Antonio
Gramsci, Aldo Moro, Enrico Berlinguer, Sandro Pertini, sono solo alcune delle
figure più importanti che la politica italiana ha conosciuto nella sua storia
novecentesca. Uomini e politici capaci di portare con sé quel senso della vita
pubblica e delle istituzioni che oggi praticamente non è più possibile rivedere
in nessuna delle figure del ventunesimo secolo.
Il
fatto che non si riescano a ritrovare figure di tale levatura e tale acume,
però, non è un caso, non è il semplice seguire degli anni. Elementi e decisioni
ai più alti livelli delle gerarchie hanno condotto a quanto siamo costretti a
sentire e vedere, oggi.
Un
primo fondamento verso cui volgere lo sguardo? Alla cultura, al suo peso ed
alla sua importanza. Il suo declino è piuttosto un appiattimento, un
livellamento verso il basso, del neppure troppo lento sprofondare nel buio
della ragione, quello che “genera i mostri”! Se prima i nostri politici, non
necessariamente laureati nelle più grandi università del globo, erano in grado
di muoversi sui vari livelli della discussione pubblica, sui vari temi, lo
dovevano soprattutto al grande studio alla base dei loro assunti. Poche erano
le enunciazioni vuote e scarne di significato, pochi i “verbi” lasciati volare
per caso. La cultura ed il suo peso erano centrali nel loro agire, pur negli
errori e nelle scelte sbagliate.
Proprio
Gramsci spiegava cosa fosse la cultura, nel suo articolo “Socialismo e
cultura”, del 1916: «È organizzazione, disciplina del proprio io interiore, è
presa di possesso della propria personalità, è conquista di coscienza
superiore, per la quale si riesce a comprendere il proprio valore storico, la
propria funzione nella vita, i propri diritti e i propri doveri.» È ovvero
elaborazione, riflessione e non scimmiottamento, o superficialità o
“copia-incolla”.
L’ultimo
decennio del secolo scorso, però, portò con sé, dopo la caduta dell’Unione Sovietica, anche la fine di uno schema, la
fine della contrapposizione tra due distinte proposte di organizzazioni dello
Stato, dell’economia e della società, insomma di due alternative: Occidente
contro Oriente, liberismo e liberalismo contro comunismo.
Non
a caso la parabola discendente della qualità dei politici parte dai primi anni
Novanta, dalla perdita del vecchio schema. Politici di destra e di sinistra, da
allora, iniziarono la rincorsa verso il centro e le idee liberal-democratiche, oramai diventate unico regime.
La sinistra e, nello specifico, il Pci con la “svolta della Bolognina” e
Occhetto con “la cosa”; la destra col Congresso di Fiuggi, con il predellino,
Silvio Berlusconi e le sue aziende di famiglia.
Il
primo lustro ’90 per l’Italia significò dunque la distruzione di un modo di
pensare e fare politica e la nascita di uno totalmente nuovo. Si sviluppò
quella vuota politica dell’alternanza, tanto acclamata dalla democrazia
occidentale, e del personalismo. Perché vuota? Perché l’alternanza non ha mai
significato “alternativa!” Anzi, ha portato alla ricerca della conquista di
piccoli potentati economici, dove la qualità del politico e del rappresentante
non si quantificano in idee e spessore morale, ma in sacche di voti da
assicurarsi, costi quel che costi. Si è passati dunque, da un conglomerato di
filosofie e di modi di concepire lo Stato e la società, ad una competizione tra
“amministratori di condominio”, con tutto il nostro rispetto per gli
amministratori di condominio.
Massimiliano Lorenzo
Bella iniziativa giornalistica: portare per mano il lettore per un percorso storicamente complesso con narrazione chiara e contemporaneamente profonda. Complimenti
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