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venerdì 11 marzo 2022

Recensione n°22: Caterina Gerardi d’élite… per gli amici – di Mauro Ragosta

      

      È un fenomeno molto limitato, soprattutto a Lecce e dintorni, quello ascrivibile a pubblicazioni “riservate” per pochi intimi, spesso per amici o familiari. In Italia, da più di tre lustri va molto di moda pubblicare, almeno nell’upper class, la storia della propria famiglia o diari personali, spesso corredati da considerazioni di ampio spettro, da donare al proprio entourage in occasioni e per l’occasione di feste private o ricorrenze religiose o civili. Non poche volte si pubblicano in tiratura limitata anche calendari o book fotografici con un tema gradito a quei pochi che li riceveranno. In tale direzione, a Lecce sono andate molto di moda, almeno sino a dieci anni fa, le storie dei capitani d’industria locali, di famose imprese salentine, fenomeno questo oggi molto più sbiadito

            È in questo relativamente ampio e riservato contesto che si colloca la “pubblicazione” in onore di Caterina Gerardi, nota fotografa, prima, e dopo anche film-maker, di origini leccesi, che partendo dal capoluogo salentino ha saputo far conoscere e apprezzare le sue immagini a livello nazionale ed internazionale. Un volume edito l’anno scorso in aprile e targato AnimaMundi, di cui ancora oggi se ne parla nella cerchia di Caterina, ma anche oltre. E proprio per questo -e non perché anche chi scrive ha dato un contributo alla realizzazione del prezioso lavoro- Maison Ragosta ha deciso di prenderlo in considerazione nelle sue recensioni.

            In effetti, il libro in onore di Caterina Gerardi mette in luce non solo gli avamposti della cultura leccese, ma anche alcuni dei suoi aspetti specifici e poco noti. Ma andiamo per ordine e partiamo dalla genesi di questo lavoro, che si presenta del tutto singolare.

            Tra i primi anni ’90 sino al 2010, Caterina ogni anno organizzava una grande festa nella sua casa leccese la sera di attesa della “visita della Befana”. Festa, a mano a mano che gli anni passavano, molto attesa dagli ospiti abituali, ma anche da quelli estemporanei, in virtù del “gran parlare” di quest’occasione in casa Gerardi, durante tutto l’anno.

            L’appuntamento “gerardiano”, per vari motivi, viene sospeso intorno al 2010, come è stato accennato, e Caterina qualche anno dopo, invita i suoi amici, quelli stabili ovviamente, per la festa del suo ottantesimo compleanno, che doveva svolgersi in novembre del 2020, con la promessa che per l’occasione avrebbe donato loro un CD-video con una sintesi di tutte le “Befane” trascorse assieme. Caso vuole che in novembre del 2020 si è tutti in lookdown: la festa “salta”, ma Caterina, parafrasando colei che ha redatto la prefazione del libro (Rossella Simone) “gioca al rilancio”, per chi scrive “raddoppia la posta in gioco”.

            E così, Caterina, mentre da un lato rinvia la festa per il suo ottantesimo, dall’altra invita gli amici intimi, e via via, col tempo, coloro che in qualche modo si sono intersecati con lei in maniera significativa, a scrivere qualcosa sulla oramai famosissima ricorrenza della Befana in casa Gerardi o, per altro verso, sull’amicizia intercorsa con lei. Il tutto sarebbe stato raccolto in un cahier che avrebbe donato quando sarebbe stato possibile festeggiare tutti assieme il suo ottantesimo compleanno. La risposta al rilancio è corale e massiccia, a tal punto che si presenta necessaria la pubblicazione di un vero e proprio libro. Così nasce il volume in omaggio a Caterina Gerardi, che verrà distribuito poi, tra maggio e dicembre del 2021, non mancando nel mezzo la oramai tanto attesa festa, che si tiene in luglio dell'anno scorso, per l'appunto.

            Ora, che Caterina negli ultimi tre lustri abbia raggiunto l’apice del successo e della notorietà nel mondo della fotografia e della cultura in genere, non spiega la mole dei contributi di amici e conoscenti, che sfiorano i cento e danno vita ad un volume di ben oltre duecento pagine. Peraltro, ognuno di questi appare subito di buon livello e tutti particolarmente interessanti, mostrandoci Caterina nella storia e nei suoi aspetti, a volte inediti e conosciuti solo da pochi. Ma non basta…

            Neanche il carattere della Nostra riesce a dare adeguate spiegazioni su questo speciale volume così condiviso e sentito. E poi, che Caterina sia donna estrosa, ricolma di creatività e buon gusto, assieme a una capacità conviviale non comune non danno una soluzione. È vero, lei è sempre accomodante, anche quando è vistosamente contrariata, ma ciò non ci dice sulla grande e corale risposta di amici vicini e lontani.

            Qualche indizio sulla questione viene dall’analisi dei vari contributi, che lasciano intravedere che Caterina sembra essere un punto fermo in una società convulsa e caotica, perché in continuo cambiamento, un cambiamento senza sosta. E qui, lei appare come una sorta di totem, che allo stesso tempo è anche uno speciale minimo comune denominatore nel quale molta gente si rispecchia e identifica, ovviamente per alcuni aspetti, forse quelli che garantiscono una vita sociale piena, appagante e ricca, la cui ricetta sembra un po’ a tutti quella segreta della nonna, che di sicuro Caterina possiede.

 

Mauro Ragosta

mercoledì 2 marzo 2022

Saper fotografare (parte quarta): storia di un fotografo… continua – di Mauro Ragosta

            Tutto accadde molto rapidamente. Già in settembre di quell’anno, il 1983 appunto, avevo un’attrezzatura fotografica di tutto riguardo: una reflex Yashica, due ottiche fisse ed uno zoom, l’esposimetro, due cavalletti, un flash, un ingranditore con tutti i marchingegni per la stampa in Bianco & Nero. Su tutti i fronti, “dal colore al Bianco & Nero, dal negativo alla diapositiva” le mie esperienze erano ancora minime, ma sufficienti a realizzare immagini di qualità discreta.

            La decisione di immergermi in maniera più pregnante nel mondo della fotografia venne presa in giugno di quell’anno, dopo aver frequentato per circa un mese lo studio pubblicitario di un noto fotografo pubblicitario napoletano, un certo Tanasi, che in ottobre di quell'anno si trasferì a Milano, affermando che la piazza napoletana offrisse poco. Mi ritrovai così nell’ultimo scorcio della sua attività, lì a Napoli, e ancora oggi non so se questa fu una reale fortuna o una vera sciagura.

            Approdai allo studio di Tanasi, grazie al prezioso ”ufficio” di Titti A., una ragazza che abitava al piano sottostante il mio, in via Altamura. Lei apprezzò molto le mie fotografie, soprattutto i nudi, realizzati ad alcune colleghe di università, compiacenti e desiderose di quest’esperienza, al tempo ancora nuova e molto limitata tra noi ragazzi… un’esperienza esclusiva direi!

            Di certo, il mio, era tutto materiale ascrivibile ad un principiante, che non possedeva neanche la macchina fotografica, ma Tanasi, quando vide il lavoro che avevo svolto in quei pochi mesi con attrezzatura imprestata, mi incoraggiò a proseguire e per questo a frequentare il suo studio, che sebbene in dismissione, aveva ancora del lavoro da svolgere sulla piazza napoletana.

            Tanasi aveva non più di quarant’anni e venti di esperienza da fotografo, io appena ventiquattro e tutti dediti allo studio e qualcos’altro di contorno a questo. Sicché, nei pomeriggi nei quali andavo da lui, mi limitai solo ad osservare come si muovesse nel suo studio, tra grafici, modelle e truccatori, tra lavoro sul set e in camera oscura. Era un mondo a me totalmente sconosciuto: impegnato, impegnativo e, allo stesso tempo, totalmente dissoluto, dunque assolutamente perfetto! E così, l’università divenne sempre più una questione noiosa, scontata, prevedibile, con i suoi raccomandati... I programmi poi cominciavano a farsi ripetitivi, e avendo sostenuto, su tutti i fronti -ovvero quello economico, quello giuridico e quello matematico- più di venti esami, questi si presentavano spesso tediosi, se non proprio occasione di pomeriggi avvilenti. Il mondo della fotografia, come fulmine a ciel sereno, mi apparve invece decisamente più ricco, in tutti i sensi, …anche di belle donne.

            E così vidi come si realizzavano le copertine dei giornali di moda e di cultura, come si produceva un catalogo per l’abbigliamento, ma anche per il design, sotto il profilo grafico e quello fotografico, come si progettava un book per modelle o per uomini pubblici. Appresi le problematiche per le foto di cosmesi e per la stampa di manifesti giganti. Insomma, in un mese e mezzo capii che quel lavoro presentava molti aspetti non solo interessanti, ma anche accattivanti, se non proprio ammalianti.

            Per l’estate del 1983 tornai a Lecce ed invece di godermi le vacanze sulle spiaggie di Gallipoli, rimasi in città e mi misi a dare "ripetizzioni private" a tutto spiano: servivano soldi! Tra preparazioni agli Esami di Stato, che mi fruttavano ciascuna tra le 700 e le 800.000 Lire, e le preparazioni agli esami di riparazione, in settembre, raggranellai circa tre milioni e mezzo (di Lire, ovviamente) che impiegai in massima parte per comprare tutta l’attrezzatura necessaria per un approccio di buon livello, all'arte fotografica.

            In ottobre, le mie esperienze in questo ambito cominciarono a crescere ad un ritmo che presto divenne esponenziale. Non era affatto semplice realizzare una buona fotografia: le varianti in gioco erano numerosissime e il materiale non consentiva né l’errore né un margine operativo ampio, al contrario di oggi dove gran parte dei problemi tecnici sono stati superati, grazie ad una tecnologia che a quel tempo non si riusciva neanche ad immaginare. Quello che oggi si può realizzare con un cellulare di medio livello, al tempo era pressoché irraggiungibile e ci si poteva avvicinare solo in virtù di una conoscenza molto profonda dei materiali a disposizione, un’assoluta precisione nell’utilizzo e una mentalità matematica spinta…

            Insomma, per me in autunno il tempo passò sempre più velocemente, tra prove e controprove, per comprendere le caratteristiche delle pellicole, e non solo in relazione alle marche, ma anche in funzione della loro sensibilità, le caratteristiche dei vari tipi di diapositiva, il tutto declinato tra materiale per produzione a colori e materiale per la produzione del Bianco & Nero. Per quest’ultimo poi, occorreva conoscere tutti i chimici per lo sviluppo non solo delle carte, ma anche delle pellicole, tutti diversi per marche e caratteristiche, e lo stesso valeva per le carte che si utilizzavano per la stampa.

            Il grande problema, che oggi pare essere superato, non stava soltanto nell’imparare a mettere a fuoco e trovare la giusta esposizione, che oggi si ottiene quasi sempre in automatico, ma si sostanziava soprattutto nella gestione della cosiddetta “latitudine di posa”, ovvero l’ampiezza tra il punto più chiaro e quello più scuro di una struttura fotografica. Questa al tempo era minima e poco modulata, nel materiale a disposizione sul mercato, al contrario di oggi, dove all’interno di un’immagine, da scattare o da stampare, l’ampiezza della “latitudine di posa” è cinquanta volte maggiore e spiccatamente più modulata. Chiunque, oggi, può realizzare una foto di buona qualità, un tempo, invece, prerogativa solo di fotografi molto esperti e meticolosi conoscitori di tutti i materiali necessari.

            Sicché, da ottobre del 1983 fino a marzo del 1984, gran parte del mio tempo lo trascorsi imparando l’uso di tutto quel materiale. E cioè fino a quando in aprile realizzai il primo lavoro per il quale vi fu un riconoscimento monetario, un sollievo finanziario che cominciò a compensare le mie fatiche di quell’anno trascorso ad apprendere l’arte della fotografia, quella dell’illudermi e dell’illudere...

 

A venerdì 18 marzo…

 

Mauro Ragosta

 

2310....

mercoledì 23 febbraio 2022

Recensione n°21: l’ultimo lavoro di Anna Troso …in crescendo – di Mauro Ragosta

 

            È da pochi giorni in libreria l’ultima pubblicazione di Anna Troso, già nota ai lettori di Maison Ragosta per i suoi temi così intriganti e che incuriosiscono soprattutto i più esigenti. Questa volta il focus dell’azione letteraria della Troso si sposta sulle origini del mondo dell’Alta Moda del Novecento, dettagliando la vita e le problematiche delle due principali stiliste, dalle quali “tutto parte” per dare luogo alla moda di oggi, alla nostra.

            Il prezioso volume della Troso, edito da Salento d’Esportazione, già nel titolo mette in luce il gran fermento nel mondo dell’Haute Couture dei primi del Novecento, tempo di grande rivoluzione nel sistema socio-economico dell’Occidente, il cui epicentro nell’ambito del comparto tessile e dell’abbigliamento, vede Parigi, quale capitale e metropoli indiscussa e trainante in tutto il Mondo.

            E così, Anna Troso, dopo aver esordito nel 2020, e nel 2021 aver portato a termine due splendidi lavori, in un crescendo di qualità, quest’anno propone Coco e Schiap – due splendide rivali di un’irripetibile Epoca. Qui si sottopongono al lettore, ripercorrendone le tappe fondamentali, le vite delle protagoniste indiscusse per la moda femminile, del Novecento: Gabrielle Chanel detta Coco ed Elsa Schiaparelli detta Schiap.

            Alla prima sono da ricondursi il famosissimo “tubino” e le magliette alla marinara nonché l’intramontabile profumo “Chanel n°5” come anche l’introduzione del pantalone svasato per la donna. Ad Elsa vanno altri primati, tra i quali il golf con scollatura a V, ma anche l’ingresso nell’alta moda del “Rosa Shocking”. Va da sé che la produzione delle due stiliste fu enorme e segnante, tale da svecchiare i costumi ottocenteschi delle donne, per adeguarli alla moderna cultura metropolitana ed internazionale della donna dell’upper class europea, fatta di ritmi più veloci e di un ventaglio di interessi decisamente più ampio rispetto al passato.

            Si potrebbe pensare che il prezioso lavoro della Troso sia tutto al femminile e solamente per le donne. Ed invece no! La lettura di Coco e Schiap costituisce uno spaccato indispensabile da conoscere sotto i profili non solo del costume, ma anche del grande meccanismo della moda, ed in particolare dell’Alta Moda, che oggi in Italia è uno degli assi portanti della sua economia.

            Ma c’è di più. Nel bel volume della nostra scrittrice leccese, particolare risalto viene dato al complesso degli artisti, dei poeti e letterati, dei musicisti, degli aristocratici, ma anche agli uomini di potere e di Stato che intersecarono le vite delle due stiliste a vario titolo. Due protagoniste, che in qualche modo furono rivali, ma che nella buona sostanza interpretarono la donna moderna sotto angolazioni completamente diverse e non  necessariamente concorrenti: Coco puntava alla linearità, la Sciap si proponeva in chiave molto più artistica ed elaborata, rimanendo tutte e due sul piano delle esigenze della donna moderna.

Due donne di estrazione sociale molto diversa (Elsa era un’aristocratica italiana) che hanno lasciato un segno e un’eredità imponenti. Va infatti sottolineato che Maison Chanel è oggi, dopo il rilancio negli anni ’80, con Carl Lagerfeld prima e Virginie Viard, poi, la più importante casa di moda nell’ambito del Luxury a livello mondiale, mentre in fase di fortissima ascesa è la “Maison” Schiaparelli, ad opera di Diego della Valle, che nel 2014 ha rilevato le strutture produttive e il marchio.

Insomma, la Nostra Anna in quasi duecento pagine, oltre che descrivere più aspetti, anche quelli più intimistici, delle due note stiliste, che gravitavano attorno a Place Vendome a Parigi, riesce a far immergere il lettore in atmosfere “da sogno” ed in particolare di quelle della prima metà del Novecento, tra i respiri e i fermenti del Liberty, la nuova arte, con in testa Salvator Dalì, gli intrecci politici e nobiliari, che caratterizzarono l’upper class europea.

 

Mauro Ragosta

giovedì 17 febbraio 2022

Saper fotografare (parte terza): storia di un fotografo …continua – di Mauro Ragosta

         Spesso la vita ti prende tanto dolcemente che tu non te ne accorgi se non molto tempo dopo, a volte anni, quando oramai non ti è consentito più tornare indietro dal mondo nel quale lei ti ha inserito. Così fu per me che non compresi subito il valore e la portata di quel piovoso martedì del marzo 1983. Non ebbi alcun sospetto, e per lungo tempo, che quell’incontro, quello con l’attrezzo fotografico e dunque col mondo della fotografia, fu il primo di una serie interminabile di giornate passate con lui e tutti i suoi accessori. Certamente, come le grandi storie d’amore, la relazione con la parte amata è come ad un elastico che a tratti si accorcia e a tratti si allunga, a volte si tende, altre si addolcisce, non mancando lunghe pause e silenzi e assenze, che si contrappongono a notti infuocate di passione.

         Ad ogni modo, due settimane dopo quel fatidico incontro, Raffaele, il mio compagno di camera, lì a Napoli dove frequentavo la Facoltà di Economia, un lunedì si palesò con una “vera” macchina fotografica, una fiammante reflex che suo zio gli aveva imprestato per qualche tempo. Non era un attrezzo di grido, come una Nikon o una Canon, o meglio ancora come una Leica o una Contax, o addirittura come una Rolleiflex o una Hasselblad, ma neanche un tipo di marche più abbordabili ed economiche, come la Yashica o la Olimpus. Era una Zenit, una fiammante Zenit di produzione russa, che costava circa ottantamila Lire. Molto economica rispetto alle altre, ma l’aspetto -almeno così m’apparve- era proprio quello di una reflex importante. Il suo prezzo era di molto al di sotto rispetto a quello di una ordinaria, che variava partendo da trecentomila Lire per superare il milione di Lire e a volte i milioni di Lire, ma aveva tutto quello che mi interessava: il mirino col pentaprisma e il pulsante di scatto. E questo bastava!!!

            Nei giorni seguenti, nel tempo libero, mente mi divertivo a guardare la Realtà dalla finestrella della fotocamera, mi feci spiegare i rudimenti tecnici per realizzare una fotografia. Così seppi che bisognava sempre misurare la luce e decidere la coppia di diaframma e di tempo dello scatto. Nelle settimane che seguirono cominciai ad acquistare i giornali specializzati, come Fotografare, Reflex, Il Fotografo, e leggendoli appresi che esistevano diversi obiettivi, che si identificavano con la distanza tra la lente e la pellicola. Ognuno di essi offriva una versione diversa della Realtà, e la “questione” mi intrigò ancora di più: diverso era osservarla con un obiettivo da 50 mm, rispetto a quella offerta da un 135 mm o un 28 mm e via dicendo.

Non tardò molto tempo quando acquistai un rullino da 36 fotogrammi per fare i primi esperimenti. Qui, immediatamente si palesò la grande delusione, quella che segue l'innamoramento e ti permette di entrare nel mondo dell'amore! Quello che vedevo dal mirino non coincideva con la foto stampata su carta fotografica. Insomma, le emozioni che mi dava la Realtà vista dal mirino della Zenit non coincidevano con quelle che dava la stampa dell’immagine impressa sulla pellicola e trasportata su carta fotografica.

E la cosa si complicava: di fatto ero impedito a poter conservare quelle emozioni che mi aveva provocato la Realtà vista dal mirino. Ecco, ero impossibilitato a proiettare per lungo tempo quello che la Realtà mi concedeva tramite la Zenit.

Insomma, con sempre più insistenza, mi interessava proprio questo, ovvero congelare, fissare, rendere “immortali” certi momenti vissuti con la Zenit e per mezzo della Zenit, ma ciò non pareva possibile. E così le illusioni che produceva e concedeva l’attrezzo fotografico, come nascevano così morivano, avevano una vita effimera…istanti, solo istanti, che dovevo lasciare andare: cercavano e ottenevano la loro libertà!

            La vita dietro la fotocamera, poi, in breve tempo si era trasformata in una vita parallela, che, come quella reale, non poteva essere fissata, ma al contrario di questa, la vita “alternativa”, la vita delle illusioni aveva qualche spiraglio operativo e d’azione per la sua fissità e fissazione, in virtù delle opportunità tecnologiche che il grande mondo della fotografia offriva.

            La possibilità di fissare e riprodurre un’illusione mi apparve subito una questione di capitale importanza nella mia vita.  La Realtà, d’altro canto, non filtrata dalla fotocamera era in parte oramai noiosa, in parte troppo dolorosa. E poi, l’università a quel tempo non dava più alcuna emozione: studiavo meccanicamente come ad un operaio con un salario garantito: sapevo lavorare, lavoravo e guadagnavo poco rispetto alle mie aspettative: il 30/30 non mi bastava più, mentre l’attrezzo fotografico, col suo mirino dava emozioni, anche importanti, e a ripetizione.

            Sicché, il vero problema che si pose in quel tempo della mia vita napoletana ed universitaria, fu quello di eternare, ed in definitiva dominare, le illusioni di pregio che offriva la Realtà vista dal mirino della Zenit. Vivere di illusioni, dunque? Volevo questo? Ebbene, sì! …e capii subito che quella era una possibilità per farla franca rispetto alla Vita…

Mauro Ragosta (2310)

giovedì 3 febbraio 2022

Saper Fotografare (parte seconda): storia di un fotografo… – di Mauro Ragosta

 

            Prima di addentrarci nelle questioni rilevanti dell’arte del fotografare, vale la pena raccontare in maniera problematica la storia di un fotografo, la mia per l’appunto, per osservare e comprendere le principali situazioni e vicende che ci si può trovare davanti durante l’esperienza con gli attrezzi fotografici. Certamente, la storia di cui si narrerà non sarà esaustiva di tutti i nodi dell’arte, ma sicuramente ne metterà in luce alcuni di particolare rilievo, soprattutto per chi si accinge alla carriera di fotografo nella prospettiva più squisitamente artistica, o comunque senza pretese professionali o commerciali, richiedendo queste ultime considerazioni diverse e ulteriori.

            Narrerò la storia in prima persona, affinché il lettore di Maison Ragosta possa immedesimarsi con più pregnanza in quelli che sono i problemi, il sentire, le aspettative, le difficoltà, le gioie e le sconfitte, legate all’arte fotografica, dove le contingenze storiche mai devono mancare, giocando sovente un ruolo decisivo.

            Correva il marzo del 1983 e nel primo pomeriggio di un martedì uggioso, ricolmo di nubi e una sottile pioggerellina, noi universitari leccesi trasfertisti a Napoli, chiacchieravamo dopo aver pranzato in orario molto tardo, intrattenendoci seduti tutti attorno al tavolo della cucina. Ad un tratto, comparve il quarto inquilino di quella casa in via Altamura, sita al Vomero: Massimiliano. Lui era l’unico napoletano in casa, era avanti con l’età in qualità di studente -aveva forse 29 anni- e frequentava ancora la Facoltà di Architettura. Più che l’impegno universitario, il caro Massimiliano, in verità, amava molto le donne e la bella vita, approfittando a piene mani della benevolenza del padre, un ricco imprenditore partenopeo.

Si presentò in cucina con in mano una bellissima macchina fotografica: una Canon. Da persona benestante e alla ricerca delle più disparate esperienze di vita non poteva non praticare la fotografia, esercizio a quei tempi prerogativa di chi disponeva di danaro in maniera più che sufficienza. Di certo, molti, ma non tutti, al tempo avevano piccoli attrezzi fotografici da utilizzare nelle “feste comandate” o per qualche gita fuoriporta. Lui, Massimiliano, invece, usava la macchina fotografica, la reflex, in tutte le occasioni, con la scusa che per fare progetti e quant’altro legato ai suoi “lunghi studi”, bisognava essere molto abili nel suo utilizzo. Sicché, si esercitava.

            L’atmosfera, in quella cucina al terzo piano di un anonimo palazzo napoletano, era molto distesa e la conversazione fluiva agilmente e in maniera soddisfacente, quando la mia attenzione cadde prepotente sul quella Canon. E fu naturale chiedere a Massimiliano di farmi dare un’occhiata più da vicino a quella che al tempo era tecnologia avanzata e simbolo del benessere e del lusso. Lui, il baronetto napoletano -così lo appellavamo- acconsentì ed io ebbi per la prima volta tra le mani una reflex. Avevo 23 anni e non nascondo che quando l’apparecchio fu in mio possesso sentii una forte emozione e, assieme, un certo imbarazzo: era una novità nella mia esistenza, che mi spinse ad un fare circostanziato, prudente e -perché no?- anche di grande reverenza… verso l’attrezzo, ovviamente.

            Da lì il passo di guardare nel mirino fu breve. Fu un attimo quando posai l’occhio sul bordo della piccola finestrella. E così, mi avvicinai all’attrezzo e caddi nell’affascinante quanto seducente e meraviglioso mondo della fotografia. Resistervi? E chi ero io per vocarmi a simile santità?

         Guardare la Realtà dal mirino della fotocamera mi ammaliò immediatamente. Da quel mirino la Realtà era qualcosa di diverso, era più bella, compatta, confortante, dava all’essere una certa forza in termini esistenziali. Tutto attraverso quel mirino appariva molto più entusiasmante. La Realtà, quella circoscritta, proprio come accade guardando attraverso la “finestrella” della fotocamera, si presenta, infatti, sempre come un universo compiuto, perfetto in sé, dando così all’osservatore l’idea di possederla pienamente, la sensazione di forza e dominio della stessa. Insomma, dietro la fotocamera ci si sente, allo stesso tempo, vivi e potenti, come io in effetti mi sentii.

            Guardare dal quel mirino significava far quadrare un cerchio che viceversa non quadra mai, rendere qualcosa imperfetta ed ineffabile in qualcosa totalmente definito… Ecco, quella Canon mi diede l’impressione di possedere la Realtà, che sino ad allora era stata per me sfuggente, imprendibile, non contenibile, equivoca. Un’illusione? Sicuramente, come sicuro apparve subito la decisione di abbandonarmi alla tentazione, alla lusinga, alla velleità che offriva l’attrezzo fotografico.

Di lì a poco restituii la Canon, marchingegno che per me fu sin da subito vettore di magie, e la riunione pomeridiana …di quel pomeriggio bigio, nuvoloso, ma che segnò irreversibilmente la mia esistenza… si sciolse in maniera disinvolta.

            Andammo a letto presto quella sera e, mentre scambiavamo le ultime battute col mio compagno di camera, un certo Raffaele, posi il quesito di come fare ad avere una reflex per fotografare. Volevo fotografare. Volevo avere una relazione più profonda con quell’attrezzo, il cui sortilegio mi aveva irrimediabilmente stregato. Ad ogni modo, dopo qualche minuto chiusi gli occhi e mi addormentai…

 

…a fra 15 giorni

 

Mauro Ragosta (2310)

 

Ph: F.M.

mercoledì 19 gennaio 2022

Recensione n°20: Carlo Stefanelli e le sue coincidenze sincroniche – di Mauro Ragosta

 

            Non è possibile, per Maison Ragosta, non argomentare sul primo lavoro della casa editrice Oltre con sede a Maglie in provincia di Lecce, facente capo all’omonima associazione, il cui presidente Cosimo Damiano Cartelli, gestisce i suoi diversi rami d’attività, tutti incastonati in pochi principi, che in sintesi possono raccogliersi nel servizio e nel supporto al cittadino comune.

            In tale direzione le Edizioni Oltre si propongono di costituire uno sbocco per scrittori e poeti che hanno intenzione di divulgare la loro cultura, per lo sviluppo della cultura stessa in tutti gli strati sociali. In verità, il settore dell’Arte, dello Spettacolo e della Cultura in provincia di Lecce presenta numeri importanti, sia in termini assoluti sia in termini relativi. E non solo, sia per quanto riguarda gli operatori di base, ma anche per ciò che concerne i fruitori. Qui, il valore aggiunto delle Edizioni Oltre sta nel valorizzare gli aspetti più veri dell’arte scrittoria e non solo locale, quella meno filtrata dai processi economici e commerciali, e –perché no?- dello star system locale e nazionale. È con tale spirito che viene “varata” la prima pubblicazione: Taranis di Carlo Stefanelli.

            Si tratta di un “giallo” che si inserisce in un panorama letterario di genere di certo non molto sviluppato nel leccese, ma anche nel brindisino, avendo invece questo una tradizione più spiccata nel tarantino e nel barese. La giallistica in verità in provincia di Lecce compare dopo il 2000 ed in forma episodica, per diventare un fenomeno letterario solo nell’ultimo lustro, in cui si registra un corpo di pubblicazioni e un gruppo di scrittori significativi, ma sicuramente non paragonabili ai circuiti della poesia e della narrativa in genere. Tutti scrittori, i giallisti, che comunque non sono alla prima pubblicazione come anche il nostro Carlo Stefanelli.

                                              Cosimo Damiano Crtelli e Carlo Stefanelli
 

            Originario salentino, nello specifico di Tricase, il nostro autore è alla sua seconda esperienza editoriale: nel 2019 pubblica con Albatros “Ricomincio dal cuore”, lavoro spiccatamente autobiografico che ripercorre gli anni dell’adolescenza di Carlo. Dopo due anni, poche settimane fa, ha presentato, a Muro Leccese “fresca di stampa” la sua ultima creazione: Taranis, un romanzo giallo/noir in stile Ellery Queen. Un lavoro a lungo pensato e desiderato, rientrando peraltro nei sogni giovanili.

        Qui, il protagonista è Johnny Sparco, un investigatore privato della Little Italy Newyorkese. Lo scenario nel quale Johnny si muove è quello degli anni ’40 del secolo scorso, e prevalentemente a New York, ma non solo, ovviamente. Lui, Johnny è il tipico uomo newyorchese: divorziato, amante della torta di mele e del whisky, solitario e grande fumatore, squattrinato come tanti altri italoamericani dell’epoca.

Nei labirinti socio-politici, non sempre allineati ai principi di libertà americana, soprattutto a New York, dove la mafia fa sentire forte la sua “voce”, Johnny Sparco riesce a risolvere un “mistero” salvando da morte certa un presunto omicida.

Un romanzo con uno stile letterario secco, un’orpelleria aggettivale e avverbiale minima, che alleggerisce la lettura, e con una penna tenuta ferma sulla trama, nei suoi molti elementi, tutti essenziali, avvincono il lettore, che riesce perfettamente a calarsi nelle atmosfere americane, essenziali ed efficaci.

Ma lo specifico del romanzo sta nelle coincidenze! Coincidenze spaziali, ma anche temporali, tra passato e presente, quello nostro, quello in cui viviamo, facendo così accesso il lavoro di Stefanelli nel mondo dell’anistoria, dove non esistono effettivamente un tempo e un luogo specifici, ma solo fatti sospesi nella Realtà. Proprio questa specifica connotazione, rende il “giallo” di Stefanelli qualcosa di prezioso sia in sé sia perché conduce in dimensioni esistenziali spesso inedite.

Un romanzo, dunque, che si distingue nella produzione non solo locale e regionale, ma anche in ambiti più ampi, toccando in effetti rami del sapere non sempre specificatamente letterari, e che invece riguardano materie poco trattate nella narrativa corrente. Una novità, quindi? Domanda, la cui risposta viene lasciata al lettore, in quest’esperienza, che potrebbe essere unica…

 

Mauro Ragosta

 

Nota: per chi fosse interessato alla mia produzione di saggi, può cliccare qui: https://youtu.be/lhdKGKUfH6Q


mercoledì 12 gennaio 2022

Saper Fotografare (parte prima): Le premesse – di Mauro Ragosta

            Molti gli argomenti in cui i lettori di Maison Ragosta si sono intrattenuti nei suoi tre anni di attività letteraria: un ventaglio in cui ciascuno dei temi posti sotto la lente d’ingrandimento è sempre stato trattato con una visuale ad ampio spettro, dove l’interdisciplinarietà l’ha fatta da padrona. Oggi, alle più di quindici rubriche che hanno fatto compagnia non solo ai lettori italiani, ma anche ad un ricco parterre internazionale -che costituisce più del 30% dei suoi utenti- Maison Ragosta ne assomma un’altra, nella convinzione e nell’auspicio di interpretare gli interessi, ma anche le aspettative di gran parte dei suoi follower.

          Si parlerà di fotografia, questa volta. Un’attività e un’arte accessibili a tutti, contrariamente a quanto avveniva appena vent’anni fa. Il diletto fotografico, infatti, è stato sempre molto costoso e non solo per il valore delle necessarie attrezzature per praticarlo, ma soprattutto per il costo unitario di un fotogramma, il cui valore oggi è pressoché nullo. Circostanza quest’ultima che ha reso possibile a tutti l’esercizio della fotografia, soprattutto ai più giovani. Ma, attenzione, questo non significa saper fotografare, tutt’al più potrebbe intendersi come realizzare una fotografia. Il sapere fotografico, infatti, non è connesso alla capacità di imprimere un’immagine su un supporto. È la differenza che passa tra uno scrittore ed una persona che sa leggere e scrivere. In tale direzione moltissimi sono, oggi, gli scrittori e i fotografi, ma molti di meno sono coloro che posseggono le arti della scrittura e della fotografia. Così come non è sufficiente compilare un po’di pagine, magari raccolte in una bella pubblicazione, allo stesso modo non è sufficiente realizzare un po’ di immagini tecnicamente ineccepibili.

            Oggi, l’informatica e la tecnologia, in senso lato, rendono possibili molte forme espressive, ma questo non significa possedere un sapere artistico o letterario, o addirittura musicale. In poche battute, tutto si può risolvere nella seguente circostanza, ovvero che mentre per il “dilettante” il realizzare un’immagine o una pagina scritta sono l’obiettivo principale, il vero scopo, il “miracolo” insomma, per chi possiede il sapere, il vero problema da risolvere è formulare il pensiero retrostante ad un’immagine o ad un pezzo letterario, ad uno spartito. Attenzione, anche dietro ad una foto-ricordo si intravedono la cultura ed i saperi di chi realizza l’immagine!!! E così troviamo gli analfabeti funzionali della fotografia, come anche gli esteti, ma anche, tra gli altri, i filosofi, gli esoterici e i politici a vari livelli, gli storiografi, i narratori ed i poeti.

            Ed ecco che, su queste basi si muoverà la nostra rubrica, che illustrerà le cognizioni di cui dotarsi per realizzare un’immagine nella quale si rispecchino tutta la vostra cultura, tutta la vostra personalità, tutte le vostre strategie esistenziali, che coagulandosi in un’immagine sono capaci di arrivare in maniera efficace alla mente e al cuore del vostro interlocutore. Molto si dirà dunque di problematiche tecniche, ma molto di più ci si soffermerà sugli aspetti comunicativi e psicologici, centrali nell’arte della fotografia.

            Il punto di partenza di questa nuova rubrica, Saper Fotografare, sarà la narrazione della mia quarantennale esperienza di fotografo, nella quale sono presenti un buon numero di argomenti e variabili dell’arte fotografica e di chi vi è approdato da poco tempo: serviranno poi come casi concreti a cui rifarsi. Da qui, ci si addentrerà in varie problematiche, da quelle volte ad intercettare chi è il fotografo e chi è il protagonista di una fotografia, le questioni di retorica, le implicazioni psicologiche dell’arte, la gestione dell’emotività, l’utilizzo dell’intelletto, le fasi di costruzione di un’immagine, fino ad arrivare a come realizzare un album di pregio o il cosiddetto book fotografico. Insomma, si tratterà di fotografia artistica, escludendo quella professionale, che pure in questa cionondimeno si innesta. Dunque, buon viaggio a tutti…

 

Mauro Ragosta

 

Nota: chi fosse interessato alla produzione di saggi di Mauro Ragosta, può cliccare qui di seguito per le principali delucidazioni:
https://youtu.be/lhdKGKUfH6Q 

 

domenica 26 dicembre 2021

Stile & Buongusto (parte tredicesima): L’uso della mascherina – di Mauro Ragosta

 

         Non sono passati ancora due anni da quando si è sollevato, soprattutto in Italia, un gigantesco polverone informativo, senza precedenti e tutto centrato sull’emergenza sanitaria.

            Si è detto di tutto e di più, in stile mantra. E non basta! Si è detto tutto e il contrario di tutto. E così, paradossalmente, alla fine non s’è detto niente: due forze uguali e opposte, come tutti sanno, si annullano. Rimangono, però, i fatti, ovvero le raccomandazioni vaccinali accoppiate con l’uso della famigerata mascherina, dove in alcuni casi sono obbligatorie e comunque si pongono come condizione sine qua non.

            Circa le sollecitazioni vaccinali nulla v’è da dire sul piano dello stile e del buon gusto. L’assunzione del vaccino o meno rientra, in linea di principio e di fatto, nella sfera dell’esercizio della propria libertà di scelta, che richiede in ogni caso un’assunzione di responsabilità e il farsi carico degli effetti indesiderati legati alla scelta appunto, in un senso o nell’altro. E questo sia sotto il profilo sanitario, ma anche sociale e politico. In questo ambito v’è solo da rilevare che il prodigarsi del popolo nell’esortazione reciproca alla scelta dell’una o dell’altra opzione, ha solo condotto, in molti casi, ad un becero tentativo di sopraffazione vicendevole, decisamente di pessimo gusto e deprecabile.

            D’altro canto, forse, ci si è adoperati in maniera eccessiva nelle esortazioni al rispetto dei consigli e delle regole del Governo, anzi “quest’eccesso di zelo” -così poco caratteristico del cittadino italiano, almeno riferendosi agli ultimi cinquanta anni- ha fatto perdere di vista a non poche persone il gusto e lo stile nel gestire l’uso della mascherina. E si allude solo al ricorso dell’intelligenza in ciò, che spesso ha condotto a rasentare il comico, ma anche a questioni che di rimandano attengono direttamente al rispetto del prossimo.

            Sicuramente, è inquietante vedere una persona sola in aperta campagna intenta a praticare del footing, utilizzando la mascherina in pieno luglio e a mezzogiorno. Come altrettanto inquietante è vedere una persona sola alla guida della propria auto che indossa una mascherina: tale pratica non solo è farsesca, ma anche pericolosa per sé e per gli altri. E vale la pena sorvolare su quei casi in cui alcuni flautisti hanno tagliato la mascherina ad hoc per poter suonare il proprio strumento.

            Vedere poi gente anziana in bicicletta così bardata fa tenerezza e pena. In questi casi, spesso non è questione di ignoranza, ma di poca robustezza mentale per capire che in età avanzata è mortale andare in bicicletta indossando una mascherina.

            È vero, si potrà affermare che la legge non ammettendo ignoranza, induce a simili eccessi, ma dall’altra proprio essendo astratta, va sottolineato con forza che la legge non vale per il caso concreto, e quindi deve giustamente essere interpretata, altrimenti siamo nella follia.

            L’uso della mascherina, infatti, per rientrare nella pratica del rispetto degli altri e dunque del buon gusto, senza ledere il rispetto della legge, richiede dunque intelligenza, capacità critica e di discernimento. D’altro canto, lo stile e il buongusto sono prevalentemente questione di acume, legato alla capacità di valutazione di tutti i casi che la vita ci sottopone. Sovente, regole precise per avere stile, non ve ne sono, pur essendoci dei principi ispiratori, quali appunto il rispetto per il proprio prossimo, il culto della propria e altrui autonomia, la voglia di interfacciarsi in maniera leale, sportiva, per quello che è possibile, ovviamente, e per quello che ci è dato.

            In tale quadro, quando ci si presenta tra estranei è rispettoso e doveroso mostrare il proprio volto e pretendere di vedere il volto dell’interlocutore. Sicché, in tali occasioni ci si deve per qualche istante, ovviamente mantenendo le distanze, abbassare la mascherina e farsi riconoscere. È assolutamente inquietante e disorientante parlare con una persona di cui non si conosce il volto.

            Ciò vale anche per quando si entra in un negozio, soprattutto di lusso, magari una gioielleria, soprattutto per tranquillizzare l’operatore commerciale, il quale è sempre in tensione vedendo entrare nel proprio esercizio gente senza un volto, e temendo quasi sempre e giustamente che tra questa possa nascondersi qualche malintenzionato. Sicché un tal gesto si presenta di vera gentilezza e fair play.

         Anche negli uffici pubblici sarebbe auspicabile mantenere quest’impostazione come forma di cortesia e di garbo, sapendo che per “l’altro” un volto incognito è fattore stressante sotto vari punti di vista, e di certo della propria sicurezza in senso ampio, si fisica sia psicologica.

            Circa l’uso degli igienizzanti per le mani è cosa buona e giusta, anche quando finirà la pandemia.

            Come al solito, Maison Ragosta cerca di offrire degli spunti di riflessione, anche per idonei approfondimenti, che per quanto e quello che si è esposto, siano sintetici e allo stesso tempo sono fortemente raccomandati. Certamente, in una società così rumorosa come la nostra, pare essere questa proposta che “lascia il tempo che trova”, ma non una volta “la bottiglia” lasciata alle onde del mare ha trovato un suo destinatario, regalandogli così la “mappa del tesoro”.

 

Mauro Ragosta

           

           

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giovedì 16 dicembre 2021

Stile & Buongusto (parte dodicesima): …col partner – di Mauro Ragosta


            Avere uno stile sobrio, elegante, raffinato nella relazione col proprio partner è questione eminentemente legata alla propria cultura, intesa non di certo come somma delle nozioni ed informazioni che si posseggono, ma di quel complesso di conoscenze ed esperienze che si traducono nel proprio modo di pensare e agire. Si può essere, ad esempio un professore, ma non per questo essere un uomo o donna di cultura, al contrario si potrebbe avere come lavoro il mettere in sesto i giardini e contrariamente ai luoghi comuni più diffusi, essere un uomo di grande cultura.

            Spesso si confondono, infatti, l’erudizione, e tante volte per i più ingenui, anche la ricchezza, quali componenti distintivi dell’essere di una persona di buona cultura. Questa si intravede e si vede dalle soluzioni che si danno alla propria esistenza, al proprio agire e al proprio pensare, dove alcune caratteristiche sembrano il minimo comune denominatore. E così in prima battuta un uomo o una donna, di cultura hanno una vita e un pensiero articolati, non complicati, ma complessi; in genere, sono centrati su sé stessi in un equilibrio apprezzabile tra vita solitaria e riservata, e vita sociale, tra interno ed esterno negli aspetti espressivi, insomma sanno parlare, ma sanno anche tacere. In tutto questo, l’uomo o la donna di cultura danno soluzioni al proprio ambiente, al proprio lavoro e alle proprie relazioni secondo sensi e significati assolutamente personali e molto precisi e mai attinenti a questioni di quantità. La quantità di informazioni che si posseggono dipende, poi, dalla vita che si è scelta.

Circostanza rilevante, quest'ultima, ma non decisiva per essere qualificato quale soggetto di alta cultura. Nell’immaginario collettivo il possedere molte informazioni viene interpretato come segno sicuro di buona cultura, quando invece è solo una questione di potere, che c’entra ben poco con la buona cultura e ancor meno con lo stile ed il buongusto.

Premessa, questa, necessaria per intercettare gli elementi cardine del rapporto col proprio partner in un quadro di buona educazione, intelligenza e soprattutto di uno stile distintivo. Tra questi, di sicuro la gelosia è quel sentimento che attenta ad ogni relazione e ne compromette la bellezza. Ogni azione vistosamente dettata dalla gelosia è una dichiarazione di inferiorità e di incapacità, la quale si presenta con enfasi maggiore, quanto maggiore è il desiderio di esclusività richiesta al proprio partner. Va da sé che una persona di buona cultura e dunque di stile ha una vita alquanto articolata, dove la relazione con la persona amata ne costituisce una parte. Sicché, il corto circuito si ha quando uno dei due ha la necessità di un controllo sempre maggiore della vita dell’altro, sopraattutto se all’interno di contesti molto strutturati.

In ogni caso, una manifestazione di gelosia è una dichiarazione di sconfitta ed incapacità del tutto inopportuna: è come sedersi al tavolo da poker e rifiutare di aver perso una mano o una partita: siamo sul ridicolo!

            Un’altra questione attinente al buon gusto col proprio partner è connessa alla richiesta esplicita dell’essere sinceri o di riferire la verità su una circostanza. L’uomo di stile e buona cultura ovviamente comprende che l’esistenza umana è fatta di contraddizioni e ambivalenze, talché richiedere la “verità” è richiesta di sicuro banale, a volte squallida, dove si evidenzia, nel caso, tutta la propria incapacità di comprendere le principali dinamiche dell’esistenza. E se proprio si hanno bisogno di alcune “verità” sul proprio partner è bene ricercarle senza il suo aiuto e senza andare a spiare nei suoi cassetti, nel suo telefono mobile o questioni assolutamente riservate, senza pedinamenti e quant’altro. Ognuno ha diritto alla propria riservatezza che mai deve essere infranta se si volesse rimanere sul piano dell’eleganza.

            In tale direzione, un’altra “regoletta” molto importante per fare assumere bellezza e raffinatezza al rapporto col partner risiede nella circostanza per la quale non gli si deve chiedere mai più di quello che lui voglia dirvi e condividere. Attenzione, dunque, alle questioni che ponente e alla formulazione delle vostre domande, facilmente si scivola nel pessimo gusto. E stessa regola vale anche nei frangenti più intimi e riservati, dove tutti gli sforzi devono essere tesi ad abbandonare le istanze più spiccatamente individualistiche, per dare spazio al dialogo, alla “conversazione”: qui intelligenza e creatività rappresentano la discriminante.

            Insomma, bisogna aver sempre presente che il proprio partner è un’entità distinta e autonoma, e in quanto tale deve essere trattata, escludendo qualsiasi desiderio di conquista, in senso di sopraffazione e privazione della libertà, soprattutto interiore. Oggi, infatti, le violenze psicologiche, con l’innalzamento del livello culturale, sono una grande tentazione a cui bisogna in maniera netta rinunziarvi, siate voi maschi o femmine, non avendo queste connotazione di genere.

            E per concludere, qualche altra indicazione facendo ricorso al bon ton classico, soprattutto per gli uomini. È buona norma, quando il proprio partner entra nella vostra auto, avere l’accortezza di aprirgli lo sportello, e quando si va in un locale pubblico, all’entrata l’uomo deve precedere la donna, mentre all’uscita si procede al contrario. In casa, poi, va stabilito il leader convenzionale, che in genere è il maschio, sicché quando si ricevono gli amici, deve essere sempre la moglie o la donna a procedere nelle questioni attinenti all’accoglienza, mentre spetta al marito sempre gestire le conversazioni senza mai far intravedere chiaramente il proprio ruolo o far pesare la propria posizione di forza: la persona forte, d’altro canto, non ha mai bisogno di dimostrare alcunché.

            E come al solito, si ricorda che sull’argomento trattato non si ha la pretesa di essere esaustivi, ma dare alcuni spunti di riflessione, utili per approfondimenti e riflessioni di sorta, al fine di arricchirsi nella maniera desiderata.

 

Mauro Ragosta

 

Nota: chi fosse interessato alla produzione di saggi di Mauro Ragosta, può cliccare qui di seguito per le principali delucidazioni:
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giovedì 2 dicembre 2021

Saperi & Sapori (parte decima): Il Cioccolato – di Antonella Ventura



         E non poteva mancare nella nostra Rubrica, Saperi & Sapori, una nota esotica e che richiamasse a strutture di gusto che vanno a colpire le alchimie affettive e di intimo conforto, in tutte le declinazioni. Eh sì, non poteva mancare il cioccolato, “una pillola” per ogni occasione che sia un bisogno di coccole, un placebo per la nostra malinconia o un messaggio che racconti emozioni.

            Da sempre il cioccolato non è stato mai associato a ciò che è realmente: cibo, alimento. È per noi qualcosa di diverso, sicuramente edule, che appartiene quasi esclusivamente al mondo complesso dei sensi, presi nel loro complesso. Non lo consideriamo un alimento o un cibo stricto sensu, ma qualcosa che è capace di tangere l’anima, di farci sorridere, di procurare gioie intime e sottili. Il cioccolato, insomma, è qualcosa di diverso, sia essa in barrette sia essa in forma liquida.

Tutti i dizionari della lingua italiana lo definiscono una miscela di zucchero e cacao, dall’elevato valore energetico tanto da essere recriminato come alimento ingrassante, anche se le ultime ricerche scientifiche proverebbero esattamente il contrario. Un trucco che pochi sanno, con riferimento alla cioccolata liquida da bere in tazza, è che per addensarla basta aggiungere una piccola quantità di fecola o maizena e per i palati che amano osare una piccola percentuale in purea di polpa di caco o di zucca cotta.

Il cioccolato, suprema alchimia, pura trasformazione di pochi e semplici ingredienti in un vero e proprio elisir dell’anima, che ne integra gli opposti, eccita il fisico e appaga quelle parti più immateriali di un essere umano. È il “Cibo degli innamorati”, il regalo per eccellenza che sussurra “Ti voglio bene, tengo a te”.

 Una piccola dose di questo alimento stimola la serotonina aumentandone l’influenza sessuale e l’eccitamento, adducendo euforia e benefici al sistema cardio-vascolare. Esso contiene prevalentemente cacao che è l’unico alimento in natura a contenere l’anandamide, individuata come “la molecola della beatitudine”.

Su queste sue caratteristiche si è sviluppata la credenza che fosse un afrodisiaco naturale. Sicché in tale direzione molti registi hanno giocato per trarne film capolavori assoluti di sensualità. Al riguardo, non può non ricordarsi “Chocolat” con Jonny Depp e Juliette Binoche, film in cui il cioccolato diventa trasgressivo quasi scandaloso perché risveglia i desideri repressi di chiunque lo assaggi; “La fabbrica del cioccolato” tratto dall’omonimo romanzo di Roald Dahl, grande e invitante sceneggiatura che descrive con effetto e umorismo difetti e virtù umane; e ancora “Lezioni di cioccolato” interpretato da Luca Argentero, film romantico per piacevoli serate.

Amore al primo morso quindi, che sia fondente o speciale, cioccolato speziato o con frutta secca, agrumato, al peperoncino o squisiti cioccolatini ripieni al liquore, caffè o crema o che si tratti di un’ottima tazza di cioccolata, con panna montata e confettini pralinati. Insomma, basta un morso o un sorso per ritrovare, anche nella vita frenetica di oggi, gusti antichissimi e ricercati di un tempo, sacre memorie, tanto antiche da risalire a migliaia di anni fa, ma anche tanta serenità e gusto per la vita.

La leggenda narra che la nascita del cacao risalga ad una principessa azteca che lasciata sola a guardia del tesoro della sua città, si sia fatta uccidere pur di non confessare il nascondiglio, ma che dal suo sangue caduto sulla nuda terra nacque la pianta di cacao, i cui semi appunto risultano amari come la sofferenza, ma anche forti ed eccitanti come le virtù dimostrate dalla fanciulla coraggiosa.

In effetti il cacao venne coltivato per la prima volta dai Maya nella penisola dello Yucatan e furono poi gli Aztechi nomadi, percorrendo le pianure del Messico settentrionale e le steppe sud occidentali, a sentire il bisogno di fare di questo prodotto una bevanda, probabilmente consumata durante le cerimonie in onore della dea della fertilità Xochiquetzal e a volte miscelata con sangue degli stessi sacerdoti o dei sacrificati in suo nome.

 Il cacao prende così il nome di “Cibo degli dei” e tra gli Indios utilizzato addirittura come moneta di scambio. Fu nel 1502, dopo il quarto viaggio di Cristoforo Colombo, che il cacao entrò per la prima volta in Europa per essere mostrato alla regina Isabella di Spagna, ma solo con Cortez, vent’anni dopo, fu preso in considerazione per il suo attuale valore.

Alla fine del diciottesimo secolo nasce il primo cioccolatino da salotto, ma è Caffarel di Torino, che nel 1826 riuscì a garantire per la prima volta la distribuzione in larga scala. Nel 1852, sempre a Torino, Michele Prochet crea la pasta gianduia grazie all’aggiunta di farina di nocciole tostate, dando vita al gianduiotto precursore della amata Nutella. Il cioccolato? Un prodotto tutto italiano. Inizialmente ostracizzato dalla Chiesa Cattolica, per poi essere cosi tanto apprezzato da essere consentito dal Papa anche durante i giorni di digiuno.

E per concludere, una curiosità che non tutti sapranno: a Modica in Sicilia è l’unico posto al mondo dove si può gustare il cioccolato in tavolette fatto secondo l’antichissima ricetta dei popoli Aztechi, oggi, resa ancora più originale dall’aggiunta di carruba e valorizzata col marchio IGP.

 

Antonella Ventura