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venerdì 24 luglio 2020

Archivio Ragosta: Riflessione intorno all’aggettivo “provinciale” – di Mauro Ragosta


        Sovente, alcuni soggetti in posizione di vertice, sia nella prospettiva istituzionale sia in quella sociale ed economica, brandiscono la parola “provinciale, rivolgendosi a chi è in posizione di inferiorità o subordinazione. Una parola che non viene usata in termini generalistici, ma è tesa a colpire, invece particolari soggetti o conglomerati umani che ufficialmente e chiaramente subordinati presentano specifiche caratteristiche, che forse poco hanno a che fare col periferico o marginale, col cattivo gusto o con prassi poco evolute.
            I destinatari di questo eufemismo, perché tale è la proiezione nella quale spesso viene usata, di questa parola che, in sostanza, veste e traveste significati più rozzi, mostrano tutti delle peculiarità. In genere i destinatari dell’aggettivazione in questione, dunque, di questa parola che nasconde il grande disprezzo per chi la pronuncia, sono tutti soggetti che si muovono secondo valori e dinamiche centrifughe, poco gradite a chi si trova in posizione di vertice, che predilige orientamenti centripeti. Insomma, alle persone di vertice non sono graditi i soggetti che non guardano al centro, dove il soggetto di vertice risiede. Ecco, occorre guardare e soprattutto ispirarsi ai gusti del centro. Di converso, una cultura periferica, che non ha i suoi orizzonti nel centro, viene bandita e brandita. E spesso, alla parola “provinciale”, poi e così, se ne abbina un’altra, ovvero “autoreferenziale”, per dare il colpo di grazia a colui che non guarda al vertice e dunque al centro.
            Ecco che il Potere colpisce, percuote col termine “provinciale” chi, in buona sostanza, se ne va per fatti suoi, per la propria strada non curante dello stesso Potere. Chi ama poco imitare in definitiva trova la sua compiutezza in sé e non trova nello stesso Potere ispirazione né modelli di riferimento. E così, “provinciale” che sottintende a qualcosa di molto più rozzo, cafone o qualcosa di molto vicino, in effetti nasconde un significato altro, più profondo, ovvero quello di ribelle, non allineato al Potere, che è il Centro per eccellenza.
            Provinciale, rifacendoci alle parole di Baudel è il luogo dove le luci della città sono basse e rade, è il luogo delle periferie, del sottosviluppo, in definitiva, che appare il disvalore e, di converso, lo sviluppo diventa il dictat di chi Governa.
            Ma ci si chiede: dobbiamo stare tutti al Centro? Guardare il Centro? Ispirarci al Centro? In altre parole dobbiamo necessariamente tutti guardare a Milano, Parigi, Londra, Tokio, New York, dove queste megalopoli sedi del Centro, del Potere devono ispirare il nostro incedere? E’ risolutivo di alcunché? Per caso a New York si soffre di meno? Non esiste il dolore? Per caso, Milano costituirebbe il Paradiso, l’estasi permanente? La felicità permanente? A Londra, poi, non ci sarebbero i cretini ed il cretinismo?
            In verità, quando il Potere lancia questa parola, questo aggettivo, mette solo in evidenza la sua incapacità di essere attrattivo, unificante, di non essere, in definitiva, motore sociale, dunque. E’ il Padre inferocito nei confronti del figlio, che non riesce a governare. Certamente, al riguardo vi sarebbe da chiedersi se vi sia un’effettiva incapacità del Potere, o un’incapacità di subordinazione da parte delle periferie di seguire le luci del Potere, in una prospettiva unificante.
            Di fatto, quando l’uomo di potere scaraventa questa parola, “provinciale” appunto, bipartisce i sottoposti, le periferie……..le province. Questa parola, infatti, è come una “spada a due tagli”. E così, dopo essere stata usata nei confronti del popolo e digerita dallo stesso, gli effetti sono i più disparati, anche se tuttavia possono essere ricondotti a due tipi di reazioni. Vi sarà chi si metterà d’impegno ad essere più cittadino, e si ispirerà al centro, ma vi sarà chi invece comincerà a coltivare sistematicamente l’odio per il Potere, per il Centro appunto, e la sua azione sarà con forza sempre più centrifuga fino a risolversi in una politica antileadership, fino a chiamare addirittura in sfida il Potere stesso.
            E dunque, superata la fase degli psicologi, che etichetteranno il “provinciale” come soggetto con problemi nei confronti dell’autorità, egli diventerà un leader d’opposizione al Potere costituito. Ma non finisce qui.
            Da attenta riflessione, il leader, il Potere nel suo incedere, attraverso le sue qualificazioni, consce o inconsce, tra le quali rientra l’uso del termine “provinciale”, getta il seme per la Vita, per la Vita di un avversario, di colui che dovrà raccogliere il testimone nella gestione del Comando, di colui che dovrà sostanzialmente sostituirlo nella Centralità. Il Potere, insomma, crea nelle sue dinamiche, i presupposti per il proseguimento del Potere stesso, generando e creando un antileader, il quale a volte avrà la meglio sullo stesso Potere costituito, sostituendolo nelle sue funzioni.
        Da qui, in definitiva, il Potere, ovviamente quello reale, nelle due versioni del leader e dell'antileader, pare che abbia una coscienza sua propria, naturale si potrebbe affermare, che prescinde nelle dinamiche fondative, dal soggetto che lo interpreta e lo vive
            E così si procede, ancora nelle parole di Braudel, dal centrage al recentrage. La storia dunque, frutto di una struttura dialogica naturale e spontanea del Potere stesso? E con se stesso?  Nessuno può darci la sicurezza di ciò, potendo il Potere, diciamo di "tipo diurno" scientemente agire per creare un antileader, le cui funzioni sono moltissime e tra queste la prosecuzione della Vita e della Civiltà stessa.
            Si comprende dunque e per concludere che il "provinciale" è una vera e propria necessità di qualsiasi società.

Mauro Ragosta

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