Di recente Papa Francesco
ha sottolineato una «eccessiva rivendicazione di sovranità da parte degli
Stati» che quando degenera in un «nazionalismo conflittuale», produce «razzismo
o antisemitismo».
V’è, poi, chi è convinto
che il nazionalismo abbia origini del tutto simili al razzismo, trovando giustificazione,
tale sommario pensiero, nella semplice esistenza di confini geografici, di una
lingua o di una religione in comune o, più semplicemente, di una pietanza,
ragion per cui se mangi patate sei tedesco, se mangi pasta sei italiano, se sei
islamico sei arabo e così via. Secondo questa corrente di pensiero il conflitto
israelo-palestinese sarebbe dovuto a idee nazionaliste, di fatto non è per
nulla territoriale, ma ideologico-religioso. Se così fosse, perfino il tifo per
una squadra rientrerebbe nei canoni del pensiero nazionalista.
Così sul parallelismo “razzismo/nazionalismo”, attualmente
imperante, se ne dicono di tutti i colori. Ma, forse, non è come sembra. La
storia insegna.
Il razzismo si consuma
laddove c’è lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, di un popolo su un popolo. Esso
risiede nelle mire imperialiste di intere nazioni, come la Francia sull’Africa,
l’Inghilterra sull’India, la Germania nazista sull’Europa, l’Europa sull’America,
dove si è consumato il peggior olocausto della storia, quello dei nativi
americani, che ha contato 114 milioni di morti in 5 secoli. Il razzismo abita
dove governa ogni sorta di autoritarismo e con esso convive.
Fino a poco tempo fa era
sufficiente considerare “l’altro” come un “diverso”, dove il significato di
questo lemma era quello di “essere inferiore”, “reietto”. L’oppressione, e nei
casi più gravi la soppressione, era il prezzo che gli indigeni dovevano pagare
per la “modernizzazione” introdotta dal popolo conquistatore, il quale aveva
diritto ad insediarsi in quella terra e sfruttarne le ricchezze in quanto “essere
superiore”. Questo è il razzismo. Una prassi sociale, spesso politica, che è
assurta a ideologia ed ha fatto milioni di morti. Ad uccidere è la discriminazione,
l’intolleranza, l’apartheid, non il nazionalismo. Esso è recupero di identità.
Più semplicemente, è l’uscita dall’internazionalismo di origine proletaria e
dal globalismo economico: in termini più semplici, dal sovversivismo e dall’anarchia.
Il razzismo è guerra,
attacco, offesa. Il nazionalismo è difesa dei propri confini, della propria
terra, non della propria etnia. Il nazionalismo sta dalla parte degli ebrei,
degli indiani d’America, degli africani e degli indiani che per secoli hanno
subito soprusi, perché esso non sfrutta, non aggredisce, non uccide: unicamente,
difende. Razzista è chi invade, chi uccide, qualunque sia il metodo adottato,
non chi è invaso e depredato: quest’ultimo è nazionalista.
La relazione tra schiavo
e nazionalista, entrambi vittime dell’invasore, è affine ed esattamente
contraria a quella che intercorre tra razzismo e nazionalismo. La differenza
tra i primi due è nel grado di civilizzazione: lo schiavo tenta di difendere i
propri confini e diventa nazionalista quando riesce a scacciare l’invasore e a
liberarsi dalle catene dello sfruttamento. Il nazionalista può, a sua volta,
divenire invasore e, quindi, razzista. Il confine è labile, la differenza
sostanziale.
Tra il nazionalismo e il
razzismo vi è un gran vuoto, un precipizio, che non può essere superato se non
con un’azione spregevole come quella dell’invasione dei confini altrui, basata
su una consapevole ed ignobile idea di superiorità o di irrazionale arroganza: quella
che rende il nazionalista schiavo nel tentativo, non belligerante, di difendere
i propri confini. Amare la propria patria non è razzismo, sfruttare quella
degli altri lo è. Ecco perché il nazionalismo e ben diverso dal razzismo.
FLAVIO CARLINO
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