HOME PAGE

martedì 20 aprile 2021

Saperi & Sapori (parte quinta): Le erbe selvatiche – di Antonella Ventura

          E siamo alla quinta puntata della Nostra rubrica Saperi & Sapori, dove, dopo aver offerto ai lettori di Maison Ragosta le principali chiavi di lettura con le quali si affrontano la trattazione di cibi e alimenti, abbiamo reputato addentrarci in argomentazioni un po’ più pregnanti sul piano dei principi, sia su quelli che governano il nostro/vostro Mondo Occidentale sia su quelli che potrebbero costituire un nuovo modo di concepire l’esistenza sia su quelli che sono stati fondanti nel passato. E così si è scelto di argomentare sulle erbe selvatiche…….

C’era una volta in un prato ricco di colori e odori selvatici una strega un po’ fata buona, inseguita da giudici cattivi, e c’erano villaggi fatti di casine con camini accesi, sui quali ardevano paioli di ottima minestra… così si potrebbe cominciare ad argomentare di erbe selvatiche e i protagonisti ci sarebbero tutti, perché dire erbe selvatiche è raccontare di un’antica cucina e di sane medicine, toccando, qui e lì e per completezza, anche brutte situazioni, tradizioni oscure, pregiudizi e morte.

Le erbe selvatiche, chiamate anche “piante alimurgiche”, sono state per secoli l’alimentazione delle necessità. Infatti, queste piante -conosciute il più delle volte con i propri nomi dialettali, che variano da regione a regione- sono a disposizione dell’Uomo in ogni mese dell’anno e non hanno bisogno di alcuna cura particolare: sono dono spontaneo di Madre Natura, sin dalla notte dei tempi.

È con un afflato fiabesco che sovente si vanno a raccogliere i fiori di campo e le erbette selvatiche, muniti di sacchetto e taglierino, necessario quest’ultimo per non sradicare l’intera pianta e permettere la rinascita successiva. In simile attività potremmo imbatterci nei simpatici fiori gialli dell’Iperico, nel Finocchietto Selvatico, dal sapore dolce e intenso, nell’Insalatina di Plantago Lanceolato e Sangina, e ancora nella vellutata Salvia, dai fiori viola, nel Timo, nell’elegante Aglio, nella Ruchetta, nel Fiore di Cappero, con i suoi frutti dal sapore deciso e penetrante, nella Mentuccia, nella Malva o nelle oltre 800 varietà di piante commestibili e terapeutiche esistenti in natura.

Molte delle erbe e dei fiori selvatici sono stati rivalutati da grandi chef, che li hanno inseriti in preziosi piatti di alta ristorazione, contribuendo a esaltare sapori antichi, di secoli passati. Si riscopre cosi, l’orto classico di una volta, quello che non mancava mai dietro la casa, con le sue verdure vive, perché prive di concimi chimici. Un’agricoltura che, dunque, non punta alla quantità ma alla qualità, alle tradizioni, ai sapori antichi, originari di una cultura contadina. E così si è ritornati alle preziose Minestrelle di Erbe, zuppe mai una volta uguali all’altra, perché prive di ricetta scritta che ne indichi dosi ed ingredienti, tramandate oralmente per secoli. Ed ancora, la Minestrella di Galligano, la Zuppa di Cascio, oggi molto apprezzate, sono due dei tanti validi esempi che si potrebbero fare.

Riscoprire le piante selvatiche è riappropriarsi di una sorta di grammatica propria del territorio, di una vocazione tramandata per secoli ed oggi fortemente compromessa. Infatti non tutti vedono le piante come suggestioni di bellezza della terra, saggezza e intelligenza di comunità, perché non è facile legare una economia consumistica, basata sulla produttività, al destino della terra e alla ciclicità delle stagioni, dove nulla si può avere di più del necessario. Ecco che, amare le erbe selvatiche significa appunto, ridare valore all’ambiente naturale e ai suoi percorsi spontanei. Anzi, pare che lo spontaneo non ci interessi più, non ci interessa più uno sviluppo assieme alla Natura, all’ordine naturale delle cose, ma si vuole forse un altro Uomo e un’altra Terra, reinventati non si sa sulla base di quali principii.

Per altro verso, molte sono le proprietà terapeutiche delle erbe selvatiche, delle quali l’uomo si è avvalso sin dall’ origine dei tempi, e i guaritori naturali, rappresentano un pezzo importante della medicina dei semplici. Essere curati attraverso le piante vale a dire staccarsi da una medicina allopatica, basata sulla sintomatologia e sull’ assunzione di principi attivi chimici, atti ad eliminare tali sintomi, per prendere in considerazione una prevenzione più ampia, basata su un apporto costante di elementi, che si attivano a proteggersi, attraverso una naturale complementarietà con le piante, le quali sintetizzano, per la loro protezione, le stesse sostanze che proteggono noi.

Già nella medicina antica la malattia era vista come una mancanza di sintonia del corpo con la natura e ricorrendo, a volte ad aspetti ritenuti magici, si cercava di restaurare la comunicazione. Qui, le erbe selvatiche erano un mezzo importante per ritornare in questa “simpatheia”, dal greco sentirsi insieme, all’unisono, concordi cioè in armonia con gli elementi attraverso gli elementi stessi.

In tale prospettiva, originariamente erano le donne le depositarie della scienza delle erbe; conoscevano i tempi di raccolta, che di solito combaciavano, ad esempio, con la notte di San Giovanni, tra il 24 e il 25 giugno, o seguivano le fasi lunari, perché era pensiero comune che vi fossero momenti in cui le piante avessero maggiori poteri. In passato, infatti sarebbe stato facile, girando in queste notti particolari per selve e boscaglie, imbattersi in cerimonie con fuochi accesi, intorno ai quali si consumavano riti legati alla fertilità, con danze sfrenate e benedizioni di donne guaritrici, anche poco o per niente vestite, poiché la nudità delle raccoglitrici, si riteneva, aumentasse il potere della raccolta. E tutto era chiesto agli Dei, nulla poteva l’Uomo senza il loro benestare. Ogni forma di vita presa in sacrificio per l’uomo andava benedetta con gratitudine e rispetto, perché rappresentava un dono.

Questa bella fiaba fu per secoli quotidianitá, fino alla comparsa del cristianesimo che relegò un Dio in un cielo lontano e il rito divenne una prerogativa solo maschile e di pochi eletti. Il popolo perse così, il potere della comunione diretta con il divino e alla donna si tolse il simulacro della religiosità e l’idea della Dea Madre Terra. Tutto ciò per riempire monasteri prima e conventi dopo, di questa scienza, quella appunto delle erbe officinali. Da quel momento in poi saranno i monaci e i frati a detenere questa sapienza, e le donne che tentavano ancora di tramandare questa antica saggezza venivano arse vive sui roghi, accesi appositamente per sconfiggere questo retaggio ancestrale. Nasce la caccia alle streghe, alle quali vengono fatti confessare, attraverso inverosimili torture, poteri demoniaci impossibili e impensabili. Di fatto, dietro vi era un processo di trasferimento di saperi e poteri legati alle erbe selvatiche.

      Ma chi erano in realtà le streghe? Oggi lo sappiamo: erboriste, levatrici, guaritrici, specializzate in quelle affezioni tipiche del mondo femminile, quali mestruazioni, gravidanze, parti e aborti. Donne preparate in rimedi tratti dalla conoscenza, molto approfondita di erbe e fiori, che per questo, al bisogno, sapevano diventare anche assassine. Perché pensare che la magia come l’erboristeria fosse solo votata a pratiche pacifiche sarebbe sbagliato, poiché le pratiche magiche sono da sempre uno strumento utilizzato sia nella difesa quanto nell’attacco e le piante possono guarire quanto uccidere. Ma questo è un altro grande capitolo legato alle erbe selvatiche…..

 

Antonella Ventura

 

Nessun commento:

Posta un commento