Dopo aver tracciato nella
parte terza di questa rubrica uno dei casi più eclatanti di personalismo
(berlusconismo) e la politica che ne è conseguita, qui ampliamo l’orizzonte e
guardiamo questo aspetto della politica in maniera da un lato con un respiro
più ampio e dall’altra col tentativo di ricavarne un ordine sistemico.
Ed in prima battuta va
evidenziato che i politici e i partiti del ‘900, in Italia, nei primi anni
Novanta, e cioè dopo la caduta del muro di Berlino e con esso del comunismo,
lasciarono uno spazio vuoto, che venne subito occupato da nuove modalità di
ricerca del consenso e del potere. Fu il personalismo ad irrompere tra le fila
dell’agire politico, è la figura del capo partito o movimento ad attirare su di
sé la massima attenzione. Questa pratica ha portato, praticamente, i sodali ed
i simpatizzanti del nuovo uomo politico a identificarsi con lo stesso, quasi ad
emularlo. Sebbene sia questo lo schema diffuso, può però prodursi in
declinazioni differenti.
Il passaggio dal partito
“collettivo” al partito personale avvenuto sul finire del Novecento può
probabilmente considerarsi uno degli aspetti, un sintomo, di un cambiamento più
generale all’interno della società. In quegli anni, dopo la caduta della
controparte orientale, l’individuo occidentale iniziò a porre la propria figura
al centro, soprattutto, dell’economia, convinto di poter gareggiare e vincere,
da singolo, la battaglia della competizione, sale del mondo capitalista. Allo
stesso modo, in politica, il soggetto intenzionato ad imporre la sua idea, non
si è più affidato all’organizzazione, o alla struttura, e all’elaborazione
concettuale di un gruppo come nel passato, ma ha anteposto la sua figura
carismatica dinanzi al partito.
Così come era per i
partiti del Novecento, anche per la “nuova” politica del personalismo,
l’impegno profuso è stato indirizzato alla ricerca del potere. Un potere
primariamente su coloro che il capo hanno seguito e legittimato per
acclamazione, che vuol dire controllo degli individui e sui loro interessi. In
seconda battuta, la ricerca del potere sulle istituzioni, proprio per difendere
la propria posizione, i propri interessi particolari e quelli dei propri
adepti. Gli interessi però, non sono da considerarsi necessariamente, o non
soltanto, economici, perché nelle declinazioni del potere personalistico si
possono rinvenire anche quelli di carattere politico-ideologico. Un po’ come la
differenza che intercorre tra il personalismo di Berlusconi, di Renzi e di
Salvini.
Alla base del potere, che
sia personalistico o di carattere collettivo, perché sia legittimo e legittimato,
non può mancare il consenso. Anche su questo aspetto, dalla fine del Novecento,
il personalismo ha mostrato le sue diverse facce. Lo schema ricorrente è quello
dei cerchi concentrici: consenso nel gruppo e consenso tra gli “esterni”, alias
potenziali elettori. Il politico personalista prospetta un’idea di società con
all’origine la propria figura, la propria immagine. Si può infatti osservare e
ritrovare politici industriali che illudono chi li guarda con la possibilità di
divenire ricchi e longevi come loro. Oppure, politici che cercano di trasferire
il proprio decisionismo in coloro che a lui si affidano, in maniera acritica.
Gli uni e gli altri provano a smuovere gli istinti più profondi e grezzi, che
siano quelli della ricerca di una posizione economica o della forza
decisionale. Ma, tanto i sodali degli uni, tanto gli adepti degli altri,
restano a bocca asciutta e, peggio, vengono schiacciati dai loro “eroi”, che
racchiudono il loro lascito all’interno di gruppo ristretto.
Come può vedersi, la
figura del politico post-partiti novecenteschi è quella di un individuo che per
quanto qui esposto, e si potrebbe indagare ancora, è lo specchio della società
individualista e competitiva che viviamo. Gli schemi economici e politici si
sono intrecciati, accorciando quella loro posizione di subalternità dell’uno
rispetto all’altro. Proprio come i ruoli all’interno della società, dei
tuttologi e dei laureati all’università della strada.
Massimiliano Lorenzo
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