HOME PAGE

martedì 18 giugno 2019

Saper comunicare (parte terza): il taylorismo culturale - di Danilo De Luca



Va subito precisato cosa si intende per taylorismo, prima di trattare, seppur brevemente, la sua applicazione in ambito culturale, ed in particolare nel mondo della formazione di alto profilo, come l’università, o in ambito sanitario, per altro verso. Ma sono moltissimi gli ambiti di applicazione del taylorismo, che tradotto in parole semplici può trovare il termine principe nella specializzazione. Specializzazione che è uno dei motivi che sono causa di una cattiva comunicazione.
         Al di là di ciò, il taylorismo nasce, dunque, per rispondere ad una precisa esigenza, ovvero quella di produrre in grandi quantità un prodotto complesso. Va da sé che l’uso intensivo di operatori/addetti non può essere perseguita se non frammentando il processo produttivo in frazioni piccolissime di fattibilità, accessibile così anche a risorse umane di basso livello. Infatti, un prodotto complesso può realizzarlo interamente solo personale particolarmente qualificato, che sul mercato del lavoro e dei servizi è molto raro e da qui un’impossibilità ad una produzione di massa. Ecco, dunque, le soluzioni di F.Taylor, che formalizzò la sua teoria nel 1911, pubblicando un volume dal titolo Principles of Scientific Management (L’organizzazione scientifica del lavoro), con il quale, da lì a poco, messo in pratica, diede avvio concretamente al fordismo e alla produzione di massa e successivamente applicato in moltissimi ambiti produttivi di più svariata natura, anche nel campo della ricerca scientifica,  consentendo il raggiungimento di risultati importanti. Più nello specifico, il taylorismo consentì l’industrializzazione della scienza, ma anche per quel che riguarda frazioni importantissime anche in ambito culturale e formativo: si pensi all’università. Mai questa avrebbe potuto procedere negli ultimi trent’anni all’alfabetizzazione di una massa enorme di popolazione, se non si fosse proceduto secondo le regole teyloristiche.
Tale modello, che trovò, come s’è sottolineato, applicazione pratica con il Fordismo, non ha mai smesso di evolversi. Oggi, la necessità di figure specializzate ha raggiunto il proprio acme e il principio della professionalizzazione va ormai dettagliandosi verso micro-settori; in una società globale così satura e concorrenziale, il mondo del lavoro premia i professionisti capaci di diventare eccellenti in determinate nicchie di mercato o processo produttivo/servizio, nicchie che si sono fatte via via sempre più specifiche, sempre più piccole, producendo esseri umani, però, incapaci di concepire la complessità, l’intero.
Cosa c’entra tutto ciò con l’incapacità di comunicare, ovvero di comprendere e di farci comprendere? C’entra, eccome. Perché il nuovo assetto non ha a che fare solo con il mondo del lavoro. La società va ora incontro a un processo di specificazione che è anche culturale, estetico, linguistico. Il taylorismo culturale nasce da qui, ed ha come risvolto negativo l’incapacità di scindere il sé professionale dal sé relazionale, anche perché è difficile che un soggetto incanalato in determinato ambito del sapere da solo riesce ad andare oltre il proprio confine di riferimento; il gergo del proprio lavoro diventa il gergo della propria quotidianità, dove l’incomunicabilità trova un alleato in più nel tecnicismo morfo-sintattico. Due soggetti, entrambi acculturati, ambedue professionisti di alto rango e rispettabilissimo status sociale, spesso non sono in grado di interagire, non sono dotati di un bacino lessicale condiviso e comprensibile, univocamente, da entrambi.
Specializzazione e gergalismo si pongono poi in naturale antitesi con l’essenza stessa della cultura di massa, in cui tutti noi siamo imbevuti, operiamo e, tanto per cambiare, comunichiamo, pur trovando origine dal medesimo processo. Da una parte l’egemonia culturale viene esercitata in modo industriale mediante i mass media, abili a propinare modalità comunicative accessibili a tutti, immagini replicabili e comprensibili ad ogni livello sociale e culturale; dall’altra, la stessa società odierna impone, però, una specificazione sempre più sottile, sempre più ghettizzante, che smantella la massa e la confina in liquefazioni di sorta. E in siffatta dinamica, viene meno un linguaggio comune, e così siamo estranei rispetto ai nostri vicini, pur interagendo nei medesimi spazi.
Come risolvere le contraddizioni interne alla società di oggi, all’uomo di oggi? In che modo possiamo riappropriarci di una dimensione comune in cui comunicare e attraverso cui comprenderci? Va da sé che l’elemento centrale che abbiamo perso per strada lungo l’ultimo secolo e passa è proprio un lessico che sia realmente condiviso, trasversale. Il senso di comunità si genera e si cementifica intorno al linguaggio. E se la società è (a quanto si direbbe oggi) irreversibilmente lanciata verso una settorializzazione sempre più differenziante, sta a noi riscoprire un vocabolario comune, attraverso un processo personale di ri-acquisizione delle giuste abilità linguistiche: scindere il nostro lavoro dalla nostra identità e, attraverso tale scissione, recuperare un approccio comune, un linguaggio condiviso, un bacino di significati associante.

Danilo De Luca

Nessun commento:

Posta un commento