Va subito precisato cosa si intende
per taylorismo, prima di trattare, seppur brevemente, la sua applicazione in
ambito culturale, ed in particolare nel mondo della formazione di alto profilo,
come l’università, o in ambito sanitario, per altro verso. Ma sono moltissimi
gli ambiti di applicazione del taylorismo, che tradotto in parole semplici può
trovare il termine principe nella specializzazione. Specializzazione che è uno
dei motivi che sono causa di una cattiva comunicazione.
Al di là
di ciò, il taylorismo nasce, dunque, per rispondere ad una precisa esigenza,
ovvero quella di produrre in grandi quantità un prodotto complesso. Va da sé
che l’uso intensivo di operatori/addetti non può essere perseguita se non
frammentando il processo produttivo in frazioni piccolissime di fattibilità, accessibile così anche a risorse umane di basso livello.
Infatti, un prodotto complesso può realizzarlo interamente solo personale
particolarmente qualificato, che sul mercato del lavoro e dei servizi è molto
raro e da qui un’impossibilità ad una produzione di massa. Ecco, dunque, le
soluzioni di F.Taylor, che formalizzò la sua teoria nel 1911, pubblicando un
volume dal titolo Principles of Scientific Management (L’organizzazione
scientifica del lavoro), con il quale, da lì a poco, messo in pratica, diede
avvio concretamente al fordismo e alla produzione di massa e successivamente
applicato in moltissimi ambiti produttivi di più svariata natura, anche nel
campo della ricerca scientifica, consentendo
il raggiungimento di risultati importanti. Più nello specifico, il
taylorismo consentì l’industrializzazione della scienza, ma anche per quel che
riguarda frazioni importantissime anche in ambito culturale e formativo: si
pensi all’università. Mai questa avrebbe potuto procedere negli ultimi trent’anni
all’alfabetizzazione di una massa enorme di popolazione, se non si fosse proceduto
secondo le regole teyloristiche.
Tale modello, che trovò, come s’è
sottolineato, applicazione pratica con il Fordismo,
non ha mai smesso di evolversi. Oggi, la necessità di figure specializzate ha
raggiunto il proprio acme e il principio della professionalizzazione va ormai
dettagliandosi verso micro-settori; in una società globale così satura e
concorrenziale, il mondo del lavoro premia i professionisti capaci di diventare
eccellenti in determinate nicchie di mercato o processo produttivo/servizio,
nicchie che si sono fatte via via sempre più specifiche, sempre più piccole,
producendo esseri umani, però, incapaci di concepire la complessità, l’intero.
Cosa c’entra tutto ciò con l’incapacità
di comunicare, ovvero di comprendere e di farci comprendere? C’entra, eccome.
Perché il nuovo assetto non ha a che fare solo con il mondo del lavoro. La
società va ora incontro a un processo di specificazione che è anche culturale,
estetico, linguistico. Il taylorismo
culturale nasce da qui, ed ha come risvolto negativo l’incapacità di
scindere il sé professionale dal sé relazionale, anche perché è difficile che
un soggetto incanalato in determinato ambito del sapere da solo riesce ad
andare oltre il proprio confine di riferimento; il gergo del proprio lavoro
diventa il gergo della propria quotidianità, dove l’incomunicabilità trova un
alleato in più nel tecnicismo morfo-sintattico. Due soggetti, entrambi
acculturati, ambedue professionisti di alto rango e rispettabilissimo status
sociale, spesso non sono in grado di interagire, non sono dotati di un bacino
lessicale condiviso e comprensibile, univocamente, da entrambi.
Specializzazione e gergalismo si
pongono poi in naturale antitesi con l’essenza stessa della cultura di massa, in cui tutti noi
siamo imbevuti, operiamo e, tanto per cambiare, comunichiamo, pur trovando
origine dal medesimo processo. Da una parte l’egemonia culturale viene
esercitata in modo industriale mediante i mass media, abili a propinare
modalità comunicative accessibili a tutti, immagini replicabili e comprensibili
ad ogni livello sociale e culturale; dall’altra, la stessa società odierna
impone, però, una specificazione sempre più sottile, sempre più ghettizzante,
che smantella la massa e la confina in liquefazioni di sorta. E in siffatta
dinamica, viene meno un linguaggio comune, e così siamo estranei rispetto ai
nostri vicini, pur interagendo nei medesimi spazi.
Come risolvere le contraddizioni
interne alla società di oggi, all’uomo di oggi? In che modo possiamo
riappropriarci di una dimensione comune in cui comunicare e attraverso cui
comprenderci? Va da sé che l’elemento centrale che abbiamo perso per strada
lungo l’ultimo secolo e passa è proprio un lessico che sia realmente condiviso,
trasversale. Il senso di comunità si genera e si cementifica intorno al
linguaggio. E se la società è (a quanto si direbbe oggi) irreversibilmente
lanciata verso una settorializzazione sempre più differenziante, sta a noi
riscoprire un vocabolario comune, attraverso un processo personale di ri-acquisizione delle giuste abilità
linguistiche: scindere il nostro lavoro dalla nostra identità e, attraverso
tale scissione, recuperare un approccio comune, un linguaggio condiviso, un
bacino di significati associante.
Danilo De Luca
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