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martedì 30 marzo 2021

Saperi & Sapori (parte quarta): il vino – di Antonella Ventura

 

In questo tempo, profondamente toccato da gravi sconvolgimenti sociali ed economici a livello mondiale, teatro di desolazione, frustrazione, cadute fisiche e lavorative per molti, e soprattutto di paura per un futuro che sembra sempre più incerto, tinto di colori che inquietano, vorrei soffermare l’attenzione dei lettori di Maison Ragosta, solo per il tempo necessario alla disamina di queste poche righe, su un’antica quanto importante bevanda: il vino. Perché vino oggi? Inutile dissertare su una bevanda che perde le sue origini nella notte dei tempi? Il Mondo in questo momento difficile da attraversare, lento e monotono, pieno di vuoti, ha bisogno di poetica, di astrazioni accattivanti, di anima, per ritrovarsi, per in qualche modo riconciliarsi e per quel che è possibile ricucire il proprio rapporto con la Realtà e le sue illusioni, che rendono la vita sopportabile, dove proprio il calice antico di nettare e sangue degli dei ne è il simbolo. Il vino è infatti, in tutte le declinazioni simbolico-religiose è vita, vita pulsante ai massimi livelli. È la follia(?) dell’ubriaco e dei suoi baccanali.

            A volte l’uomo se è sobrio ha bisogno di maschere per sentirsi libero di tirare fuori se stesso. Ma non così col Vino, grande ispiratore di arte, amico dell’eros, della buona compagnia e dell’amicizia, bevanda che anima da sempre le più importanti tradizioni, fonte di attività e sviluppo economico. Calice che rallegra, nutre, sia i meno abbienti, mettendo a disposizione preziose calorie, sia gli amanti della buona tavola, che attraverso l’accostamento con il cibo ne esaltano gusto e sapore.

Questa bevanda, il vino appunto, ottenuta dal processo di fermentazione del mosto dopo la pigiatura dell’uva, si differenzia in vino rosso con la fermentazione a cappello galleggiante e a cappello sommerso, finito di invecchiare, a volte in botti di legno o barrique, e vino bianco che dopo la pigiatura perde la parte solida e ottiene la sua fermentazione in vasche a basse temperature o refrigeranti. Un discorso a parte va fatto per i rosati, inventati e messi a punto proprio qui nel Salento. Noto è che l’inventore e il primo commercializzatore di vino rosato (Five Roses!) fu Leone de Castris di Salice Salentino, appena dopo la Seconda Guerra Mondiale. Alle origini il vino rosato era il risultato della mescolanza di vari tipi di uva; oggi, invece, è ottenuto da un tipo di uva naturalmente povera di materia colorante, varietà meno numerose delle altre due, e solitamente vinificate in purezza per non perderne la tipicità.

Ma quando si beve un calice di vino, non si sta compiendo una semplice attività di alimentazione o degustazione. Il vino, in particolari frangenti, è anche uno strumento liberatorio delle forze originarie dell’uomo e, in tale prospettiva, è un simbolo esoterico-religioso. Un mezzo che paradossalmente consente all’Uomo di conservare e mantenere la sua umanità.

Nella Civiltà classica, la forza, la guerra ed il sesso racchiudevano valenze centrali per la vita dell’individuo. E il vino era strumento e , allo stesso tempo, simbolo, che liberava le forze sessuali. I baccanali e i riti dionisiaci, ma anche i riti eleusini erano volti a far ritrovare all’uomo la sua dimensione originaria, furiosa e selvaggia, dove il caos era principe di tutte le cose.

 Sin dall’origine, il vino ha permesso all’uomo di riscoprirsi nella sua interezza, tant’è che dagli antichi greci, gli verrà attribuito il dio Dionisio come protettore, fanciullo dall’aspetto bello e innocente, ma anche satiro, il dio della contraddizione, in nome del quale, le sacerdotesse celebravano riti orgiastici “per fare a pezzi l’uomo” il maschio, il detentore del potere, colui che vuole stabilire la legge togliendo il potere agli dei, a ristabilire l’equilibrio naturale delle cose, ben percependo che, lì dove sussiste una società prettamente patricentrica e basata sul visibile e l’oggettivo, a morire è il femmineo, la luna, la zona d’ombra, l’anima, la poetica. L’ebbrezza, il vino, quindi, per sentire concretamente e non astrattamente l’anima, filosofia intesa come conoscenza di un tutto, che non distingue e separa le cose, per perdere, dunque, il senso univoco dato dagli Uomini, e attribuire valenza distinta, ma non separata al non visibile.

Nella nostra Civiltà, quella cristiana, il vino simboleggia il sangue di Cristo, il sangue dell’innocente e dell’innocenza, che vengono sacrificati per riacquistare quella dimensione selvaggia, antica e originaria, necessaria, paradossalmente, allo sviluppo dell’Uomo. Le dimensioni del razionale e della Ragione, della matematica, nella nostra Civiltà da sole non bastano per reggerla e sopportarla: ci vuole il sangue dell’innocente, di Cristo dunque. Una Civiltà che ha bisogno e deve negare la Verità, Cristo appunto, per sopravvivere e svilupparsi nelle direzioni tracciate dai suoi fondatori. Bere al calice del sacerdote è dunque azione che tutela e conserva la nostra Civiltà, oltre che proiettarla verso il futuro.

Al di là di ciò, oggi, il vino sul piano strettamente alimentare, non è più visto come un’abitudine casereccia della tavola quotidiana, ma una vera e propria scienza, una specifica cultura enologica, che attraverso la figura proprio dell’enologo, si arricchisce di dettagli che parlano del territorio di appartenenza, che parlano di chi li propone, e che si rispecchiano nella personalità, nelle aspettative e nella cultura di chi lo gusta.

L’attenzione, qui si ferma sui vigneti pugliesi ed in particolare salentini, dominati in maniera incontrastata dai vitigni a bacca rossa, che ricoprono più dell’ottanta per cento del territorio: Negroamaro e Primitivo, seguiti dal Malvasia e dal Susumaniello, dal Bombino, che può anche avere bacca bianca. E non più esclusivamente vino sfuso da tavola, quindi ma vino di alta qualità (V.Q.P.R.D.), con indicazione geografica tipica, di denominazione di origine controllata(D.O.C.) o di origine controllata garantita (D.O.C.G.), che esprimono con la loro vite, l’incontro diretto con la terra e con chi si prende cura di lei da sempre (il viticoltore) e negli ultimi anni vino ispirato, reinventato e rivalutato attraverso la nuova figura dell’enologo.

Bottiglie ricercate con sensazioni di sapidità che raccontano della terra, attraverso il contenuto delle sostanze minerali disciolte e molto più apprezzabili in assenza di tannini che ne sovrasterebbero il gusto. Ecco che a seconda dell’ambiente pedoclimatico (terreno freddo, caldo, vicinanza al mare, terreni salmastri, ecc) assumono corposità, sensazioni e aromi, dando armonia non solo gustativa ma anche olfattiva con fragranze fruttate o floreali uniche. Vini su larga scelta molto importanti se si vuole creare un’affinità di profumi e sapori a ogni piatto. Carte dei vini che girano intorno al brand al ristorante e che raccontano del territorio e della cultura che lo rappresenta, perché la storia di una bottiglia possa sapere affascinare e conquistare prima con le parole poi con il gusto e l’olfatto.

Vino-filosofia quindi, immagine tradizione, storia, anima che oggi più che mai, deve fare della comunicazione la sua forza, da lasciare ai posteri come ricchezza di una bella storia di umanità e cuore.

 

Antonella Ventura

 


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