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sabato 4 maggio 2019

Dalla Seconda alla Terza Repubblica (parte quinta): Lo smantellamento dei diritti dei lavoratori - di Massimiliano Lorenzo




Un’importante pagina di storia per il Bel Paese fu, senza dubbio, quella scritta da lavoratori e Governo, nell’ormai lontano 1970. Per gli operai e per i dipendenti fu l’anno nel quale questi videro riconosciuti vari diritti e libertà, due su tutti: la possibilità di essere reintegrati in casi di licenziamenti senza giusta causa e la possibilità di organizzare presidi sindacali nei luoghi di lavoro da loro vissuti. Ciò di cui parliamo è la legge nazionale numero 300/70, al secolo definita  “Statuto dei lavoratori”.
Quella che la Treccani definisce “la fonte normativa più importante dopo la Costituzione” ha vissuto un lungo e accidentato percorso, prima di potersi dire compiuta. Fu Giuseppe Di Vittorio, il primo ed il più importante sindacalista a chiedere una norma che tutelasse i lavoratori, vero motore per un’economia industriale. Di Vittorio lanciò questa proposta ben 18 anni prima dell’emanazione dello Statuto, dal palco del Congresso CGIL di Napoli, nel 1952.
Fu il governo di centro-sinistra Rumor con il Ministro del Lavoro Giacomo Brodolini, sostenuto tra gli altri da Democrazia Cristiana e Partito Socialista, a portare a compimento il disegno di una legge a difesa dei lavoratori e a mettere in pratica il dettato costituzionale, sull’iniziativa economica a fini di utilità e dignità sociale, contenuto nel secondo comma dell’articolo 41.
Sebbene riguardi vari aspetti, come si diceva nell’incipit di questo scritto, lo Statuto dei Lavoratori è conosciuto e sintetizzato in uno dei suoi articoli più rappresentativi, ovvero l’articolo 18. Era, insomma, quell’elemento che metteva al riparo il dipendente dalla possibilità di essere licenziato senza una giusta causa e di non essere reintegrato. Era, così, poi proprio dalla parte di chi teoricamente si pone al fianco dei lavoratori, che si è pensato che non fosse più necessaria quale tutela e principio del vivere sociale futuro. Ora, infatti, qualunque dipendente può essere licenziato per cause economiche (anche solo paventate, e i casi di delocalizzazione lo dimostrano) o per motivi legati all’organizzazione interna. Insomma, il cosiddetto padronato ha il coltello dalla parte del manico, potendo decidere della sua iniziativa economica, anche in contrasto col fine sociale di questa definito nella Costituzione italiana.
Dopo 44 anni di vita, però, proprio da chi storicamente aveva difeso i diritti dei lavoratori, arriva la distruzione di questo importante strumento di protezione per operai e dipendenti. Prima il governo Monti, sostenuto tra gli altri dal Partito Democratico di Matteo Renzi, con la legge Fornero, e poi il governo della coalizione Renzi-Alfano hanno praticamente distrutto lo Statuto e l’articolo 18 con il Jobs Act, tra il 2012 e il 2014. Proprio quel governo a guida Pd renziano è riuscito a fare ciò che nemmeno ai governi Berlusconi era riuscito. Il Partito Democratico - figlio legittimo del più grande partito comunista d’Occidente – ha ribaltato la tutela sui luoghi di lavoro: dal lavoratore al datore di lavoro. La ratio era quella di allargare le maglie giuridiche in materia di lavoro, per una supposta maggior possibilità di investimenti “perché con l’articolo 18 i manager erano troppo ingessati”. Ad un lavoro già precario, si è sommata, dunque, la tagliola sui diritti, oramai praticamente inesistenti. Il boom di assunti, previsto e motivo fondante dell’abolizione dell’art.18, com’è noto, non c’è stato, come, del pari, anche l’andamento del PIL, segna una grave depressione, nonostante in Italia il mercato del lusso proprio in questi anni segna un boom senza precedenti.
A ben guardare, dunque, la parabola dei diritti a garanzia dei lavoratori ha conosciuto il suo apice con la legge 300/70, per poi iniziare la sua discesa, a tratti molto ripida, ma che non ha ancora toccato il fondo, forse. Il capitalismo continua, insomma, a permeare e conquistare spazi, specie riguardo alle regole per gli investimenti e le loro dinamiche, che enfatizzano l’accumulazione di capitale ed i profitti, anziché “distribuire” benessere a tutti. Gli Stati e le loro istituzioni sono sostanzialmente alleati dei colossi del commercio e dell’industria, sicché i lavoratori sono stati schiacciati e la cui ripresa in termini di capacità contrattuale e sociale non si riesce ad intravedere neanche per i prossimi cinquanta anni.
Massimiliano Lorenzo

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