Il 2020, il qui e ora, non conosce
poesia. Per fare poesia o meglio per essere poeti, bisogna avere coscienza,
saper discernere, saper distinguere e trarre dal caos una forma d’armonia, di
congiungimento…poesia è l’unione degli opposti, la morte della discordia, la
fine del caos…non della vita, però. Dalla forza primordiale da sé stessa
erompente, autorigenerantesi, capace di travolgere morte e dissoluzione,
trasformandola e rigenerandola in vis, energia pura esente da qualsivoglia
ostacolo o spauracchio. Di questa coscienza sono capaci i poeti e i bambini.
L’infanzia dei popoli ne è straripante, riducendosi via via con il
moltiplicarsi delle divisioni, delle idiosincrasie, delle intolleranze in altre
parole a tutti i livelli matematici e umani. E via via si perdono, aria
respiro, vita che è sempre quella forza selvaggia e libera, inarrestabile. Si
cede così a ciò che chiamiamo defungere, allontanarsi dalla funzione del fare e
dalla rispettiva forma a questa inerente, per assumerne un’altra più funzionale
se non altro all’eterno riciclo della materia, la quale altro non è che
l’eterna madre costantemente figliante e figliata. Dante qualcosa ne capiva,
anche al di là del mero aspetto religioso: “Vergine
Madre, figlia del tuo figlio, /umile alta più che creatura, / termine fisso
d’etterno consiglio, / tu se’ colei che l’umana natura/ nobilitasti sì, che ‘l
suo fattore / non disdegnò di farsi sua fattura.”
Per cui se poesia resta, resta sempre
nella coscienza popolare, o meglio nell’inconscio popolare, in quello che Jung
chiamava collettivo e collettivo anche delle cose oltre che delle persone,
nella radice comune dell’ordine creato.
In quello che rimane del buon senso che non sempre coincide con il senso
buono o tale ritenuto, quel che sopravvive dei primordi e degli albori, la sua
infanzia naturale, cioè relativa al nascere (natura viene da nascor verbo
latino che significa nascere ed essendo un futuro significa che nascerà, o sta
per nascere- in greco ϕύσις da ϕύω
= nascere, ma anche generare). Dunque ciò che nasce genera e ciò che genera
nasce. Il binomio è semplice. In questo substrato inattingibile coscientemente
per molti, ma comune e presente in tutti i popoli e le diverse civilizzazioni,
per il solo fatto di essere generati generanti, e perciò mantenentesi, anche se
a livello inconscio, in un perenne stato nascente. Da qui la lievissima
differenza anche di radice tra genus e genius: genus, cioè genere e genius,
cioè colui che fa, crea, che genera e si autogenera, cioè sta sempre sul punto
di nascere e quindi segue il disegno più semplice, l’intuizione più naturale,
più vicina all’origine. Rinvenibile in quel liquido amniotico del creato (dalla
radice sanscrita kar- padrone e in
greco antico καίνω
unito a χϱόvoς = tempo, quindi, nel
qui e ora).
E’ in virtù di questa condizione
permanente della ϕύσις, della
vis, mater, naturum esse che il genus genius, o se preferite, il genius generis affronta le calamità
anche queste generate e dunque nate dallo stesso padrone di sé stesso, generato
e a sua volta generante .E qui può valere la doppia lettura: quella pragmatica
della mano criminale o dell’errore umano e quella tutta spirituale che si cela
nel desiderio o volontà collettiva o anche nel sentimento instillato, con
metodo, della paura e della sottomissione,
pena punizioni capitali o karmiche
(tra queste ultime due la differenza è frutto solo di
un’elucubrazione mentale volta a travestire la vetusta relazione tra causa ed
effetto, miracolosamente scomparsa quando si tratta di farla valere in quanto
assunzione di responsabilità personale).
Ecco che, poiesis che viene da ποιῶ, verbo che indica l’azione del fare, del
creare di tutti quelli che si adoperano per la salvezza e la vita (cioè la vis,
la forza energetica) propria e altrui, ma lungi dall’essere eroi sono le prime
vittime di un sistema, per restare in tema, indubbiamente spoetizzato, quando
non malcondotto o addirittura corrotto. Medici, infermieri, operatori sanitari,
fabbriche e trasporti di beni primari, quelli che restano a casa per evitare di
diffondere il contagio, quelli che si pure a distanza, si prendono cura degli
anziani, facendo loro sentire affetto e presenza oltre quello che può essere
l’abbraccio – non è così che chi è scomparso dalla nostra visuale si fa
sentire, pur non potendoci abbracciare? Tutto torna nella lingua muta e comune
della poesia, del creare, de fare cioè, come vediamo e anche come non riusciamo
a vedere perché scolpito nella comune profondità del genius generis e passatemi
la ridondanza, la perenne anafora o epifora a seconda della collocazione che si
voglia considerare. È in questa perenne alba, in questa forza primordiale, in
questa popolare infanzia e colpevole innocenza, tutta humus e umanità che si
cela oggi, quel che resta della poesia, prerogativa non nel pensiero basso o
alto (che può tutt’al più servire, il primo a denigrarla e il secondo a
dispiegarla, renderla cioè il più possibile vicina e comprensibile a chi ne è
privo o crede o vuole credere di esserlo).
Ed è la stessa vis, la stessa
forza selvaggia e inarrestabile splendida e perennemente sorgiva, che può
essere indirizzata da noi stessi o da chi per noi, se deleghiamo
consapevolmente o inconsapevolmente, nella direzione voluta, non sempre
coincidente con la migliore per tutti. Perciò la responsabilità di quel che
accade resta nostra e da qualunque punto di vista la si voglia guardare.
Rossella Maggio
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