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giovedì 3 febbraio 2022

Saper Fotografare (parte seconda): storia di un fotografo… – di Mauro Ragosta

 

            Prima di addentrarci nelle questioni rilevanti dell’arte del fotografare, vale la pena raccontare in maniera problematica la storia di un fotografo, la mia per l’appunto, per osservare e comprendere le principali situazioni e vicende che ci si può trovare davanti durante l’esperienza con gli attrezzi fotografici. Certamente, la storia di cui si narrerà non sarà esaustiva di tutti i nodi dell’arte, ma sicuramente ne metterà in luce alcuni di particolare rilievo, soprattutto per chi si accinge alla carriera di fotografo nella prospettiva più squisitamente artistica, o comunque senza pretese professionali o commerciali, richiedendo queste ultime considerazioni diverse e ulteriori.

            Narrerò la storia in prima persona, affinché il lettore di Maison Ragosta possa immedesimarsi con più pregnanza in quelli che sono i problemi, il sentire, le aspettative, le difficoltà, le gioie e le sconfitte, legate all’arte fotografica, dove le contingenze storiche mai devono mancare, giocando sovente un ruolo decisivo.

            Correva il marzo del 1983 e nel primo pomeriggio di un martedì uggioso, ricolmo di nubi e una sottile pioggerellina, noi universitari leccesi trasfertisti a Napoli, chiacchieravamo dopo aver pranzato in orario molto tardo, intrattenendoci seduti tutti attorno al tavolo della cucina. Ad un tratto, comparve il quarto inquilino di quella casa in via Altamura, sita al Vomero: Massimiliano. Lui era l’unico napoletano in casa, era avanti con l’età in qualità di studente -aveva forse 29 anni- e frequentava ancora la Facoltà di Architettura. Più che l’impegno universitario, il caro Massimiliano, in verità, amava molto le donne e la bella vita, approfittando a piene mani della benevolenza del padre, un ricco imprenditore partenopeo.

Si presentò in cucina con in mano una bellissima macchina fotografica: una Canon. Da persona benestante e alla ricerca delle più disparate esperienze di vita non poteva non praticare la fotografia, esercizio a quei tempi prerogativa di chi disponeva di danaro in maniera più che sufficienza. Di certo, molti, ma non tutti, al tempo avevano piccoli attrezzi fotografici da utilizzare nelle “feste comandate” o per qualche gita fuoriporta. Lui, Massimiliano, invece, usava la macchina fotografica, la reflex, in tutte le occasioni, con la scusa che per fare progetti e quant’altro legato ai suoi “lunghi studi”, bisognava essere molto abili nel suo utilizzo. Sicché, si esercitava.

            L’atmosfera, in quella cucina al terzo piano di un anonimo palazzo napoletano, era molto distesa e la conversazione fluiva agilmente e in maniera soddisfacente, quando la mia attenzione cadde prepotente sul quella Canon. E fu naturale chiedere a Massimiliano di farmi dare un’occhiata più da vicino a quella che al tempo era tecnologia avanzata e simbolo del benessere e del lusso. Lui, il baronetto napoletano -così lo appellavamo- acconsentì ed io ebbi per la prima volta tra le mani una reflex. Avevo 23 anni e non nascondo che quando l’apparecchio fu in mio possesso sentii una forte emozione e, assieme, un certo imbarazzo: era una novità nella mia esistenza, che mi spinse ad un fare circostanziato, prudente e -perché no?- anche di grande reverenza… verso l’attrezzo, ovviamente.

            Da lì il passo di guardare nel mirino fu breve. Fu un attimo quando posai l’occhio sul bordo della piccola finestrella. E così, mi avvicinai all’attrezzo e caddi nell’affascinante quanto seducente e meraviglioso mondo della fotografia. Resistervi? E chi ero io per vocarmi a simile santità?

         Guardare la Realtà dal mirino della fotocamera mi ammaliò immediatamente. Da quel mirino la Realtà era qualcosa di diverso, era più bella, compatta, confortante, dava all’essere una certa forza in termini esistenziali. Tutto attraverso quel mirino appariva molto più entusiasmante. La Realtà, quella circoscritta, proprio come accade guardando attraverso la “finestrella” della fotocamera, si presenta, infatti, sempre come un universo compiuto, perfetto in sé, dando così all’osservatore l’idea di possederla pienamente, la sensazione di forza e dominio della stessa. Insomma, dietro la fotocamera ci si sente, allo stesso tempo, vivi e potenti, come io in effetti mi sentii.

            Guardare dal quel mirino significava far quadrare un cerchio che viceversa non quadra mai, rendere qualcosa imperfetta ed ineffabile in qualcosa totalmente definito… Ecco, quella Canon mi diede l’impressione di possedere la Realtà, che sino ad allora era stata per me sfuggente, imprendibile, non contenibile, equivoca. Un’illusione? Sicuramente, come sicuro apparve subito la decisione di abbandonarmi alla tentazione, alla lusinga, alla velleità che offriva l’attrezzo fotografico.

Di lì a poco restituii la Canon, marchingegno che per me fu sin da subito vettore di magie, e la riunione pomeridiana …di quel pomeriggio bigio, nuvoloso, ma che segnò irreversibilmente la mia esistenza… si sciolse in maniera disinvolta.

            Andammo a letto presto quella sera e, mentre scambiavamo le ultime battute col mio compagno di camera, un certo Raffaele, posi il quesito di come fare ad avere una reflex per fotografare. Volevo fotografare. Volevo avere una relazione più profonda con quell’attrezzo, il cui sortilegio mi aveva irrimediabilmente stregato. Ad ogni modo, dopo qualche minuto chiusi gli occhi e mi addormentai…

 

…a fra 15 giorni

 

Mauro Ragosta (2310)

 

Ph: F.M.

2 commenti:

  1. Mi sono incuriosita... Aspetto il prossimo numero...

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  2. ...o forse si è specchiata?
    A fra 15 giorni e.......grazie ! ! !

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