Nell’articolo
precedente si sono date alcune delucidazioni sui meccanismi fondamentali
dell’ascolto fra due o più soggetti, all’interno di una dinamica comunicativa
ordinaria, soffermandoci su quella che potremmo definire la parte “passiva”
dell’atto, ovvero il momento in cui tutta la nostra attenzione dovrebbe essere
canalizzata verso l’individuazione delle necessità comunicative del nostro
interlocutore e il suo livello di coscienza e conoscenza. L’ascolto, insomma.
E’ questo un tipo di lavoro che una mente sveglia e ben organizzata compie in
maniera automatica; è propedeutico per la scelta delle argomentazioni e la
selezione del lessico che si adottano e con cui ci esprimiamo, ovvero gli
strumenti che adoperiamo e sono a disposizione per i nostri scambi
dialettici o, talvolta, per i confronti e, se necessario, per lo scontro verbale. Qui,
meglio sapremo selezionare le parole, attraverso un ragionamento rigoroso e che
prenda in considerazione non solo il significato del termine, ma anche la sua
musicalità, la sua storia e, come si accennerà, la sua portata, maggiore sarà
la nostra efficacia comunicativa. In tale prospettiva, raramente non riusciremo
ad ottenere i risultati cercati.
Il nostro scopo,
in un assetto ordinario di scambio di informazioni, dovrebbe essere quello di “lanciare”
le parole giuste al momento giusto, e tali da avere un significato e una
comprensibilità capaci di attivare un’adeguata risposta dal nostro
interlocutore. Per riuscire in questo
intento è bene considerare che le parole non hanno tutte lo stesso raggio
d’azione e portata. Sicché, termini che innescano più collegamenti intellettivi
in un individuo potrebbero non accendere nessuna “luce” in un altro. Si
comprenderà facilmente che un conto è comunicare con un soggetto che abbia nel
suo vocabolario non più di 500-1000 parole a disposizione, un conto è
comunicare con un interlocutore che abbia a disposizione 20-30.000 termini.
Al riguardo, va fatto notare che, una delle
caratteristiche della società dei nostri giorni è, di fatto, l’analfabetismo
funzionale, cioè l’incapacità di comprendere a pieno ciò che si legge e si
ascolta. L’uomo comune dispone di pochissimi vocaboli, quelli essenziali per
una comunicazione pragmatica e spesso commerciale e mercantile. E’ un uomo che
difficilmente utilizza parole con significati astratti. Va da sé che, l’Uomo
colto, istruito quindi, o per lo meno chiunque si prefigga di aumentare la
qualità e l’efficacia della propria comunicazione, deve utilizzare di
norma un lessico di base. Un’attività questa, molto spesso di una certa
complicazione, perché per essere semplici nel proprio dire si devono avere
chiari i propri obiettivi comunicativi e la natura profonda delle
argomentazioni che andiamo ad affrontare. E non solo, anche il ventaglio di
significati di ogni parola. Ad esempio, un esperto in materie economiche può
non essere chiaro nelle sue proposizioni, e ciò avviene spesso, perché il soggetto
non ha chiare le dinamiche e i meccanismi profondi dell’economia. Ed ecco, che
la sua comunicazione, spesso, risuterà incomprensibile, banale se non confusionaria. E ciò accade anche ad un
esperto di filosofia, e anche spesso, perché sovente non si conoscono gli
argomenti nella loro reale essenza, utilizzando così il lessico in maniera scarsamente
efficace. In conclusione, la comprensione profonda delle argomentazioni
proposta e conoscenza profonda del significato dei termini che si usano sono i
presupposti della giusta comunicazione, oltre alla comprensione della geografia
ricettiva del proprio intelocutore.
Va da sé che
l’uso del lessico dipende, in un contesto di reale comunicazione, dalla
situazione in cui si esercita la parola. Se si vuol realmente comunicare in un
ambiente popolare occorre adottare un lessico di base, ovvero parole che sono
di comprensione generale. Non così in contesti più evoluti, in cui un lessico
di base è poco efficace, perché poco preciso e, dunque, inefficace. E qui
bisogna utilizzare un lessico “colto”
A latere, va
considerato che, sovente una delle principali cause di una cattiva comunicazione,
che innesca quindi dinamiche di incomunicabilità, è dovuta all’utilizzo
spasmodico e insensato di virtuosismi lessicali o gerghi specialistici. E qui siamo
nella variante psicologica dell’uso del lessico. I virtuosismi lessicali si realizzano sovente
perché -esattamente come nei problemi d’ascolto- l’interlocutore non ha
intenzione di effettuare uno scambio di informazioni e non utilizza la parola
come mezzo di comunicazione, dunque, ma come mezzo in sé, fine a se stesso,
forse, sovente, come strumento di autogratificazione, o altre, più spesso, per
far pesare all’interlocutore il proprio status culturale e lessicale. In
quest’ultimo caso, la comunicazione reale è sublimata, mentre quella
esplicitata attraverso la parola è solo la scusa, l’occasione per “comprimere e contundere
l’interlocutore”, innescare in lui sensi di minorità, ed indurlo, in qualche
modo, alla subordinazione.
Al di là di ciò
e per concludere questo breve spaccato sulle problematiche del lessico nella
comunicazione, che non è certo esaustivo, ma utile per trarre ulteriori spunti di riflessioni
in merito, va segnalato un esercizio pratico: si provi a fare una selezione del
proprio lessico, scegliendo poche ma essenziali parole e si provi ad esprimere
diversi e sempre più articolati concetti, cercando di non aggiungerne
ulteriori; in altre parole, si provi a sperimentare come con un certo numero di
parole, anche molto piccolo, i concetti esprimibili sono pressoché infiniti. Ed
anche se può sembrare un banale esercizio, gli esiti e i miglioramenti sono
assicurati, e non solo a livello di chiarezza espositiva, ma anche creativo e
logico; oltretutto con le tempistiche comunicative dei giorni d’oggi che sempre
di più si restringono, il rigore espositivo e la sintesi son virtù
fondamentali, non solo se si vuole essere compresi, ma anche per comprendere.
Andrea Tundo
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