Centoventi per cento,
centoventitre per cento, centoventinove per cento, centotrentuno per cento.
Questa è solo la parte finale della serie crescente del debito pubblico
italiano. Un indebitamento che nel 2013 ha superato la cifra record di 2000
miliardi di euro arrivando a circa 2.300 miliardi, a fronte di un prodotto
interno lordo, un reddito di cittadini ed imprese, di circa 1600 miliardi. Ma
che significa praticamente? Che su ogni cittadino italiano, bambino, adulto o
vecchio che sia, grava un debito di circa 40.000 euro. In altre parole, una
famiglia di tre persone, ad esempio, ha un debito contratto dallo Stato di
circa 120.000 euro. Cifra questa non preoccupante dal momento che il patrimonio
medio della famiglia italiana è di circa 300.000 euro.
Prima di entrare nei
gangli di cifre e percentuali, ci si deve chiedere chi ha dato credito allo Stato italiano.
Ovvero il com’è composto il debito pubblico italiano. Chi detiene i 2.286
miliardi del nostro debito? Limitandoci alle macroare, possiamo dire che il 32%
è in mano ad investitori stranieri (principalmente banche tedesche e francese),
mentre il 33% è in quelle italiane; il 19% appartiene a fondi ed assicurazioni
nazionali ed internazionali; mentre, il 16% è nella pancia di Banca d’Italia ovvero
della BCE. In altri termini, noi italiani dobbiamo dare alle banche straniere,
soprattutto francesi e tedesche ,circa 7.00 miliardi di Euro e alle banche
italiane qualcosa in più di 700. Sono state dunque le banche a sostenere le
spese dello Stato italiano, praticate col deficit di bilancio.
Prendendo in esame
l’andamento del debito pubblico italiano degli ultimi 25 anni, si può notare
come questo cresca in maniera costante e come esploda, ovviamente, nell’anno
immediatamente dopo la crisi del 2008, quando passò dal 106% del Pil al 116%
del Pil. Ma perché questa sovraesposizione spropositata?
Per rispondere occorre
capire che una prassi consolidata dello Stato italiano con l’avvento della
Seconda Repubblica è stata quella di aumentare il debito pubblico in proporzione
all’aumento del reddito dei cittadini. Se questo meccanismo ha funzionato sino
al 2008, quando il debito si attestava intono al 105% del reddito dei cittadini
e delle imprese o PIL, più tecnicamente, ed era rimasto stabile per tutta la Seconda
Repubblica, anzi a tratti diminuendo, col Governo Monti questo rapporto comincia
a crescere rapidamente. Perché? Perché a partire da tale Governo la prassi è
stata quella di aumentare il debito in maniera più che proporzionale rispetto
al reddito dei cittadini, che invece si contraeva. In altre parole, mentre per
effetto della crisi, il reddito dei cittadini non cresceva o cresceva poco, il
debito italiano continuava ad aumentava rapidamente, nonostante in questi anni sia
stato introdotto il principio costituzionale del pareggio di bilancio e
aumentato rapidamente il prelievo fiscale, che tuttavia non è riuscito ad avere effetti
compensativi. Che significa tutto questo? Che lo Stato italiano nell’ultimo
decennio, mentre avrebbe dovuto essere più parsimonioso nel distribuire il
danaro pubblico, ha speso in maniera talmente crescente che ha portato ad un
indebitamento, in un certo senso, insostenibile e posto se stesso sotto scacco
rispetto al sistema bancario, al quale ha fatto ricorso “per trovare i danari
da spendere”, mettendo in serio pericolo il suo potere di
autodeterminazione e la libertà dei suoi
cittadini.
Ma facciamo un passo indietro per avere dei dati comparativi e per concludere questo breve spaccato,
al fine dare un quadro più esaustivo nei confronti di questo aspetto della vita
italiana.
La serie storica del debito pubblico ha visto
nell’ultimo secolo e mezzo quattro principali fasi di boom. La prima di queste si fa risalire alla fine dell’‘800, a
seguito della “grande depressione”, alla quale, per la sua ampiezza temporale e
di settori colpiti, gli storici hanno legato il termine “crisi”. Di lì a pochi
anni, una seconda fase di espansione del debito pubblico si ebbe nel primo
dopoguerra, quando nel 1920 il debito pubblico toccò la percentuale del 160%.
Ma vi erano le spese per lo sforzo bellico, un’Italia da ricostruire,
infrastrutture da rimettere in piedi e una popolazione da assistere, dopo un
conflitto sanguinoso come quello della Prima guerra mondiale.
La terza pagina storica
di questa serie è rinvenibile nel periodo tra le due guerre mondiali, quando la
famosa crisi del 1929, del venerdì nero
di Wall Street, e la grande depressione fecero nuovamente gonfiare il debito
pubblico del Regno d’Italia. Se, comunque, nel 1934, il debito calcolato era
l’88% del Pil, l’entrata in guerra nel secondo conflitto mondiale lo portò al
108%. Positivi saranno poi i successivi vent’anni, nei quali l’indebitamento si
sgonfiò, grazie al boom economico della seconda ricostruzione ed un tasso medio
di crescita del 5% e all’insediamento di governi spiccatamente liberali, dove
intorno al 1970 il debito italiano, in rapporto al prodotto interno lordo, si
era contratto attestandosi intorno al 40%. Dai primi anni ’70 però, con l’espansione
del pubblico impiego e l’avvio del welfare
state, cominciò nuovamente a crescere rapidamente arrivando alla fine della
Prima Repubblica, nei primi anni ’90, intorno al 100% del PIL, rimanendo
piuttosto stabile sino a una diecina d’anni fa, come s’è visto.
Massimiliano Lorenzo
Nessun commento:
Posta un commento