Claudio Rizzo. Un momento particolare della cultura del capoluogo salentino, che in qualche modo si è rispecchiata nelle sculture di Rizzo, cariche di significati esistenziali attraverso la fissità delle sue metafore di pietra (...e sangue) che richiamano "cose" antiche e antichi quesiti, assolutamente attuali anche oggi, sebbene infarciti di tecnologia e modernità spinta fino allo stordimento.

   Qui, di seguito, un'iterpretazione fotografica che, sebbene parziale, tenta di riprodurre assieme le atmosfere di Claudio, del suo vernissage, il suo pubblico ...i nostri leccesi. 









 Mauro Ragosta

 

sabato 28 maggio 2022

Saper Fotografare (parte nona): Le fasi per la costruzione di un’immagine – di Mauro Ragosta

 

            D’emblée va specificato che questa rubrica, ovvero Saper Fotografare, viene fatta girare solo presso un’utenza qualificata, ovvero viene fatta pervenire telematicamente sia a fotografi professionisti sia ad appassionati a vario titolo e con vari gradi di esperienza, spesso avanzata, sovente tuttavia vengono resi partecipi anche alcuni principianti che desiderano migliorare l’attività del proprio diletto. Fino ad oggi, i risultati delle prime otto parti pubblicate paiono essere quelli legati alle sollecitazioni speculative, che la lettura ha offerto. Questione di non poco conto, in quanto questa rubrica ha dato un colpo, più o meno robusto, alla crescita e allo sviluppo della coscienza fotografica del lettore, e da qui ha posto le basi per il possibile miglioramento del proprio incedere artistico e professionale.

Ciò messo in luce, dopo aver raccontato, guardando dall’Alto, quali possono essere le problematiche nella vita di un fotografo, attraverso un excursus temporale di quaranta anni, e che pertanto vanno dalla gioventù alla maturità, avendo analizzato sia le fasi d’avvio all’Arte sia quelle che via via portano ad una visione e ad una pratica più evolute, è giusto ora focalizzare l’attenzione su alcuni snodi specifici e fondanti dell’attività fotografica.

            Sicché, in prima battuta, si argomenterà sulle fasi attraverso le quali si realizza un’immagine. Molti credono che il momento del fatidico “click” sostanzi e coaguli tutta l’Arte, ovvero la capacità di cogliere “l’attimo giusto”, ma ovviamente così non è. Vi sono delle fasi prima e dopo il “click”, forse anche più importanti del “click” stesso.

            La prima fra queste, legata alla costruzione di un’immagine fotografica, è definita dall’obiettivo che si vuole cogliere e dalla strategia scelta. E così, consapevolmente, per un professionista, e spesso e vieppiù inconsapevolmente scendendo verso i principianti, la prima operazione fondamentale è sapere cosa si vuol trasmettere con una fotografia, dove il fruitore può essere sé stessi o gli altri. Eh sì, perché non sono i pochi fotografi che “scattano” solo per sé e non per altri.

            Il lasso di tempo che richiede la creazione dell’idea può variare da un secondo a diversi anni. Spesso si esce a fare una tornata fotografica per “catturare” delle situazioni accattivanti, ma non è sempre così. Anzi, più si innalza il livello di conoscenza dell’arte fotografica, più le attività estemporanee si riducono, tuttavia senza mai azzerarsi, essendo sovente non solo piacevoli, ma soprattutto anche necessarie.

            Una volta prodotta l’idea, o visualizzato nella mente il risultato fotografico che si vuol ottenere si passa alla costruzione o alla scelta della scenografia. Anche qui, si va da pochi secondi di attività a ciò dedicata a tempi lunghissimi. Abbandonandosi l’ipotesi della tornata fotografica estemporanea, la scenografia, costruita o scelta, crea tutto il “discorso di contorno” alla costruzione dell’immagine, e spesso dà la forza decisiva a questa. Pertanto richiede massima attenzione e impegno.

            Ma, attenzione, una volta avuta l’idea e trovata o prodotta la scenografia, non si passa immediatamente allo scatto, se non ancora una volta nelle attività fotografiche estemporanee. Quando un fotografo è maturo, ovvero nel tempo in cui le impellenze dello “scatto” si allentano in favore di un’azione più totale, integrale, avvolgente, di grande ricongiunzione di sé stesso, egli procede ad una preliminare preparazione animica, spirituale: ci si libera del superfluo, che spesso adombra “l’occhio della mente”, consentendo ciò la possibilità di avventurarsi in pienezza in un’azione “pura”.

            In questo frangente, direi assolutamente speciale, ognuno intercetta un metodo che gli consenta di essere in asse nel momento dell’atteso “click”. Sono tutte attività che spesso si apprendono da sé stessi, anche se a volte può essere efficace la guida di un Maestro. Ovviamente il tempo da dedicare alla preparazione varia da pochi momenti fino a giungere ad un paio di giorni. I grandi fotografi, durante i loro workshop, non mancano di far sperimentare ai propri allievi quest’attività.

            Quando si è pronti si entra finalmente nel momento del “click”, che non potrà che essere performante. A volte questa fase è centrale, spesso tuttavia serve per avere una buona base da cui partire per le ulteriori fasi della costruzione dell’immagine, che sono sostanzialmente due e legate alla postproduzione. In ogni caso il “momento dell’azione” permette, se realizzato con la giusta “purezza”, di intercettare soluzioni inedite o non “viste prima”, ma anche di trovare la giusta forza espressiva.

            Nella postproduzione, una volta scelte le immagini da lavorare, centrali sono le attività legate al taglio della foto e alla gestione delle linee. Infatti, una fotografia cambia di significato modificando il taglio. Associata a questa fase sono l’elaborazione dei colori o dei grigi, la gestione dei contrasti, l’esposizione e tutte le applicazioni che la moderna tecnologia consente. Qui di norma si realizzano diverse versioni della stessa immagine. In genere se ne realizzano almeno un paio, ma poi, qui ognuno si regola come meglio crede.

            L’ultima fase è dedicata alla scelta delle diverse alternative prodotte nella “camera oscura” che oggi si denomina “camera chiara”. In genere, dalla fase precedente, si lascia passare del tempo, che va da poche ore a giorni e mesi, prima di procedere alla scelta dell’immagine definitiva da archiviare o da presentare ai committenti o agli amici. Errore gravissimo è lasciare a questi ultimi la scelta, che deve essere solo tra le diverse immagini proposte, mai fra le diverse versioni di ciascuna di queste.

Ecco che la costruzione di un’immagine diventa una vera e propria avventura, a volte anche molto faticosa e dolorosa, ma che in nessun caso porterà alla riproduzione perfetta dell’idea originaria. L’immagine finale è una sorta di figliolanza, una vera e propria creazione, i cui esiti nessuno può conoscere in precedenza, neanche Dio in persona, sia esso positivo o naturale.

In tale direzione, si sposa l’idea di Gorgia, il quale affermò che l’Essere è inesprimibile… e neanche l’idea originaria della nostra fotografia, essendo totalmente impregnata dell’Essere, può trovare un riscontro materiale e visibile. Di questa idea originaria si avrà solamente una proiezione… la figlia o il figlio, e come tutti i figli alcuni saranno belli altri brutti, orribili, alcuni di successo altri dei perfetti falliti, ma questo, in definitiva solo in minima parte dipenderà da noi… Non demoralizzatevi mai, dunque, né abbiate vergogna!!! Del pari, non vantatevi troppo…solo quel che basta!!!

 

Mauro Ragosta

mercoledì 18 maggio 2022

Maison Ragosta Spazio Live (parte quarta): Intervista ad Anna Troso - di Mauro Ragosta

 

          Qui un altro pezzo della nuova rubrica, Maison Ragosta Spazio Live, condotta da Mauro Ragosta, spesso assieme ad attori privilegiati del mondo culturale leccese. Si tratta di uno spazio in video dedicato ad interviste, recensioni, conversazioni, considerazioni specifiche. Tutto sul Mondo dell'Arte e della Letteratura non solo leccese, ma anche nazionale ed internazionale. Questa Quarta Parte è dedicata a Anna Troso, scrittrice leccese che illustrerà la sua ultima produzione, ed in particolare del suo ultimo saggio su Coco Chanel ed Elsa Sciaparelli.

Di seguito il link della video intervista:  

https://youtu.be/TwMupGpl0P0

sabato 14 maggio 2022

Punti Appunti e Puntini (parte terza): I tre Mondi nei quali viviamo – di Mauro Ragosta

 

         Appare difficile oggi, per l’uomo comune, presidiare una coscienza e una consapevolezza robuste e da qui un’identità forte. Viviamo in un Mondo in cui troppe sono le esperienze e le informazioni da elaborare e metabolizzare, in una prospettiva che si tramuti in azione matura e saggia. E ciò a tal punto che per molti la vita si trasforma in una baraonda indistinta e indistinguibile. La nostra sovente si disvela, infatti, come un’esistenza simile ad un treno in corsa, incapace di arrestare il suo moto, mentre dal finestrino non si osserva più il paesaggio, che a causa della velocità giunge come una serie di strisce tutte uguali.

            Sicché, non appare fuor di luogo intrattenersi su una riflessione che tenta di dare un contributo ad una visione un po’ più chiara della nostra esistenza e del Mondo nel quale essa è calata e di esso si nutre. In genere, si ha una visione unitaria e indistinta del Mondo, del nostro Mondo, ma di fatto non è così, talché il nostro agire sovente si presenta inadeguato, generando ansie di varia natura.

            Qui ci si soffermerà su una possibile grande partizione del nostro Mondo, che può e forse deve essere visto come l’intersezione di tre Mondi tecnicamente distinti, i quali tuttavia reciprocamente si influenzano. E questo perché si devono distinguere le relative Realtà, tutte differenti tra loro, dove ciascuna richiede un atteggiamento sostanzialmente diverso, nonché un adeguato pensiero e uno specifico adattamento. Va da sé che è indispensabile precisare che i tre Mondi, nella visione qui proposta,  sono tra loro “geneticamente” collegati, sebbene abbiano dei distinguo di primo livello ed esistenze autonome in maniera significativa.

            Il Primo Mondo, il “mondo padre” o per chi preferisce il “mondo madre”, è quello fisico, la cui percezione dipende dall’elaborazione dei cinque sensi. È il Mondo originario.

            Il Secondo Mondo, il “mondo figlio o figlia”, è quello derivante dalla scrittura e dalla pittura. Nasce con i graffiti e le pitture preistoriche, prima, e con la scrittura cuneiforme, poi. In sostanza ha origine tra il 30.000 e il 4.000 a.c. E’ un Mondo che privilegia solo due sensi: la vista e il tatto, a volte l’olfatto. Esso è principalmente una rappresentazione possibile del Primo Mondo, che include ovviamente anche il Mondo Onirico. Quello che il Secondo Mondo illustra in effetti attiene ad una Realtà derivata, perché la Realtà Prima riguarda sempre e solo il Primo Mondo, quello dei cinque sensi.

            Sicché abbiamo una Realtà, che va definita “Prima”, e una Realtà Derivata, che va definita “Seconda”.

            Con le recenti invenzioni del Cinema, della Radio, della Televisione e del Computer si entra nel Terzo Mondo. È un Mondo ancora a due sensi: la vista, l’udito e, a differenza del Secondo, permette tuttavia, quando previsto e consentito, l’interazione tramite la parola, scritta e orale. Il Terzo Mondo narra oggi prevalentemente del Primo e del Secondo Mondo.

            In tutto questo, deve apparire chiaro che quelle del Secondo e Terzo Mondo sono Realtà derivate, sono delle narrazioni possibili del Primo Mondo. Sicché la Realtà stricto sensu, rimane solo quella legata ai cinque sensi, essendo le altre sempre parziali e provvisorie.

            Qui si avverte che con riferimento alla musica, si procederà ad una dissertazione a parte, e ciò anche per quanto riguarda le attività scientifiche, eminentemente deputate a trasformare la Realtà Prima e l’Uomo stesso, le quali si avvalgono dei due Mondi derivati, quali agenzie della propria attività: è lo stesso rapporto che corre tra lo scrittore e la carta su cui scrive, la quale è solo mezzo per specchiarsi e consentire la propria trasformazione.

            Quanto evidenziato deve essere molto chiaro soprattutto quando si affronta il mondo delle relazioni. Un conto è una relazione fisica, in presenza, un conto sono le relazioni mediate dal telefono o sui social, ad esempio. Va compreso, infatti, che la realtà dei social è qualcosa che ha dinamiche e morfologia differenti rispetto alla realtà in presenza. Stessa considerazione vale nel caso contrario.

            In conclusione, bisogna avere sempre presente in quale Mondo si sta interagendo e vivendo e quali sono le caratteristiche di ciascun Mondo, avendo sempre presente che ognuno di essi ha obiettivi e strategie proprie, le quali, in linea di massima, non sono trasportabili se non in via episodica ed eccezionale. Insomma, un bel libro, magari un ottimo romanzo, un bel film, come una chat sono qualcosa che difficilmente potranno trasferirsi e realizzarsi nel Primo Mondo, rimanendo infatti, accessibile solo fisicamente e in presenza, secondo le sue leggi. E da qui, a voi i necessari corollari per quanto attiene la politica, l’economia e la cronaca, come sta a voi decidere quanta parte della vostra vita dedicare a ciascun Mondo, conservando tutti e tre una dignità e presentando ciascuno di essi, non solo particolari pericoli, ma anche specifici piaceri, tutti ovviamente diversi e distinti.

 

Mauro Ragosta

giovedì 5 maggio 2022

Saper fotografare (parte ottava): storia di un fotografo …per concludere!!! – di Mauro Ragosta

 


       E così come l’amore ha varie fasi di vita, anche l’Arte Fotografica si snoda attraverso vari tempi, ambienti, cicli. Ma c’è di più. Come per l’amore, in cui nelle fasi più mature vede l’incontro di due entità distinte, separate, che tendono a marcare con forza la propria diversità e autonomia, dove l’intersezione sino alla copulazione non sono mai totali e condizionanti, anche per la relazione con l’Arte Fotografica si instaura una sorta di complicità, dove assente si presenta la commistione tra chi fotografa e l’attrezzo fotografico con il suo mondo. Il tutto avviene in un perfetto legame di scambio, possibile solo in virtù di una sostanziale “compatibilità”, che raramente si trasforma in passionalità. Ci si trasforma un po’ come ad un solitone, ovvero un’energia che rimane sempre integra nella sua sostanziale essenza, sebbene a tratti si mischi con altre energie, dalle quali, infatti, ad un certo punto, si allontana, ritornando nella sua struttura iniziale, originaria, eterna… ritornando uguale solo a sé stessa.

            A partire dal 2000, l’Arte Fotografica fu per me un’ottima occasione non solo per prendere appunti sul mio animo, sulle mie elucubrazioni, ma mi diede l’opportunità anche di fare chiarezza con me stesso e di trovare, allo stesso tempo, pure il mio ordine. Questione di assoluta rilevanza, quest’ultima, in quanto il proprio ordine quando viene in chiaro dà una consapevolezza decisamente spinta e da qui una possibilità importante di potersi risolvere. Ecco, in questo l’Arte Fotografia ha avuto ed ha un ruolo nella mia vita sicuramente centrale e fondante. Non a caso la sua permanenza nello spettro delle mie attività è fissa da quarant’anni circa….

            Con sempre più forza la mia fotografia è andata caratterizzandosi, e tutt’oggi si caratterizza ancora, per l’uso spinto della retorica tout court, dove quindi tutti gli oggetti, le situazioni e le persone fotografate rimandano ad altro, ad un significato nascosto e, a tratti, arcano, qualche volta anche misterioso.

            In tutto questo, la tecnologia mi ha aiutato poco. Non si trattava, infatti, di riprodurre la realtà visibile, nella maniera più veritiera possibile, ma l’obiettivo era perlappunto esprimere una realtà invisibile: la mia anima, le mie atmosfere, i respiri del mio pensiero. Certamente, la tecnologia, nella fase di post produzione, mi ha molto sostenuto, ma mai in maniera determinante.

            Ed ecco che, negli ultimi venti anni, i miei filoni di ricerca, che hanno visto non solo il coinvolgimento dell’Arte Fotografica, ma anche quello dell’Arte dello Scrivere, sono stati centrati sul riuscire primariamente a capire ed esprimere le conformazioni della mia anima, del mio “cuore”, ma anche le leggi universali all’interno delle quali essi si muovono.  Inoltre, di ugual intensità è stata la ricerca focalizzata sulle atmosfere della mia città, Lecce, che per me non è fatta solo di monumenti, barocco, ma anche di persone, luci, energie, aria, spesso leggera, in un tutto che io trovo letteralmente magico. Sì, Lecce è magìa. Una ricerca che solo negli ultimi cinque anni ha condotto a risultati di sicuro interesse, in cui ciò che percepivo e “vedevo” era ben rappresentato. Ovviamente, qui i miei lunghi e corposi studi hanno dato uno spread decisivo.

Una lunga strada, insomma, che mi ha permesso di giungere a realizzare una serie di prodotti fotografici tutti rigorosamente esclusivi e destinati a coloro, amici parenti e conoscenti, che erano sulla mia stessa lunghezza d’onda, lontani dalle logiche di mercato e commerciali. Prodotti destinati ad essere momenti di riflessione, introspezione, memoria, speculazione. Sicché le mie fotografie si sono trasformate da strutture dell’illusione, dove mi illudevo e illudevo, a strumenti dialogici, alla stregua di lettere con destinatari precisi, capaci di contribuire a costruire e a vivere le diverse relazioni, che caratterizzano la mia esistenza.

Certamente, non sono mancate le consuete e canoniche mostre, tutte personali, ma il canale che ho sempre privilegiato con forza e convinzione è stato quello ad personam, all’interno di relazioni specifiche.

E così il mio amore con l’Arte Fotografica, si è trasformato da passione e passionale a strumentale, regalandola così un ruolo di pregiato vettore di idee nelle relazioni intime, confidenziali, esclusive. Ruolo che questa avrà forse nel futuro in maniera più pregnante, liberandola finalmente da esclusivo strumento di semplice e illusoria riproduzione della realtà nonché di propaganda commerciale e politica, anche se di buona qualità.

 

Mauro Ragosta

           

martedì 19 aprile 2022

Saper Fotografare (parte settima): storia di un fotografo…verso la fine!!!– di Mauro Ragosta

 

I grandi amori, le simpatie magistrali, le relazioni fondanti e fondamentali della propria esistenza presentano vicende sempre diverse nel tempo e a seconda delle fasi della vita, la cui grammatica sovente è sconosciuta, e conoscibile solo ex post, ovvero dopo averle vissute. La linearità e la coerenza non sono contemplate in tali ambiti, essendo queste esclusiva prerogativa della TV, dei processi industriali ed informatici. Nella Realtà e nella mente e ovviamente nelle relazioni, tutto si muove secondo logiche superiori che vanno ben al di là del razionale e dello stesso linguaggio, che non riesce ad esprimerle in nessun caso compiutamente. E così un rapporto importante è fatto, a tratti, di scambio intenso, a tratti, di silenzi e assenze, a tratti di convergenze, a tratti di divergenze, a tratti… a tratti…a tratti…

Così fu per me con l’Arte Fotografica. Dopo un’intesa relazione d’amore e di scambio, tutto si arrestò nel luglio del 1988. Il rapporto non morì, tuttavia, ma entrò in una fase di sospensione. Per lunghi anni la dimenticai, ma la mia fu solo una rimozione, come dicono gli psicologi. Lei, la fotografia aveva lasciato dentro di me molti segni, moltissimi quesiti, troppi ricordi, non pochi vettori di piacere.

Avevo deciso, prima di chiudere i battenti dello studio, di inocularmi una dose importante di cultura: questo era il mio primo obiettivo, mentre la fotografia divenne solo una logica conseguenza di questo, meglio dire in un rapporto circolare e di interdipendenza. Vero è che, nella maggior parte delle ipotesi, non è distinguibile l’amore per il Sapere e la Cultura da quello per la fotografia, quale loro rappresentazione, essendo, sempre e in ogni caso, “i primi la miccia e la seconda l’esplosivo”. Eh sì, perché i Saperi, la Conoscenza possono essere trasferiti o produrre i loro effetti solo tramite strutture comunicative, quali i linguaggi, la scrittura e dunque anche al Fotografia. Viceversa siamo di fronte a esistenze autistiche, che si risolvono in sé e lo scambio con l’esterno è ridotto prevalentemente all’indispensabile per restare in vita.

Sotto altra prospettiva, la Fotografia, per più di un decennio, visse in me sottotraccia, nei recessi più profondi dell’animo, senza mai emergere alla coscienza. Crebbe così nelle oscurità del mio essere.

Tutta la mia attrezzatura fu abbandonata e occultata nel garage. Fu questa l’azione principale a cui ricorsi per purgarmi e depurare quel pezzo di vita dal 1983 al 1988, che riemerse in vesti diverse, ma altrettanto seducenti e suadenti, sul finire del 1999, quando, sulla scia della convinzione che l’Arte Fotografica poco avesse a che vedere con la tecnologia, comprai una compatta della Olimpus. Ripartii dunque dall’assunto che la Conoscenza e la Cultura fossero i motori della mia “amata passione”, i quali non dovevano essere contaminati dalla tecnologia, se non negli aspetti minimali, essenziali, indispensabili. Insomma, mi occorrevano solo un obiettivo, un pulsante di scatto, un otturatore e una pellicola. Ripartii da qui infatti.

Da principio cominciai a lavorare sui significati, considerando molto i simboli, le allegorie, le metafore, spesso utilizzando climax, metonimie e ossimori. La situazione, intanto, era profondamente cambiata: se dal 1983 al 1988 avevo osservato la Realtà tramite l’obiettivo, realizzando mediamente 30.000 scatti all’anno, ora osservavo la Realtà con i miei occhi e con la mia mente 30.000 volte per poi realizzare 15 scatti all’anno. Nel 2007, in ogni caso, pubblicai, ovviamente in tiratura limitata, il mio primo libro fotografico, titolandolo “tracce”, perché nei primi anni di nuova vita da fotografo quelle che raccolsi tra il 2000 e il 2007 furono solo tracce da seguire, poche tessere di un grande mosaico.

I motori culturali nel frattempo andavano a pieni giri, per cui la mia fotografia si arricchiva, giorno dopo giorno, di motivi, spunti, idee, spesso inedite. Di certo, il mio processo culturale mi fece approdare a dei totem ideologici fuori dal Sistema Capitalistico e Consumistico, proprio quando questo Sistema, nelle sue declinazioni a favore e contro, stava raggiungendo l’apoteosi in tutto il Mondo.

Tutta la fotografia è legata ai processi politici. Il punto fu che anche la mia era politicizzata, ma di una politica tutta personale e antisistema, o comunque diversa da quella di Sistema, sia nella versione pro che contro, e che dunque non trovò acquirenti, né finanziatori di sorta. Sicché, mi ritrovai che non ero un professionista, ma neanche un dilettante: un vero dramma? Forse…

Insomma, io e lei, in questa nuova fase del nostro amore cominciammo a trovare soluzioni di-verse, uniche e Originali. E sebbene non avessimo parametri di riferimento sulle sponde ordinarie, ci trovammo sempre meglio assieme, intercettando delle soluzioni perfettamente attagliate alle nostre esigenze più profonde…nascoste…

 

Mauro Ragosta


domenica 10 aprile 2022

Saper Fotografare (parte sesta): Storia di un fotografo… ancora – di Mauro Ragosta

 

            La morfologia delle relazioni magistrali, quelle che prescindono dalle stesse volontà delle parti, assume sempre tratti diversi nel tempo. E ciò vale soprattutto proprio per quelle che permangono per lunghi e lunghissimi periodi di tempo, come per me è stata la relazione con la Fotografia.

E così è facile che si passi da una relazione intima, stretta, piene di passione, ad una più diluita nel tempo, a tratti arcana e misteriosa, sino ad arrivare a posizioni di assenza, dove il rapporto rimane ugualmente sempre vivo e attuale, magari in forma di elaborazione personale, per poi dare vita ad una nuova fase più “di contatto”. Quale prima, quale dopo poco importa, non è rilevante, quello che interessa, invece, è che le relazioni magistrali nel tempo mutano forma e contenuto, come per me è accaduto con l’Arte Fotografica.

            Ed in effetti, dopo aver aperto lo Studio a Lequile, nel 1985, l’anno dopo mi traferì a Lecce in una struttura situata nel centro storico, avendo bisogno di più spazio. E così, nei pressi di Porta San Biagio, trovai un locale di circa 400 mq, che mi consentii, dopo un’attenta politica di investimenti, di allestire tre set: uno per la moda, l’altro per lo still life e l’altro ancora per le produzioni tessili della provincia, ed in parte, per le produzioni di mobili. In ogni caso, i clienti non erano solo pugliesi, ma anche campani, ed un paio di Milano.

            Fu una progressione impressionante a tal punto che i miei concorrenti si ridussero di molto: solo i più grossi studi pugliesi, di cui due situati a Bari e uno a Maglie. Insomma, giocavo al top, a livello di apicale, dove tutto si complica enormemente. La fotografia industriale e commerciale, poi, era una sorta di partita a scacchi con l’utenza finale, dove il valore del fotografo dipendeva dall’efficacia economica delle sue immagini. E qui, la tecnica e la tecnologia avevano un ruolo, ma non di primissimo piano: erano importanti, ma non decisive. Nella fotografia professionale a monte di tutto v’è l’idea, poi il progetto, ed infine tutte le attività legate allo scatto e alla scenografia.

            Sicché la fotografia si risolse in una sorta di dialogo tra me e i consumatori, dove il livello dei loro consumi in gran parte dipendeva dall’immagine che rappresentava i prodotti da acquistare.

          Una progressione questa, che in parte fu casuale, in parte dovuta alla spinta di alcuni industriali, che in me avevano trovato la chiave per proporre e smistare le loro produzioni. Spesso, infatti, in ambito industriale il fotografo ha un ruolo centrale, fondante e di particolare riguardo. È lui che crea l’idea del prodotto e di tutti i concetti di contorno e accessori. Per avere un’idea, basti considerare che il prezzo di una mia foto nel 1986/87 variava da un minimo di 150.000 Lire sino al milione di Lire. E al tempo, non si esborsavano simili cifre se il prodotto non dava un rientro 30 volte superiore.

          Ad ogni modo, tutto si mosse in un crescendo sino alla fine del 1987, quando il mio sistema entrò in crisi non solo per fattori interni, ma anche per dinamiche di mercato. Da un lato compresi che la mia progressione dipendeva in gran parte dalla mia crescita culturale. E capii subito che se non avessi fatto grossi investimenti in cultura tutta la maestosa impalcatura posta in essere sarebbe crollata in maniera impietosa. Infatti, prima di tutto, la mia impresa era impresa culturale, poi tutto il resto. Dall’altra, i due studi fotografici di Bari, che erano strutture agganciate a sistemi produttivi e finanziari più complessi e solidi, mossero “guerra”, intravedendo in me un pericolo non trascurabile, soprattutto per il mio ritmo di crescita. E tutto ciò avvenne tramite un vistoso abbassamento dei loro prezzi, lo spionaggio industriale e la pressione sul sistema bancario.

            Così, se da un lato non avevo una struttura finanziaria tale da reggere una “guerra”, dove neanche i miei clienti più potenti e affezionati riuscirono a far pressione sulle banche, mentre in tutto questo la famiglia fu latitante, dall’altro l’assoluto bisogno di iniezioni culturali importati, per supportare la produzione e reggere il mercato, portarono alla decisione di uscire dall’intero business.

Sicché in giugno del 1988 chiusi lo studio e in luglio fui di nuovo a Napoli, per dare l’ultimo esame all’università e realizzare la tesi, che discussi un anno dopo, il tutto in una prospettiva di crescita culturale. E ciò anche per mantenere in vita il mio amore per la fotografia, uno dei più importanti nella mia vita.

È vero il business, la carriera, il danaro sono questioni importanti, ma senza amore sono argomenti morti. Ed io non amavo loro, ma la fotografia… con la quale il legame rimase inalterato nei decenni a venire, cambiando solo la morfologia...

 

 

Mauro Ragosta (1)

venerdì 25 marzo 2022

Saper Fotografare (parte quinta): Storia di un fotografo …continua – di Mauro Ragosta

 

            Illudersi e illudere!!! Questo fu il primo epilogo del tempo in cui mi produssi nell’attività fotografica, nella prospettiva da professionista. Come da manuale, per i grandi amori insomma, dove all’inizio ci si illude da soli, poi si illude l’amata/o ed infine si illude tutto l’entourage. E tutto funziona fino a che le energie creative che sostengono l’impianto illusorio sono attive e fervide. Nel momento in cui invece, queste si spengono, crolla l’intero castello, che può essere più o meno imponente, con conseguenze, ovviamente non piacevoli per tutti. In questo caso, ovvero quando le spinte illusorie vengono meno, è bravo chi riesce ad uscire di scena senza farsi male.

            Nel 1984, spinto dai successi artistici e remunerativi, volli entrare con più forza nell’ambiente leccese e napoletano come fotografo di livello e di valore. Riuscii a produrre tre calendari d’arte, targati 1985, e una serie di cartoline innovative per qualità dell’immagine, ma anche per la grafica, che piazzai nel Salento e in Campania. Fu così che a Lecce si videro per la prima volta le cartoline artistiche ed in un solo anno due calendari con foto d’autore, stampati dalla nota Tipografia Conte di Lecce, di cui uno, in Bianco & Nero, destinato agli esercizi commerciali e l’altro marchiato Fedelcementi. In quest’ultimo caso, fu il risultato di una scommessa tra me e Gimmy Fedele, il quale affermò, sbagliandosi, che mai sarei riuscito a fotografare la grande industria cementiera di Galatina, di cui lui al tempo era proprietario, facendola uscire a colori, in quanto tutto il plesso industriale era di un grigio triste. Perse e si complimentò con me per essere riuscito a realizzare immagini della Fedelcementi di colori gradevoli e inediti, benché reali. Si era così prodotta una delle mie migliori illusioni, anche perché riuscivo a vedere quello che gli altri non vedevano…

            Gli affari andavano bene, e fin troppo pure, sicché fu così che mi si impose di “prendere” la Partita Iva. Il giro finanziario era tale che non si poteva più ricorrere a piccoli espedienti fiscali per rimanere nell’ombra. Da qui la mia storia di fotografo professionista prese una velocità inaspettata e insospettata.

Nei primi giorni del 1985 decisi di abbandonare l’università, benché mi mancassero solo un esame e la tesi di laurea, e di aprire uno studio fotografico specializzato per l’industria. Tre mesi dopo tutto era compiuto: avevo una sala da posa ben attrezzata, un impianto luci considerevole, fatto peraltro di due bank da un metro per tre, cavalletti, fondali, un banco ottico 13x18 (che tra le altre ho ancora come pezzo da museo) e una camera oscura capace di realizzare anche gigantografie in Bianco & Nero fino a quattro metri. Circa le reflex, mi dotai di due Contax RTS II con ottiche Zeiss, dal 25 millimetri sino ad un 200 mm made in West Germany. Il tutto si localizzava a Lequile, nella periferia.

In giugno di quell’anno, Toti Carpentieri, oggi tra i più insigni critici d’arte leccesi, mi invitò a partecipare ad uno stage tenuto da Uliano Lucas, noto fotoreporter italiano, e Carla Cerati, fotografa e scrittrice, che si sarebbe tenuto tra Maglie e Galatina. Accettai. Fra i vari partecipanti, tutti principianti, c’era Caterina Gerardi con la quale simpatizzai immediatamente, a tal punto che successivamente le diedi alcune lezioni, attraverso le quli apprese e si perfezionò nella stampa del Bianco & Nero. Poco sapevo che Caterina sarebbe diventata un’icona della fotografia leccese e conosciutissima in ambito nazionale ed internazionale.

Quello stage fu una “bomba ad orologeria”. Non esplose subito, ma tre anni dopo. Per lungo tempo rimase silente nella mia attività professionale, ma quando si innescò distrusse tutto il mio mondo di illusioni. Uliano Lucas, prima di essere un fotografo era un fine intellettuale. Dietro ogni sua fotografia esisteva un pensiero preciso. Le sue fotografie erano pensieri. Ogni suo scatto, in cui l’emozione giocava un ruolo secondario e marginale, era premeditato e veniva da lontano, da studi e convinzioni maturate negli anni. Non fotografava per illudersi, ma forse per illudere. Proponeva, attraverso una precisa grammatica, la sua visione del mondo, una precisa visione del mondo.

Capii subito il sistema Lucas, ma questo non fu in grado di intaccare il mio mondo da fotografo che rimase inalterato. E qui, la cultura non aveva grande cittadinanza. Il mio fare fotografico rimaneva fortemente emotivo e ancorato ad alcune atmosfere sognate durante la lettura della narrativa francese di fine Ottocento e i primi Novecento, di qualche anno prima. Le mie atmosfere, erano atmosfere Liberty, da Belle Époque. Erano atmosfere che volevo vivere e far vivere, e rimasero tali fino al 1988. È Vero, furono la chiave del mio successo, ma, del pari, risultarono incapaci di farmi evolvere. Furono un sogno dal quale prima o poi ci si risveglia, come io mi risvegliai qualche anno più tardi…

 

Mauro Ragosta

 

Nota: da qui l’appuntamento con Saper Fotografare si sposta al terzo venerdì di ogni mese.

lunedì 21 marzo 2022

Pensatori Contemporanei (parte ottava): Marcello Veneziani - di Filippo Petruzzelli e Mauro Ragosta

 

A metà della strada percorsa dalla rubrica di Maison Ragosta, ovvero Pensatori Contemporanei, dove significativi contributi sono stati offerti in tema di relativismo, o come da conio del nostro Vattimo, in tema di pensiero debole, qui si pone l’attenzione su una questione solo apparentemente autonoma, ma di fatto fortemente connessa al pensiero e alle influenze delle idee di Popper, che oggi caratterizzano la società moderna e contemporanea.

L’argomento principe qui proposto è legato al concetto di bellezza, spesso confusa con l’estetica o forse troppo spesso soggettivizzata. Va tenuto presente, infatti che la bellezza si colloca all’interno di un processo ideologico, politico e culturale in definitiva, dove le formule della bellezza non sono mai fini a sé stesse, ma si affiancano sempre ad elementi di senso e significato, e da qui ça va sans dire si presentano tangenti la questione morale.

Al riguardo, meritorio ci appare il contributo di Marcello Veneziani, uno tra i migliori pensatori contemporanei che in tale ambito ha espresso un pensiero significativo e sicuramente in linea col percorso tracciato dalla rubrica per la quale si scrive.

Giornalista, scrittore, filosofo Marcello Veneziani, nato a Bisceglie il 17 febbraio del 1957, attualmente vive tra Roma e Talamone, una frazione di Orbetello, in Toscana, esattamente in provincia di Grosseto. Di formazione umanistica, ha condotto gli studi filosofici, iniziando la sua carriera nel 1977. Da allora ha scritto sui maggiori quotidiani italiani, a prescindere dal loro taglio politico. Penna rispettata e gradita da gran parte degli editori italiani. In ogni caso, è stato anche ideatore e fondatore di alcune riviste di successo, non mancando significative presenze in televisione, presso sia la Rai sia Mediaset. Inoltre, è stato membro del Consiglio di Amministrazione della RAI e membro del Consiglio di Amministrazione di Cinecittà. Come scrittore la sua bibliografia si presenta estremamente vasta, impegnandosi sia su temi di filosofia politica, ma anche affrontando argomenti spiccatamente esistenziali e letterari.

            Come si è accennato e con riferimento alla perimetrazione del concetto di bellezza, Veneziani affronta l’argomento in un suo elaborato dal titolo: Manifesto della Bellezza. Qui, contrappone ventidue aggettivi, alcuni “amici della bellezza”, altri, invece e giustamente, vengono denominati “nemici”.

            Va da sé che in questo contesto non è possibile una disamina esaustiva dell’intero e noto elenco, ma abbiamo scelto per i lettori di Maison Ragosta, alcuni elementi dell’elenco di Veneziani, quelli più pregnanti, in relazione all’elenco stesso e al contesto socio-culturale nel quale noi siamo immersi.

All’interno di questo quadro, per Veneziani amico del bello è ciò che “si misura” nei suoi confini, e ciò sia in termini quantitativi sia qualitativi, poiché un confine, un limite, permette di evocare e ridare una profondità e, da qui, far risaltare all’illimitato, all’infinito... alla “vertigine”. Tutto ciò che non ha confini, perimetri e limitazioni, per definizione non può rientrare nel paradigma del bello e far godere, paradossalmente, il senso dell’illimitato e dell’infinito. Ciò che non ha dei confini evoca disordine, assoluta assenza di comunicabilità, e quindi mancanza di un reale senso se non quello del caos.

Va precisato, al riguardo, che non si bandisce il caos, in sé per sé, ma si ridimensiona nella sua reale funzione, ovvero contrapposizione all’ordine e al limitato: due facce, stranamente, della stessa medaglia… la Realtà.

Dunque, ciò che è bello secondo Veneziani può far sì che chi lo osservi trae infiniti stimoli sia sul piano più intellettivo e intellettuale sia sul quelli dei sensi esterni ed interni, nella prospettiva dell’alternanza e dell’alternativa. La vista di un tramonto, ad esempio, con il suo sole, spesso di colore arancio, con sullo sfondo un cielo blu cobalto, che ogni giorno si ripropone con tutta la sua bellezza, si colloca in un contesto limitato, sempre, e tuttavia questo accade in un modo irripetibile, unico, ed infinite volte: sempre lo stesso, sempre diverso, sempre “unico”. È un dono di grazie per chi l’osserva e ad ognuno è dato riceverlo nelle sue infinite, e allo stesso tempo sempre uguali, soluzioni, secondo le sue possibilità. Perché la bellezza è gratis, poi, non chiede nulla in cambio, essa è come il sole, dona il suo essere al mondo e chiunque voglia può farne uso a proprio gusto.

Secondo Veneziani, diversamente, il bello non si può trovare nel caos, in un misto di colori dis-ordinati, dove non si vede né principio e né fine delle cose e dei colori. 

        In conclusione, il monito del Nostro Pensatore è più ampio di quanto si possa pensare, in quanto ponendo il limite come condizione di pienezza, si contrappone alla cultura dominante, che invece professa, spesso l’opposto, in soluzioni che ovviamente ognuno deve sperimentare per decidere cosa fare della propria vita e del proprio sentire

 

Filippo Petruzzelli – Mauro Ragosta